CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2020, n. 14970

Verbale di accertamento – Contratti a progetto – Attività di noleggio di autobus con conducente – Elusione della normativa – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

Rileva che

G.T. di S. G. & C. snc appellava la sentenza del Tribunale di Grosseto pronunciata il 31 gennaio 2000, che aveva rigettato la domanda di accertamento negativo del credito vantato dall’Inps nei confronti della medesima società sulla base di un verbale di accertamento notificato l’8 settembre 2010;

la Corte d’Appello di Firenze con sentenza n. 1265 in data 5 novembre 2013 – 2 gennaio 2014 rigettava l’interposto gravame, condannando l’appellante al pagamento delle spese relative al secondo grado del giudizio, osservando che la pretesa contributiva traeva origine da accertamenti ispettivi riguardanti alcuni lavoratori con i quali l’appellante aveva stipulato contratti a progetto e che la medesima svolgeva attività di noleggio di autobus con conducente. I relativi contratti avevano ad oggetto la “predisposizione in accordo con tour operator o altri committenti privati di gite, servizi turistici, servizi di trasporto di persone”, per cui la specifica mansione assegnata consisteva nella guida di autobus in coordinamento con la società committente per gli aspetti logistici, per la durata di un anno, periodo indicato congruo per ottenere il risultato prefissato nel programma di lavoro. Il corrispettivo consisteva in un fisso mensile con rimborso spese e indennità di trasferta. Contenuti sostanzialmente identici avevano i tre contratti, salvo che per la durata. I tre presunti collaboratori (M.F., A.M. e F.S.) risultavano dunque essere stati assunti per svolgere attività di conducente di autobus da parte dell’azienda che svolgeva attività di noleggio di detti automezzi con autista. Il programma di lavoro si identificava, dunque, secondo la Corte distrettuale, con l’oggetto dell’attività aziendale ed il compito assegnato a ciascuno di essi coincideva esattamente con l’attività svolta dal datore di lavoro. La ricordata ricostruzione normativa della materia aveva trovato una precisa dimensione nel disposto di cui all’articolo 69 del decreto legislativo n. 276/ 2003, che, nell’elidere dall’ordinamento la possibilità di stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa (salvo il regime transitorio), aveva stabilito in ordine al cosiddetto contratto a progetto che in mancanza di quest’ultimo dovesse presumersi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Pertanto, la Corte d’Appello condivideva il principio enunciato da Cass. n. 18692/2007, nel senso che quando la collaborazione si risolva nelle prestazione di attività dell’interno dell’azienda e sia riconducibile a mansioni normalmente svolto in regime di subordinazione opera una presunzione di dipendenze articolo 2094 c.c., laddove, nonostante la stagione di flessibilità che aveva informato i recenti provvedimenti legislativi circa tipi contrattuali alternativi, la regola dell’ordinamento era quella della subordinazione, cioè del prototipo contrattuale, mentre ogni altra ipotesi negoziale inerente alla prestazione d’opera all’interno dell’attività costituiva un’eccezione da provarsi rigorosamente nei presupposti formali, ove richiesti, e sostanziali da parte datoriale. Pertanto, nel caso di specie dalla lettura del “progetto” in questione si ricavava che i lavoratori erano stati incaricati di attività di lavoro strutturato nell’ordinario ciclo lavorativo, laddove il lavoro a progetto doveva intendersi per altro. Infatti, il legislatore del 2003 aveva inteso restringere il campo della possibile collaborazione coordinata e continuativa, riconducendo queste forme ad uno specifico progetto. Dunque, salvo il regime transitorio, il datore di lavoro non poteva utilizzare le forme di parasubordinazione se non nei limiti della nuova previsione, sicché la collaborazione a progetto non poteva intendersi come forma contrattuale spendibile per sopperire alle ordinarie esigenze aziendali. La specificità del progetto e la normale scadenza del contratto (e perciò la temporaneità ontologica della prestazione) costituivano elementi indicativi di una collaborazione estemporanea giustificata da una esigenza anomala rispetto all’ordinario ciclo produttivo. Inoltre, essendo la collaborazione a progetto per definizione temporanea, cioè contenente una previsione di termine esplicita o implicitamente coincidente con la realizzazione del progetto o della fase di lavoro, il relativo contratto era a tempo determinato, da non potersi quindi utilizzare allorché le prestazioni richieste non fossero ontologicamente predeterminabili nel tempo, ma appartenenti alla fisiologica evoluzione dell’impresa. Pertanto, secondo la Corte fiorentina nel caso di specie dalla mera lettura dei progetti si ricavava come essi dovessero ritenersi del tutto inesistenti, in quanto ciò che risultava dedotto in contatto non costituiva un progetto corrispondente alla definizione legale. Era del tutto ovvio, infatti, che la mancanza del progetto dovesse equipararsi all’ipotesi -come quella del caso di specie in esame- nella quale il progetto, pur formalmente enunciato, non corrisponde al modello previsto dalla legge. I pretesi collaboratori in effetti erano stati incaricati di svolgere compiti propri del ciclo produttivo aziendale, del tutto essenziali allo scopo dell’impresa e imprescindibili nell’economia gestionale dell’azienda, conseguendone l’assoluta rilevanza delle modalità di esecuzione della prestazione quanto ad orario e ad impegni. La conseguenza legale della mancanza del progetto era quindi la qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rispetto a quale era dovuta senz’altro la più gravosa contribuzione previdenziale richiesta dall’I.N.P.S.. Sul punto la Corte fiorentina richiamava un proprio precedente giurisprudenziale, nel quale si era rilevato come la stessa interpretazione letterale e lo stesso impianto normativo deponessero inequivocabilmente per la immediata applicazione della presunzione legale di subordinazione, sicché dovendosi presumere il lavoro in fabbrica o più genericamente in azienda di tipo subordinato, secondo Cass. n. 18692 cit., e non avendo parte datoriale fornito la prova della sussistenza di un tipo contrattuale legittimamente alternativo, se ne doveva dedurre il mancato superamento della presunzione. Correttamente il citato articolo 69, pertanto, ricollegava alla mancanza del progetto vero o alla sua esistenza meramente formale la qualificazione del rapporto ex articolo 2094 c.c.;

avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione G.T. di S. G. & C. s.n.c. come da atto spedito per la notificazione 14 aprile 2014, affidato a cinque motivi, cui ha resistito l’I.N.P.S., in proprio e quale procuratore speciale della società di cartolarizzazione dei crediti dello stesso Istituto, S.C.C.I. S.p.a., mediante controricorso del 21-22 maggio 2014.

In seguito, la società ricorrente ha depositato memoria illustrativa ex art. 380-bis 1 c.p.c.

Considerato che

Con il primo motivo la ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione degli articoli 62 e 69 del decreto legislativo n. 276/03, degli artt. 1362 c.c. e 11 disp. gen., 360 n. 3 c.p.c. e 360 n. 5 dello stesso codice, osservando che nell’assenza di chiarezza da parte del legislatore su cosa dovesse intendersi il progetto specifico programma di lavoro o fasi di esso e nella necessità di definire l’ambito applicativo della norma il Ministero del Lavoro con circolare dell’8 gennaio 2004 aveva dato le linee interpretative occorrenti, laddove l’esame e la semplice lettura dei contratti a progetto in questione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, confermava la sussistenza del requisito dell’autonomia con conseguente esclusione di ogni riconducibilità degli stessi nell’ambito della subordinazione, per cui le parti avevano inteso dar vita ad un rapporto lavorativo privo di vincoli, caratterizzato dalla gestione autonoma dell’attività, di cui il giudicante doveva tener conto, dandone una corretta interpretazione secondo le linee guida ministeriali, che avrebbe portato a ritenere sussistente l’autonomia, elemento qualificante della fattispecie. La motivazione dell’impugnata sentenza era assolutamente omessa in modo illogico soprattutto alla luce degli elementi acquisiti atti, quali le dichiarazioni rese dai collaboratori stessi nelle quali era stata sottolineata la propria autonomia, sotto il profilo dell’assenza di direttive, di orari, ma soprattutto sotto il profilo, quasi imprenditoriale, della gestione del lavoro. Sia il S. che il F. avevano infatti dichiarato di essere loro stessi a contattare le agenzie di viaggio, di gestire da soli le gite e i relativi tempi, peraltro relazionato in un momento successivo e non anche preventivamente concordandone con la società le modalità di svolgimento. Altresì in autonomia era stata gestita la manutenzione dei mezzi. Dunque, la Corte territoriale, oltre ad aver omesso di motivare sul punto decisivo, ossia la sussistenza dell’ autonomia contrattuale, non aveva correttamente applicato l’articolo 1362 c.c. in materia interpretazione dei contratti, pur tuttavia esplicitando di aver fondato la decisione solo ed esclusivamente sulla lettura degli stessi. Inoltre, la Corte si era limitata a dedurre la non conformità al modello legale, attesa la asserita mancanza formale di uno specifico progetto con una interpretazione, oltre che restrittiva, non conforme a quella invece affermata nei vari indirizzi giurisprudenziali formatisi in materia, unanimi nel ricondurre la previsione della specificità del progetto e/o del programma di lavoro come caratteristica strettamente collegata all’autonomia caratterizzante la prestazione lavorativa del collaboratore, a sua volta elemento archetipo contrattuale, che non mette a disposizione le proprie energie, bensì una specifica opera o servizio, cui far riferimento i termini del progetto o programma predeterminati dai contraenti, che per rispondere ai requisiti di legge, pur potendo rientrare nel ciclo produttivo dell’impresa e insistere in attività rappresentanti il c.d. core business aziendale, è comunque riconducibile alla tipologia del progetto, essendo connotato da un’autonomia di contenuti. Nella specie non poteva, quindi, ritenersi corrispondente all’oggetto sociale il contratto di collaborazione con i conducenti, che mettevano la propria esperienza maturata negli anni e sul territorio, la loro professionalità e propri contatti a disposizione di un’azienda che noleggiava gli automezzi, trattandosi di un raggiungimento di un risultato come quello di organizzare gite e viaggi in piena autonomia, seppur coordinandosi con le esigenze dell’organizzazione del committente, soprattutto per la parte amministrativa inerente all’assicurazione dei mezzi, agli aspetti economici, il tutto nel rispetto della tipologia contrattuale collaborativa, ciò che non coincideva con il ciclo produttivo per cui era stata esclusa la specificità, laddove inoltre in motivazione era stata omessa la valutazione dell’effettiva volontà dei contraenti di dar vita ad una collaborazione autonoma. Pertanto, non solo vi era stata errata interpretazione del contratto, ma anche decisione fondata su di un indirizzo giurisprudenziale fatto proprio dal legislatore della riforma, e dunque sulla base di una ratio legis di una normativa successivamente modificata, non riferibile ai rapporti in questione per i quali trovava applicazione il previgente testo dell’art. 61 del d.lgs. n. 276-2003, in violazione degli artt. 11 e 12 disp. gen. c.c.;

Con il secondo motivo è stata denunciata la violazione falsa applicazione degli articoli 61 e 69 del decreto legislativo n. 276/03, 2094, 1424 e 2697 c.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex articolo 360 comma primo n. 5 c.p.c., sostenendosi che nel caso di specie la Corte territoriale sembrava aver condiviso orientamento secondo cui in mancanza di un’adeguata individuazione del progetto, operava una presunzione di legge relativa, determinante lo spostamento a carico del committente dell’onere probatorio in ordine allo svolgimento del rapporto con modalità proprie del lavoro autonomo, laddove diversamente opinando si porrebbe un problema di costituzionalità in relazione agli articoli 3, 36 e 38 Cost.. Tuttavia, nel caso di specie la Corte d’Appello aveva errato sotto il profilo logico e in modo contraddittorio nell’applicazione della succitata normativa di cui al decreto legislativo n. 276, avendo da una parte rilevato la sussistenza di una presunzione juris tantum, per cui la società convenuta non avrebbe fornito la prova contraria, mentre d’altro canto non aveva ammesso la prova testimoniale volta superare l’anzidetta presunzione relativa, senza tuttavia fornire motivazione alcuna sulla inammissibilità del mezzo istruttorio e senza che nulla fosse stato eccepito in merito a tale valutazione, sicché erroneamente era stata pure ritenuta una presunzione di dipendenza ex articolo 2094 c.c.;

con il terzo motivo è stata denunciata la violazione falsa applicazione degli articoli 61 e 69 del decreto legislativo n. 276 (del 2003), 2094, 2727 e 2728 c.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex articolo 360 n. 5 c.p.c.. Infatti, la Corte distrettuale -che non aveva ammesso le prove testimoniali valide a superare l’anzidetta presunzione- aveva motivato la mancanza formale del progetto soltanto esclusivamente sul dato formale, avuto riguardo alla mera lettura dei progetti. In altri termini, non soltanto vi era stata una lettura difforme da quanto emergente dal dato letterale dei contratti de quibus, ma l’impugnata pronuncia si fondava sostanzialmente su di un ragionamento presuntivo, senza aver dato corso alla prova del contrario, richiesta da essa ricorrente anche in secondo grado, ciò anche alla luce del fatto che il ragionamento presuntivo non si fondava su di elementi gravi precisi e concordanti. Proprio dalla lettura dei contratti, unitamente alle dichiarazioni rese dai lavoratori (datate 4 ottobre 2010, allegate al ricorso introduttivo del giudizio, quelle riferite al F. e al S., come dichiarazioni sostitutive di atto notorio, previa informativa dalla sig.ra M.M. del disconoscimento dei lavori a progetto con la G.T. di S. G & C. da parte degli organi di controllo dell’INPS) doveva escludersi che alla stregua della comune esperienza potesse considerarsi altamente probabile che gli anzidetti rapporti si fossero svolti secondo le modalità della subordinazione. Ed era inconfutabile la rilevanza delle anzidette dichiarazioni, soprattutto poiché in aperto contrasto con quanto asserito dai verbalizzanti, fatto questo che tuttavia non era stato preso in alcuna considerazione; con il quarto motivo è stata poi denunciata la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e del principio del contraddittorio, nonché la falsa applicazione degli artt. 69 del decreto legislativo n. 276/ 2003, 183, 245, 437 e 112 c.p.c., nonché omissione di un punto decisivo ex articolo 360 n. 5 dello stesso codice, poiché in base a quanto sopra esposto e lamentato la sentenza impugnata risultava viziata per la mancata ammissione della prova testimoniale, che aveva quindi determinato l’omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia. Per contro, risultava evidente che le circostanze, su cui i testi erano stati chiamati a deporre, avrebbero potuto fornire utili elementi ai fini della decisione, in ordine all’autonomia gestionale, funzionale e organizzativa che in realtà aveva qualificato rapporti lavorativi oggetto di accertamento ispettivo e alla conseguente insussistenza della subordinazione desunta sul lato testuale formale del contratto, superabile tramite prova. Per contro, erroneamente la Corte territoriale aveva giudicato non rilevanti le prove richieste, poiché volte a dimostrare le modalità esecutive della prestazione quanto ad orario e ad impegni, mentre le articolate circostanze avrebbero dimostrato l’insussistenza di ordini, direttive e di tutti quegli elementi che andavano a superare la presunzione di legge di subordinazione, provando quindi l’insussistenza dei tratti tipici dello schema negoziale presunto. Infatti, i richiesti i mezzi istruttori avrebbero consentito di dimostrare che le modalità di svolgimento delle prestazioni a progetto in argomento erano state coerenti con le modalità di coordinamento descritte, per cui i lavoratori svolgevano in maniera autonoma la propria attività, organizzando e gestendo la programmazione del lavoro, secondo le proprie esigenze, con utilizzo, custodia e manutenzione dei mezzi, senza vincoli di orario o direttiva alcuna. Dunque, il giudizio di rilevanza non era congruo rispetto ai principi di diritto disciplinanti la prova, nonché alla richiamata presunzione di legge, sicché risultava viziato sotto il profilo logico, formale e della correttezza giuridica con violazione del diritto alla prova, nella specie contraria, nonché in violazione del principio di cui all’articolo 24 Cost.; da ultimo, con il quinto motivo è stata denunciata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli articoli 1 co. 1 e 61 co. 1 del decreto legislativo n. 276/2003 per violazione dell’art. 3 Cost., per la parte in cui la sentenza impugnata nel richiamare la normativa del 2003, restrittiva della possibile collaborazione coordinata e continuativa, aveva tuttavia considerato ferma tale possibilità per il pubblico impiego e per le ipotesi tassative previste dalla legge, quindi in violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., avuto riguardo al processo di avvicinamento tra pubblico e privato ex articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, configurante la comune disciplina tra settore pubblico e privato quale regola, salvo eccezioni. Per contro, in tale processo di avvicinamento si assisteva ad un fenomeno inverso nel quale flessibilità e atipicità venivano consentite in modo più ampio al pubblico rispetto che al privato, per il quale l’unica ed esclusiva possibilità di collaborazione restava quella legata ad un progetto specifico. Pertanto, laddove il decreto del 2003 aveva espressamente escluso la sua applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale, risultava una palese, inaccettabile e inspiegabile discriminazione tra lavoratori pubblici e privati, sia la violazione del canone di ragionevolezza, stante l’assenza di una plausibile ragione giustificatrice nell’ambito di una netta inversione di rotta del percorso di unificazione tra lavoro pubblico e privato;

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno escluse per le seguenti ragioni; invero, la Corte di merito, con adeguata motivazione, non inferiore al c.d. minimo costituzionale occorrente a norma degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c., ha accertato, in particolare, che nella specie i tre presunti collaboratori furono assunti per svolgere attività di conducente di autobus da parte di un’azienda che noleggiava tali mezzi con autista, sicché le relative mansioni assegnate consistevano nella guida di autobus in coordinamento con la società committente per la durata di un anno. Di conseguenza, secondo la Corte distrettuale, il menzionato programma di lavoro si identificava con l’oggetto dell’attività aziendale e dalla lettura del progetto si ricavava che i tre lavoratori furono incaricati di attività strutturata nell’ordinario ciclo lavorativo, mentre il legislatore del 2003 aveva inteso restringere il campo della possibile collaborazione coordinata e continuativa ad uno specifico progetto, non utilizzabile per sopperire ad ordinarie esigenze aziendali, sicché la specificità all’uopo richiesta corrispondeva ad una sua ragionevole estraneità all’ordinario ciclo produttivo. Nel caso di specie, pertanto, dalla mera lettura degli atti emergeva come i progetti de quibus dovessero ritenersi inesistenti, non corrispondendo essi al modello legale, dovendo equipararsi alla mancanza del progetto l’ipotesi del progetto, che, ancorché formalmente enunciato, non sia conforme tuttavia al tipo previsto dalla legge;

le censure di parte ricorrente, quindi, per un verso sono inammissibili, laddove in effetti pretendono di sindacare quanto in punto di fatto appurato ed apprezzato dalla Corte di merito, mentre per altro verso sono carenti in punto di autosufficienza e di specificità, ex art. 366 c.p.c., nel confutare l’anzidetta ravvisata inesistenza dei progetti in parola in base alla complessiva lettura dei relativi contratti, sicché nemmeno il vizio della loro asserita erronea interpretazione appare ritualmente enunciato. Del resto, questa Corte (v. Cass. lav. con sentenza n. 8142 del 29/03/2017) ha avuto modo di chiarire che in tema di rapporti ex artt. 61 e ss. del d.lgs. n. 276 del 2003, l’assenza del progetto di cui all’art. 69, comma 1, del medesimo decreto, che ne rappresenta un elemento costitutivo, ricorre sia quando manchi la prova della pattuizione di alcun progetto, sia allorché il progetto, effettivamente pattuito, risulti privo delle sue caratteristiche essenziali, quali la specificità e l’autonomia (v. altresì Cass. lav. n. 5418 del 25/02/2019: in tema di contratto di lavoro a progetto, la definizione legale di cui all’art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 richiede la riconducibilità dell’attività ad un progetto o programma specifico – senza alcuna differenza concettuale tra i due termini – il cui contenuto, sebbene non inerente ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria attività di impresa, sia comunque suscettibile di una valutazione distinta da una “routine” ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruoli e aspettative di risultato, e dunque caratterizzato da una determinata finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro. Nella specie, quindi, veniva cassata la decisione di merito, che aveva ritenuto sufficiente ad integrare il requisito distintivo del progetto la riferibilità dell’attività di arredatore svolta dal ricorrente ad una specifica produzione televisiva). Nel caso qui in discussione, dunque, correttamente la Corte di merito ha escluso l’esistenza di progetti validi ex cit. d.lgs. n. 276, attesa pure la genericità di quanto formalizzato con l’art. 1 dei contratti in esame circa il programma di lavoro, dalla cui riproduzione a cura di parte ricorrente, comunque, non emerge alcun ben individuato risultato autonomo, tangibile sotto il profilo economico, a favore dei collaboratori (La società G.T. snc effettua noleggio di autobus con conducente e intende programmare la propria attività caratteristica attraverso l’individuazione di programmi di lavoro espletabili mediante il ricorso a lavoratori che in autonomia siano i preposti e i responsabili della concreta messa in opera degli stessi al fine di sviluppare ulteriormente e far crescere l’impresa. Tali programmi consistono nella predisposizione in accordo con tour operator o altri committenti privati di gite, servizi turistici, servizi di trasporto persone. I programmi verranno gestiti da un punto di vista operativo in piena autonomia dal collaboratore a progetto, che avrà quindi il compito di organizzare indipendentemente il proprio programma di lavoro e gestire i contatti presi con i clienti per la fornitura del servizio: il collaboratore risponderà alla società G.T. nelle linee strategiche concordate). Di conseguenza, la rilevata inesistenza, de jure, comporta la presunzione assoluta della natura subordinata dei rapporti in questione, donde pure, ad ogni modo, l’inammissibilità della prova contraria, di cui parte ricorrente ha lamentato la mancata ammissione;

deve, pertanto, ribadirsi il principio di diritto, già affermato in sede di legittimità e condiviso da questo collegio, secondo cui (cfr. in part. Cass. lav. sentenza n. 17127 del 18/05 – 17/08/2016), in tema di lavoro a progetto, l’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 12820 del 21/06/2016: il regime sanzionatorio articolato dall’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di c. d. conversione del rapporto “ope legis”, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti). Ed invero, con la succitata pronuncia n. 17127/2016 veniva giudicato fondato il secondo mezzo di impugnazione, con il quale era stata denunciata la violazione dell’art. 69 d. lgs. n. 276/2003, in particolare con riferimento ai contratti proseguiti successivamente al 24 ottobre 2004 – termine entro il quale le collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi del d.lgs. n. 276/2003, che non potessero essere ricondotte ad un progetto o ad una fase di esso, mantenevano una loro efficacia ai sensi dell’art. 86 comma 1, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 5/12/2008 n. 399 – sicché il venir meno della disposizione di cui al citato art. 86, per effetto dell’intervento demolitivo ad opera del giudice delle leggi, determinava la sussistenza fra le parti di un contratto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 69 comma 1 d.lgs. n. 276/2003, per essere stato stipulato inter partes un rapporto di collaborazione non riconducibile ad alcun progetto. In tal sensi erano stati criticati gli approdi ai quali era pervenuta la Corte territoriale, laddove aveva ritenuto applicabile alla fattispecie una presunzione relativa e non assoluta, circa l’esistenza fra le parti di un rapporto di lavoro di natura subordinata. Di conseguenza, Cass. lav. n. 17127/16 richiamava il testo dell’art. 61 d.lgs. n. 276/2003 (nella versione applicabile ratione temporis, anteriormente alle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 23, lett. 0, I. 92 del 2012 e dall’art. 124 bis della legge n. 134 del 2012 con riferimento ai cali center), nonché del successivo 69, formulato sotto la rubrica “Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto”. Quindi, la surriferita pronuncia di questa Corte ha correttamente evidenziato il combinato disposto di cui agli artt. 61-69 d.lgs. cit., in coerenza con la tesi accreditata da parte ricorrente, che palesava l’intenzione del legislatore delegato di vietare, in armonia con la finalità enunciata dall’art. 4, comma 1, lett. c), nn. 1 – 6, I. n. 30/2003 (e fatte salve le specifiche eccezioni ivi previste e poi trasfuse nell’art. 61, commi 1-3, d.lgs. n. 276/2003), il ricorso a collaborazioni coordinate e continuative non riconducibili a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso, allo scopo di porre un argine all’abuso della figura della collaborazione coordinata e continuativa, in considerazione della frequenza con cui giudizialmente ne veniva accertata la funzione simulatoria di rapporti di lavoro subordinato. Questo era l’intendimento, che aveva mosso il legislatore, come desumibile dalla relazione introduttiva alla legge delega n. 30/2003, la quale espressamente richiamava l’esigenza di esentare dalla disciplina generale del lavoro dipendente, solo le collaborazioni “senza vincolo di subordinazione e aventi ad oggetto un progetto o un programma di lavoro o una fase di esso”. Orbene, nello specifico, i contratti stipulati fra le parti, proseguiti oltre l’ottobre 2004 e qualificati come collaborazioni coordinate e continuative, risultavano del tutto privi di programma o progetto. Si poneva, quindi, la questione degli effetti collegati alla carenza di collaborazioni coordinate e continuative prive di programma o progetto. Ma gli approdi, cui erano pervenuti i giudici dell’impugnazione, non erano condivisibili, considerato, da un canto, che essi finivano per privare di significato il primo comma dell’art. 69, il quale introduceva una vera e propria disposizione sanzionatoria per il caso di mancata riconducibilità del rapporto coordinato e continuativo ad uno specifico progetto o programma, disponendo tout court che il rapporto “è considerato” di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’origine, tipica dei casi di c.d. “conversione” del rapporto ope legis; dall’altro, che nell’ammettere la prova circa l’insussistenza della subordinazione presunta, si finirebbe per legittimare la perpetuazione delle collaborazioni coordinate e continuative anche in assenza di uno specifico progetto e programma, ogni qualvolta il committente riuscisse a dimostrare il carattere autonomo del rapporto contrattuale, ciò che era proprio quanto il legislatore del 2003 intendeva scongiurare. L’opzione ermeneutica seguita dalla Corte territoriale, si poneva, quindi, in evidente contrasto con la lettera della norma, la quale contemplava un meccanismo sanzionatorio di tipo automatico, senza concedere alternative; si collocava, altresì, in posizione eccentrica rispetto al complessivo assetto della nuova disciplina, ispirata ad esigenze antielusive ed antifrodatorie, compiutamente individuate anche dalla Corte costituzionale, che con la sentenza n. 399 del 2008, pervenendo alla declaratoria di illegittimità dell’art. 86 d.lgs. n. 276/03, aveva rimarcato come la novità introdotta dagli artt. 61 e seguenti consistesse proprio nel divieto di instaurare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, che, pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonome, non fossero riconducibili ad un progetto, divieto peraltro giustificato dalla contrarietà di detti rapporti alla norma imperativa in ordine all’obbligo di utilizzare il nuovo tipo legale di contratto (ex art. 1418 c.c.). Inoltre, l’anzidetta opzione interpretativa consentiva di ritenere soddisfatta anche l’esigenza di differenziare la previsione di cui al primo comma dell’art. 69 rispetto al meccanismo previsto dal comma secondo della medesima disposizione di legge, ancorché entrambe sanzionate con l’applicazione della disciplina propria dei rapporti di lavoro subordinato, trattandosi di fattispecie strutturalmente differenti, giacché nella prima rileva il dato formale della mancanza di uno specifico progetto a fronte di una prestazione lavorativa che, in punto di fatto, rientra nello schema generale del lavoro, laddove nella seconda rilevano le modalità di tipo subordinato con le quali, nonostante l’esistenza di uno specifico progetto, venga di fatto resa la prestazione lavorativa. In definitiva, alla luce delle precedenti argomentazioni, il secondo motivo di ricorso andava accolto e la sentenza impugnata veniva cassata con rinvio al giudice di merito, che nel riesaminare la questione doveva attenersi al succitato principio di diritto. Analoghe considerazioni, inoltre, si trovano espresse nella ordinanza n. 11429 del 22/02 – 10/05/2017 di questa Corte, con ulteriori richiami giurisprudenziali in senso conforme, laddove per di più è stato osservato come la normativa in esame non induca dubbi di legittimità costituzionale, al riguardo citando la sentenza della Consulta n. 399/2008: <<… In altri termini, la conversione del contratto di lavoro autonomo continuativo instaurato senza progetto in rapporto di lavoro subordinato è la conseguenza della valutazione legale tipica compiuta dal legislatore attraverso la previsione dell’art. 69, comma primo, d.lgs. n. 386/2003. Come è stato osservato anche in dottrina, la tecnica usata è quella della nullità del contratto, che sia stato in concreto posto in essere senza progetto (o senza un progetto specifico), accompagnata dalla c.d. conversione o trasformazione ope legis del contratto, mediante la sostituzione di diritto delle clausole invalide con la disciplina inderogabile del rapporto (c.d. nullità sanzione come conseguenza della violazione di norme imperative: cfr. art. 1419, comma 2, c.c. relativo alla conservazione del contratto affetto da nullità parziale). Parimenti infondati appaiono i dubbi di legittimità costituzionale prospettati con riguardo alla regola della indisponibilità del tipo contrattuale che siffatta qualificazione ope legis comporterebbe, in (asserito) contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 115 del 1994 e 121 del 1993: in realtà, in queste sentenze si è affermato il principio che «spetta al legislatore stabilire la qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro, pur non essendo allo stesso consentito negare la qualifica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura». L’indisponibilità del tipo contrattuale, dunque, costituisce un limite alla discrezionalità del legislatore e all’autonomia negoziale ma solo nel senso di ritenere indisponibili le tutele del rapporto di lavoro subordinato, avuto riguardo all’esigenza di «dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato»: essa dunque può operare soltanto nella direzione della indisponibilità delle tutele del lavoro subordinato e non – come sarebbe nel caso in esame – in senso inverso>>. Parimenti, Cass. lav. n. 9471 del 4/4/2019 ha ritenuto che, in tema di contratto a progetto, il regime sanzionatorio previsto dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2016 (nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla I. n. 92 del 2012), in caso di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso – determinante l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente e senza necessità di accertamenti giudiziali sulla natura del rapporto – non contrasta con il principio di “indisponibilità del tipo”, posto a tutela del lavoro subordinato e non invocabile nel caso inverso, né con l’art. 41, comma 1, Cost., in quanto trae origine da una condotta datoriale violativa di prescrizioni di legge ed è coerente con la finalità antielusiva perseguita dal legislatore;

pertanto, nei sensi di cui sopra vanno disattesi i primi quattro motivi di ricorso, ad ogni modo infondati circa la corretta interpretazione dell’anzidetta normativa speciale (secondo il testo ratione temporis applicabile in relazione all’accertamento ispettivo dell’I.N.P.S., notificato l’otto settembre 2010), avuto riguardo all’acclarata inesistenza di validi progetti nel caso di specie, con conseguente operatività della surriferita presunzione, assoluta, di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, donde pure l’irrilevanza di ogni altra questione, di carattere istruttorio e probatorio, circa l’asserita autonomia delle prestazioni de quibus; deve, infine, anche essere disatteso il quinto e ultimo motivo di ricorso, risultando manifestamente infondata la questione d’illegittimità costituzionale ivi prospettata, attesa comunque la persistente oggettiva diversità dei rapporti di lavoro di diritto privato da quelli di pubblico impiego, nonostante la (parziale) contrattualizzazione di questi ultimi ex d.lgs. n. 165/2001, mentre il principio costituzionale di uguaglianza presuppone l’omogeneità delle situazioni confrontate, sicché non se ne può nemmeno sospettare la violazione in difetto del necessario presupposto. Di conseguenza, neanche è ravvisabile una irragionevolezza di disciplina, trattandosi di scelte discrezionali del legislatore in ambito di settori tra loro ancora eterogenei, tenuto altresì conto che, successivamente, il Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (attuazione delle deleghe in materia dì occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), in vigore dal 24-10-2003, con l’art. 1, nel dettare in via preliminare le finalità e il campo di applicazione della nuova disciplina, al comma II ha inteso precisamente e univocamente escludere il pubblico impiego (Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale), visto altresì che in forza del vigente art. 97, ultimo comma, della Costituzione, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge; pertanto, il ricorso va rigettato con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso, infine, l’esito negativo dell’impugnazione, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115/02.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente nella misura di euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.