CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 marzo 2020, n. 6681
CCNL Terziario – Inquadramento – Differenze retributive – Contratti a progetto – Generiche indicazioni, elenco delle mansioni da espletare – Mancata specifica individuazione dell’obiettivo da realizzare
Rilevato che
la Corte di appello di Milano, pronunciando sull’appello di I. – (…) – S.p.A. (di seguito, per brevità, I.), in parziale riforma della decisione di primo grado (che aveva dichiarato la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti in causa, con riconoscimento del I livello CCNL Terziario, e condannato la società I. alla ricostituzione del rapporto di lavoro, al risarcimento del danno e al pagamento di differenze di retribuzione), ha riconosciuto il diritto di A. Di P. all’inquadramento nel III livello del CCNL Terziario, con rigetto della domanda avente ad oggetto il pagamento di differenze retributive; ha, quindi, ordinato a I. «il ripristino del rapporto di lavoro e la condanna al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dall’1.11.2015 all’effettiva riammissione nel posto di lavoro» riferite al minor livello riconosciuto; per il resto, ha confermato le statuizioni del giudice di primo grado;
per quanto qui rileva, a fondamento del decisum, la Corte territoriale ha osservato come i progetti dei contratti di lavoro, oggetto di causa, si limitassero a generiche indicazioni, seguite dall’elenco delle mansioni da espletare, senza che vi fosse l’individuazione specifica dell’obiettivo da realizzare; essi, dunque, erano carenti dei presupposti di legge; ha ritenuto, inoltre, che l’art. 69 del D.lgs. nr. 276 del 2003, anche nella versione antecedente le modifiche di cui all’art. 1, comma 23, lett. f., della legge nr. 92 del 2012, ponesse una presunzione assoluta di subordinazione del rapporto di lavoro;
per la cassazione della decisione, ha proposto ricorso I., articolato in tre motivi;
ha resistito, con controricorso, la lavoratrice è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod.proc.civ., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio; la parte controricorrente ha depositato memoria;
Considerato che
con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 c.p.c. – è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 61 e 62 D.Lgs. nr. 276 del 2003;
il motivo investe l’accertamento di non specificità dei progetti e dell’assenza di un risultato finale; secondo la parte ricorrente, diversamente da quanto argomentato dalla Corte di merito, i contratti intervenuti tra le parti contenevano progetti validi, dettagliati e debitamente circoscritti;
il motivo, per come prospettato, è inammissibile; la Corte di appello ha premesso, richiamando alcuni precedenti di legittimità, che il contratto a progetto, per essere corrispondente alla definizione di legge, non potesse limitarsi ad una mera elencazione delle attività da svolgere, dovendo piuttosto enucleare uno specifico obiettivo prefissato dal committente; ha, quindi, concluso, esaminando il contenuto concreto delle pattuizioni intercorse tra le parti, per l’illegittimità di quelli intercorsi tra le parti, carenti dei presupposti di legge;
per i giudici di merito, infatti, i contratti di lavoro, come già esposto nello storico di lite, si limitavano a generiche indicazioni, seguite dall’elenco delle mansioni che la lavoratrice avrebbe dovuto espletare, senza che recassero l’indicazione di un obiettivo da raggiungere;
il ragionamento della Corte di appello è in linea con il principio di questa Corte per cui: «in tema di contratto di lavoro a progetto, la definizione legale di cui all’art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 richiede la riconducibilità dell’attività ad un progetto o programma specifico -senza alcuna differenza concettuale tra i due termini – il cui contenuto, sebbene non inerente ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria attività di impresa, sia comunque suscettibile di una valutazione distinta da una “routine” ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruoli e aspettative di risultato, e dunque caratterizzato da una determinata finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro» (v. tra le pronunce più recenti, Cass. nr. 5418 del 2019);
parte ricorrente, nel dissentire dall’ accertamento compiuto dalla Corte di merito, riporta il contenuto, peraltro parziale, dei contratti stipulati tra le parti e ne assume, invece, la conformità al modello legale; in tal modo, però, le censure piuttosto che prospettare gli (eventuali) errori di sussunzione compiuti dai giudici (attraverso la deduzione del perché, invece, in ogni contratto, dovesse cogliersi il quid pluris idoneo a integrare la condizione di legge – id est: l’obiettivo finale) finiscono per esprimere un mero dissenso al convincimento cui è pervenuto il giudice di merito, così che, in definitiva, schermano una inammissibile deduzione di vizio della motivazione;
con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 c.p.c. – è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli articoli 61 e 69 del d.Lgs. nr. 276 del 2003 e degli articoli 2094 e 2697 cod.civ.; si assume l’errore della Corte di appello per non aver effettuato la minima indagine istruttoria in merito al concreto atteggiarsi del rapporto e per non aver considerato che la lavoratrice non avesse fornito alcun principio di prova dell’eterodirezione;
con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 c.p.c. – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’ art. 69 del d.Lgs. nr. 276 del 2003; la censura investe l’affermata natura di presunzione assoluta della sussistenza di subordinazione, posta dalla norma di legge;
i due motivi, intimamente connessi, possono congiuntamente esaminarsi e sono infondati in relazione al principio, oramai consolidato, per cui: «in tema di lavoro a progetto, l’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 (“ratione temporis” applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all’art. 1, comma 23, lett. f) della l. n. 92 del 2012), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (Cass. nr. 9471 del 2019; Cass. nr. 17127 del 2017; Cass. nr. 12820 del 2016);
sulla base delle esposte considerazioni, il ricorso va dunque rigettato, con le spese liquidate, come da dispositivo, secondo soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. nr. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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