CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 giugno 2019, n. 15510
Rapporto di lavoro – Convenzione tra Comune e Consorzio – Perdita del posto di lavoro – Pagamento delle retribuzioni maturate – Configurabilità di una responsabilità risarcitoria del Comune
Rilevato
che con sentenza in data 11 febbraio 2014 la Corte d’appello di Torino, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Comune di Torino avverso la sentenza del locale Tribunale depositata il 6 maggio 2013: 1) dichiara il diritto di G.P. e di numerosi litisconsorti ad essere riammessi in servizio presso il suddetto Comune a decorrere dall’1 gennaio 2013; 2) condanna il Comune a versare ai dipendenti, a decorrere dalla data suindicata, le retribuzioni maturate, oltre agli accessori ex art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994 e ai relativi contributi previdenziali, con detrazione dei compensi eventualmente percepiti e del trattamento di cassa integrazione; 3) manda assolto il Comune dalla condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte da parte del CSEA (Consorzio per lo Sviluppo dell’Elettronica e dell’Automazione – società consortile per azioni) e anche dalla condanna al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni fra febbraio 2011 e febbraio 2012 a decorrere dal 24 aprile 2012.
che la Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il rinvio all’art. 2112 cod. civ. contenuto nelle Convenzioni è da considerare “atecnico”, cioè finalizzato soltanto a garantire i lavoratori dall’eventuale perdita del posto, assicurando loro il “riassorbimento” alle dipendenze del Comune, senza comprendere la solidarietà tra Comune di Torino e CSEA essendo pacifico che dopo la delibera di revoca della convenzione (24 aprile 2012) l’attività di formazione professionale non è stata in alcun modo “reinternalizzata” da parte del Comune;
b) quindi il Comune va mandato esente dalla condanna al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni fra febbraio 2011 e febbraio 2012 e dei relativi contributi previdenziali;
c) alla riammissione in servizio deve essere attribuita la decorrenza unica dall’1 gennaio 2013, dato il divieto assoluto di assunzioni per tutto l’anno 2012;
d) va esclusa la configurabilità di una responsabilità risarcitoria del Comune al riguardo essendosi il Comune trovato nell’imprevedibile impossibilità di procedere alla riammissione per tutto l’indicato periodo;
e) resta estranea alla presente decisione la questione inerente l’inquadramento contrattuale dei ricorrenti a seguito della loro riammissione in servizio presso il Comune, in quanto su di essa non è stata proposta nel ricorso introduttivo alcuna specifica domanda neppure subordinata, tanto che su di essa il primo giudice non si è pronunciato;
che avverso tale sentenza G.P. propone ricorso affidato a quattro motivi;
che resiste, con controricorso, il Comune di Torino, che propone anche ricorso incidentale per due motivi, cui replica il ricorrente principale, con controricorso;
che entrambe parti depositano anche memorie ex art. 380-bis.1 cod. proc.civ.;
che nella memoria per la parte ricorrente l’avvocato difensore comunica l’avvenuto decesso di G.P., in data 11 agosto 2015, chiedendo l’interruzione del processo.
Considerato
che preliminarmente deve essere ricordato che, per costante indirizzo di questa Corte, nel giudizio di cassazione, che è dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto dell’interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e segg. cod. proc. civ. Pertanto, una volta instauratosi il giudizio, il decesso del ricorrente, comunicato dal suo difensore – evenienza verificatasi nella specie – non produce l’interruzione del giudizio (vedi, per tutte: Cass. SU 21 giugno 2007, n. 14385; Cass. 5 novembre 2018, n. 28149).
che il ricorso principale è articolato in quattro motivi;
che con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 2112 cod. civ., contestandosi la statuizione con la quale la Corte d’appello ha escluso che il Comune di Torino fosse tenuto al pagamento in favore del ricorrente (e degli altri litisconsorti) delle retribuzioni non versate dal CSEA (Consorzio per lo Sviluppo dell’Elettronica e dell’Automazione – società consortile per azioni) a decorrere dal dicembre 2011, sull’assunto secondo cui il richiamo all’art. 2112 cod. civ. (contenuto nelle convenzioni del 1996 e del 2007 tra Comune e CSEA) deve ritenersi effettuato “in senso atecnico” cioè finalizzato soltanto a garantire i lavoratori dall’eventuale perdita del posto, assicurando loro il “riassorbimento” alle dipendenze del Comune;
che si sostiene che, invece, tale richiamo era stato fatto senza alcuna limitazione all’intera disciplina dell’art. 2112 cod. civ., comprensiva sia della prosecuzione dei rapporti lavorativi sia della solidarietà del Comune per i debiti pregressi del CSEA;
che con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., contraddittorietà della motivazione con riguardo alla disposta decorrenza della riammissione in servizio dall’1 gennaio 2013, quando invece il giudice di primo grado aveva stabilito che la riammissione dovesse decorrere dalla data suindicata agli effetti economici (in conseguenza del patto di stabilità interno), ma che ai fini giuridici dovesse decorrere dal 24 aprile 2012, data della delibera comunale di revoca della convenzione col CSEA;
che con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. e in stretta connessione con il precedente motivo, violazione dell’art. 78 d.l. n. 112 del 2008 e dell’art. 7 del d.lgs. n. 149 del 2011, sostenendosi che sarebbe “erronea sotto più profili” la motivazione con la quale la Corte d’appello ha richiamato le norme suindicate – che prevedono il divieto di assunzioni agli effetti del patto di stabilità interno – per stabilire che il Comune non dovesse alcuna somma per il periodo 24 aprile 2012-1 gennaio 2013, aggiungendo che il Comune si è trovato nell’impossibilità di effettuare la riammissione in servizio per tutto l’anno 2012, a causa del suddetto divieto da considerare fatto imprevedibile e non imputabile al Comune stesso e che quindi non ne comporta alcun obbligo risarcitorio;
che con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per omessa motivazione con riguardo all’affermata estraneità al presente giudizio della questione inerente l’inquadramento contrattuale dei ricorrenti a seguito della loro riammissione in servizio, sull’assunto secondo cui su tale questione non era stata proposta una specifica domanda;
che il ricorso incidentale è articolato in due motivi;
che con il primo motivo – proposto in subordine all’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale – si denuncia: a) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, rappresentato dal primo evidenziato profilo di nullità della sentenza di primo grado per contrasto tra motivazione e dispositivo (relativo alla decorrenza della riammissione); b) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., al medesimo riguardo; che con il secondo motivo – collegato al primo motivo del ricorso principale – si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della Convenzione del 2007, degli artt. 1362 e ss. cod. civ. in riferimento all’art. 2112 cod. civ., dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, tutti richiamati in convenzione, sostenendosi l’illegittimità per difetto dei presupposti di applicabilità e per violazione dei principi fondamentali del pubblico impiego (in materia di programmazione triennale delle assunzioni) dell’affermata sussistenza di un “rinvio atecnico” al suddetto art. 2112 cod. civ. contenuto nelle convenzioni; affermazione anche contraddittoria rispetto premessa secondo cui la mancata reinternalizzazione del servizio determinava l’inapplicabilità del medesimo art. 2112 cod. civ.;
che il ricorso principale va dichiarato inammissibile; che l’inammissibilità del primo motivo deriva dal fatto che le censure con esso proposte sono formulate – in particolare per quel che riguarda le Convenzioni ivi richiamate – senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti (o atti processuali) è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366, n. 6, cod. proc. civ. (a pena di inammissibilità) e all’art. 369, n. 4, cod. proc. civ. (a pena di improcedibilità del ricorso), indicando nel ricorso specificamente il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (trascrivendone il contenuto essenziale) e fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, onde porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la ritualità dell’allegazione del documento stesso e la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569);
che gli altri tre motivi con i quali si denunciano vizi di motivazione – anche per quel che concerne il terzo motivo, al di là del formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella relativa intestazione, che com’è noto non ha carattere vincolante per la qualificazione del vizio denunciato, poiché è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico„ il contenuto delle censure (vedi, per tutte: Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21484) – sono inammissibili perché nella sostanza le censure con essi proposte si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti;
che si tratta, quindi, di censure che finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dal Giudice del merito, che come tale è di per sé inammissibile;
che a ciò va aggiunto che in base all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. – nel testo successivo alla modifica ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano;
che all’inammissibilità del ricorso principale consegue l’assorbimento di quello incidentale da considerare condizionato;
che le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso principale, assorbito l’incidentale.
Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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