CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 luglio 2022, n. 21464
IPAB – Natura di ente pubblico – Requisiti – Violazione della procedura ex art. 33, D. lgs. n. 165 del 2001 – Licenziamento – Nullità
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Torino, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato a R.M. con lettera del 26.6.2017 e conseguentemente condannato la Casa di Riposo “G.” IPAB a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a corrispondergli, a titolo di risarcimento del danno, un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, oltre contributi, accessori e spese del doppio grado;
2. la Corte – per quanto qui ancora rileva – ha ritenuto la nullità del licenziamento in quanto pacificamente intimato senza l’osservanza della procedura prescritta dall’art. 33 del d. lgs. n. 165 del 2001 per il caso di eccedenza di personale nelle pubbliche amministrazioni;
3. a tal fine la Corte di Appello, in difformità dall’assunto espresso dal giudice dell’opposizione in primo grado, ha ritenuto che la Casa di Riposo convenuta in giudizio dovesse ritenersi un ente pubblico assoggettato alla richiamata disciplina; in particolare, ha premesso che, in relazione alla natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza, la natura pubblica o privata di tali istituzioni debba essere accertata dal giudice, indipendentemente dall’esito delle procedure amministrative esperite, alla stregua dei criteri fissati dal D.P.C.M. 16.2.1990, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza; detto decreto ha stabilito all’art. 3 che tale personalità di diritto privato possa riconoscersi alle IPAB che continuino a perseguire le proprie finalità nell’ambito dell’assistenza e nei cui confronti sia “alternativamente” accertato “il carattere associativo”, “il carattere di istituzione promossa ed amministrata da privati”, “l’ispirazione religiosa”, sicché è sufficiente che ricorra nel caso concreto uno dei criteri per ritenere la natura privata dell’istituzione; la Corte ha poi osservato che la Casa di Riposo, in tutti i suoi scritti difensivi, aveva sempre allegato di possedere i requisiti per essere ritenuta “istituzione promossa ed amministrata da privati”; l’art. 5 del D.P.C.M. citato poi stabilisce testualmente che, ai fini del riconoscimento come di natura privata, “sono considerate istituzioni promosse ed amministrate da privati quelle per le quali ricorrano congiuntamente i seguenti elementi:
a) atto costitutivo o tavola di fondazione posti in essere da privati;
b) esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione da parte di associazioni o di soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante;
c) che il patrimonio risulti prevalentemente costituito dai beni risultanti dalla dotazione originaria o dagli incrementi e trasformazioni della stessa ovvero da beni conseguiti in forza dello svolgimento dell’attività istituzionale”; “stante l’inequivoco tenore della disposizione in parola – secondo la Corte territoriale – perché l’ente possa essere riconosciuto di natura privata i tre requisiti debbono necessariamente coesistere, con l’ovvia conseguenza che l’assenza anche di uno solo di essi deve portare ad escludere la natura privata dell’istituzione e ad affermarne, quindi, la natura pubblica”; nel valutare la sussistenza o meno del secondo “elemento”, vale a dire se presso la Casa di Riposo una quota significativa dei membri del C.d.A. debba essere, per disposizione statutaria, di designazione privata, la Corte piemontese ha esaminato lo statuto dell’ente in base al quale risultava che detto C.d.A. doveva essere composto da cinque membri compreso il Presidente e che tali membri erano: il Rettore pro-tempore della Confraternita dello S.S. di Chieri, due componenti nominati dal Comune di Chieri, uno nominato dalla Regione Piemonte ed uno nominato dalla Provincia di Torino-Città Metropolitana; ad avviso della Corte, “una simile composizione dell’organo deliberativo non consente, di affermare che la quota di nomina ‘privata sia significativa, come richiesto dalla lett. b) dell’art. 5 del D.P.C.M.”, atteso che la designazione da parte dei privati di un solo componente (su cinque) del C.d.A. non sarebbe significativa ai fini della gestione ed amministrazione dell’ente, considerando quanto segue: l’art. 20 dello Statuto prevede che le adunanze del C.d.A della Casa di Riposo sono ordinarie e straordinarie e che queste ultime possono svolgersi su richiesta del Presidente o di almeno due componenti del Consiglio o per disposizione dell’autorità cui compete la vigilanza sull’istituzione, con la conseguenza che, a meno che la carica di Presidente sia stata assegnata al Rettore della Confraternita della S.S. di Chieri, le adunanze straordinarie non possono mai essere autonomamente convocate dal membro di designazione privata”; poiché l’art. 21 dello Statuto prescrive che “Le deliberazioni del Consiglio di Amministrazione debbono essere prese con intervento della metà più uno di coloro che lo compongono ed a maggioranza assoluta di voti degli intervenuti”, per la validità della seduta “è sufficiente la presenza di tre dei cinque membri del C.d.A. e che le deliberazioni possono essere assunte validamente con il voto anche solo di due dei tre membri presenti all’adunanza”;
4. per la sentenza impugnata, quindi, “l’assoluta preponderanza della componente ‘pubblica rispetto a quella privata (4 su 5) valutata unitamente all’assenza di ogni previsione statutaria che prescriva come necessario l’intervento del membro di designazione privata sia per la validità delle sedute che delle deliberazioni del C.d.A. rende evidente che la gestione dell’ente risulta affidata a soggetti di parte pubblica e che la presenza del Rettore nell’organo deliberativo ha in concreto carattere essenzialmente simbolico”, con la conseguenza che l’assenza di uno dei tre elementi necessari per configurare l’IPAB come “istituzione promossa ed amministrata da privati” comporta, ad avviso della Corte, che “alla Casa di Riposo debba riconoscersi natura di ente pubblico”;
5. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la parte soccombente con quattro motivi, cui ha resistito il R con controricorso; il P.G. ha illustrato per iscritto le sue conclusioni con cui ha chiesto alla Corte adita di dichiarare l’inammissibilità del ricorso o, in subordine, di rigettarlo;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
Considerato che
1. il primo motivo di ricorso deduce: “impugnazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione nonché per errata e falsa applicazione dell’art. 5 D.P.C.M. 16 febbraio 1990 in relazione all’elemento di cui alla lettera <b) esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione da parte di associazioni o di soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante>” e “conseguente falsa applicazione del Tupi (d. lgs. n. 165/2001) alla fattispecie dedotta in giudizio”; si critica diffusamente la sentenza impugnata per aver ritenuto che la quota del 20% del consiglio di amministrazione nominata dei privati non fosse da considerarsi “significativa”, quando invece tale valore doveva evincersi “dalla disposizione delle tavole di fondazione che non consentono all’ente privato né all’ente pubblico di stralciare o modificare la disposizione che nomina quel componente del consiglio di amministrazione” e ciò comporterebbe che “l’ente pubblico che esercita il controllo sulla Casa di Riposo abbia riconosciuto di non avere la piena potestà su di essa e quindi che essa non è un ente pubblico”; il secondo mezzo deduce: “impugnazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 per omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione nonché per errata e falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 2697 c.c. e art. 5 D.P.C.M. 16 febbraio 1990 in relazione alla prova dei fatti che l’insussistenza dell’elemento di cui alla lettera <b) esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione da parte di associazioni o di soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante>”; si lamenta che la Corte avrebbe omesso “di esaminare gli elementi di fatto che avrebbe dovuto provare il signor R al fine di escludere la significatività della quota di amministratori nominati da privati”;
2. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non possono trovare accoglimento; essi sono innanzitutto inammissibili nella parte in cui denunciano insufficienze motivazionali secondo la formulazione del testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c. non più in vigore e non sindacabili al di fuori dei limiti imposti dagli enunciati di questa Corte a Sezioni unite (sent. nn. 8053 e 8054 del 2014) di cui parte ricorrente non tiene adeguato conto; quanto ai pretesi errori di diritto il Collegio osserva quanto segue; questa Corte a Sezioni unite (Cass. SS.UU. n. 32727 del 2018; n. 1151 del 2012; n. 10365 del 2009; n. 13666 del 2002; n. 4631 del 1998; n. 6342 del 1995) ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 396 del 1988 – che fu chiamata a valutare il contrasto con l’art. 38 Cost. e che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 l. 17 luglio 1890, n. 6972, nella parte in cui non prevedeva che le IPAB regionali e infraregionali potessero continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora avessero i requisiti di un’istituzione privata – la natura pubblica o privata di tali istituzioni deve essere accertata, in concreto, dal giudice ordinario, facendo ricorso ai criteri indicati dal D.P.C.M. 16 febbraio 1990 (ricognitivo dei principi generali dell’ordinamento, e ritenuto legittimo dalla sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 1990), indipendentemente dalle denominazioni assunte dagli enti, dalla volontà dei loro organi direttivi e dall’esito delle procedure amministrative eventualmente esperite;
pertanto, a seguito dell’emanazione del D.P.C.M. 16 febbraio 1990, alle istituzioni assistenziali regionali ed infraregionali va riconosciuta natura privatistica qualora ne risulti accertato, alternativamente, il carattere associativo, quello di istituzione promossa ed amministrata da privati, l’ispirazione religiosa, ovvero qualora ricorrano, congiuntamente, le circostanze:
1) che l’atto costitutivo (o la tavola di fondazione) sia posto in essere da privati;
2) che disposizioni statutarie prescrivano la designazione da parte di associazioni o soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante;
3) che il patrimonio risulti prevalentemente costituito da beni risultanti dalla dotazione originaria o dagli incrementi o trasformazioni della stessa, ovvero da beni conseguiti in forza dello svolgimento dell’attività istituzionale (cfr., tra le altre: Cass. SS.UU. n. 3027 del 2002; Cass. n. 4291 del 2008);
sulla scorta di tali princìpi pacifici questa Corte ha già avuto modo di affermare che la questione della natura pubblica o privata dell’ente, condotta alla luce degli elementi che, ai sensi del D.P.C.M. 16 febbraio 1990, segnalano la presenza di una persona giuridica privata, mediante l’esame dell’atto costitutivo, in una con tutti requisiti previsti dal detto decreto, involge “un giudizio di pieno fatto”, con la conseguenza che laddove “l’accertamento di fatto, così compiuto, è stato interamente svolto […] non può essere ripetuto in sede di legittimità” (in termini: Cass. n. 39532 del 2021), rendendo inammissibili le censure che pretendono un rinnovato apprezzamento di merito;
nella specie, la Corte territoriale, perfettamente consapevole dei princìpi che regolano la materia, ha ampiamente motivato – come ricordato nello storico della lite – il suo convincimento circa le ragioni che l’hanno indotta a ritenere, sulla base di un insieme di elementi di fatto, che la designazione da parte di soggetti privati di un solo componente su cinque nell’organo deliberante dell’ente non rappresentasse una “quota significativa” a mente del decreto citato; si tratta di conclusioni plausibili, che non sono suscettibili di rivalutazione in questa sede di legittimità, e peraltro perfettamente congruenti con un giudizio già avallato da questa Corte, che ha ritenuto non potesse “parlarsi di istituzione promossa ed amministrata da privati, secondo i criteri indicati dal predetto D.P.C.M.” per uno statuto in cui 2 componenti su 8 erano designati da privati (Cass. SS.UU. n. 2011 n 30176), mentre parte ricorrente non fornisce elementi del supposto errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di merito, prospettando soltanto un diverso convincimento (cfr. Cass. SS.UU. n. 1151 del 2012);
3. con il terzo motivo si lamenta ancora una “omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e, segnatamente, circa la sussistenza dell’elemento di cui alla lettera c) dell’art. 5 D.P.C.M: 16 febbraio 1990”; il motivo è inammissibile;
esso, infatti, è privo di oggetto in quanto la Corte territoriale, una volta considerato che l’assenza anche solo di uno degli elementi richiamati dal decreto portasse ad escludere la natura privata dell’istituzione, non ha statuito sul punto censurato dal motivo in esame, evidentemente considerando assorbita la trattazione della questione, difettando comunque il requisito di cui alla lettera b) dell’art. 5 più volte citato;
4. il quarto motivo di ricorso denuncia sempre “omessa e insufficiente motivazione” nonché “errata e falsa applicazione dell’art. 1, comma 58, l. n. 92 del 2012, in relazione alle domande nuove proposte nella fase di reclamo avanti alla Corte d’Appello di Torino, segnatamente la domanda di accertamento della natura di ente pubblico della convenuta”;
la censura non merita accoglimento;
innanzitutto, perché inammissibile, in quanto prospetta un preteso errore di attività del giudice, senza il rispetto dei canoni imposti dal n. 4 dell’art. 360 c.p.c. per gli errores in procedendo;
inoltre, perché infondato, secondo quanto condivisibilmente evidenziato dalla Procura Generale, atteso che l’accertamento della mancata osservanza della procedura prescritta dall’art. 33 del d. lgs. n. 165 del 2001 nelle ipotesi di licenziamento intimato da un ente pubblico presuppone necessariamente l’accertamento della natura giuridica dell’ente e questo è stato l’oggetto principale della controversia, sia in primo che in secondo grado, senza alcun mutamento della domanda, né per il profilo del petitum sostanziale, né per il profilo della causa petendi;
5. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione agli avvocati V., P. e N. che hanno dichiarato di averne fatto anticipo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, con distrazione ai procuratori del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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