CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2020, n. 18690
Licenziamento disciplinare – Recesso per giusta causa – Conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Comportamento volontariamente posto in essere con la consapevolezza del suo disvalore – Palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica – Censura costituente mero dissenso diagnostico, si traduce in inammissibile critica del convincimento del giudice
Rilevato che
1. il Tribunale di Roma aveva confermato l’ordinanza emessa all’esito della fase a cognizione sommaria del procedimento instaurato ai sensi della I. 92/2012, con la quale erano state respinte le domande proposte da P.M., dirette ad ottenere l’annullamento del licenziamento disciplinare intimato da Poste Italiane in data 9.6.2014, per avere i CC. rinvenuto nell’auto guidata dal predetto un notevole quantitativo di posta inevasa, per complessivi 836 oggetti postali, datati dal novembre 2011 in poi, ivi compresi 54 avvisi di ricevimento e 15 raccomandate, allo stesso affidati quale addetto al recapito della corrispondenza presso il CPD di Roma Ostiense; il Tribunale aveva ritenuto che il recesso per giusta causa potesse essere convertito in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, idoneo a determinare il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, per insussistenza della componente del dolo richiesta per l’irrogazione del licenziamento senza preavviso;
2. la Corte d’appello capitolina, con sentenza del 2.5.2018, respingeva il reclamo proposto dal M. rilevando come la condotta prevista per il licenziamento senza preavviso, intimato ai sensi degli artt. 54, 4° comma, lett. c), k) e 80 lett. e) del ccnl 14 aprile 2011, fosse integrata dal comportamento tenuto dall’appellante, posto che l’accumulo della corrispondenza non era il frutto di una condotta incoercibile, provocata dal disturbo psichico dal quale il predetto era affetto (nevrosi ansioso fobica con tratti cd. tipo DOC, disturbo ossessivo-compulsivo), bensì di un comportamento volontariamente posto in essere con la piena consapevolezza del suo disvalore, e quindi riconducibile a dolo, in presenza di piena coscienza e volontarietà della condotta stessa, ma che, tuttavia, non avendo Poste proposto reclamo incidentale, in ragione del divieto di reformatio in pejus, la sentenza non poteva essere riformata in parte qua;
3. Il giudice del gravame riteneva che le circostanze sulle quali l’appellante aveva articolato prova per testi erano di carattere affatto generico e che l’eventuale sovraccarico di lavoro, anche ove fosse stato provato e ritenuto responsabile della genesi del disturbo psichico, non avrebbe potuto avere alcuna efficacia scriminante, non essendosi, peraltro, mai l’appellante lamentato dell’eccessivo carico di lavoro e non avendo mai portato a conoscenza della società le sue patologie; inammissibile era ritenuta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale asseritamente subito per effetto della violazione, da parte della società, degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c., in quanto preclusa dall’art. 1 comma 51 I. 92/2012;
4. di tale decisione domanda la cassazione il M., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la società.
Considerato che
1. con il primo motivo, il ricorrente denunzia difetto di motivazione sotto la specie di erronea valutazione di un fatto decisivo, rappresentato dalle risultanze della c.t.u., asserendo che la Corte distrettuale abbia recepito le conclusioni della c.t.u senza apprezzamento critico e contestando l’interpretazione e la valutazione da parte del giudice del merito delle conclusioni dell’ indagine peritale espletata nel secondo grado di giudizio; aggiunge che l’accertamento dell’ausiliare e l’apprezzamento critico del giudice del lavoro non dovevano essere finalizzati ad indagare ed a determinare se il M. avesse piena capacità di intendere e volere, ma, più propriamente, se le condizioni psichiche del predetto potessero avere inciso in qualche misura sul comportamento contestato;
2. con il secondo motivo, il M. lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., degli artt. 53 e 54 c.c.n.I. del 14.4.2014, degli artt. 116 e 421 c.p.c., con riguardo alla valutazione complessiva della concreta condotta del lavoratore, delle circostanze soggettive e oggettive e del giudizio di proporzionalità, assumendo che, alla luce di un equo e corretto apprezzamento critico delle risultanze peritali, il giudice del gravame avrebbe dovuto considerare l’assenza di precedenti disciplinari ed i vari aspetti che avevano caratterizzato la condotta, per escludere la giusta causa ed anche il giustificato motivo soggettivo;
3. con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione dell’art. 2087 c.c., deducendo l’omessa considerazione dei relativi obblighi, e dell’art. 421 c.p.c., per mancata applicazione dei poteri doveri istruttori relativamente all’ammissione ed assunzione di prove testimoniali;
4. Il vizio denunciato nel primo motivo non rientra nel paradigma devolutivo e deduttivo del nuovo art 360 n. 5 c.p.c., e peraltro tale vizio sarebbe comunque ravvisabile soltanto in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (cfr. Cass. 13.8.2004 n. 15796, Cass. 3.4.2008 n. 8654, Cass. 8.11.2010 n. 22707, in tema di infortunio sul lavoro, Cass. 3.2.2012 n. 1652 alla cui stregua la contestazione di una decisione basata sul riferimento ad una delle consulenze tecniche acquisite – sorretta da una analitica disamina – non può essere adeguatamente censurata, in sede di legittimità, se le relative censure non contengono la denuncia di una documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico – legale o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali’, atteso che, in mancanza di detti elementi, le censure configurano un mero dissenso diagnostico e, quindi, sono inammissibili in sede di legittimità). Il riferimento al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, asseritamente pubblicato in Italia nell’aprile del 2014, non è stato trascritto nei punti di rilievo ai fini di causa, ma soltanto genericamente richiamato. Ancor prima delle indicate considerazioni, la deduzione del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. risulta preclusa dalla cd. “doppia conforme” essendo ratione temporis applicabile la relativa previsione – art. 348 ter comma 5, c.p.c. – per essere la data di deposito del ricorso in sede di gravame successiva alla data dell’ 11 settembre 2012 (articolo 54 co. 2 DL 83/2012);
5. il secondo motivo è assolutamente generico, essendo omessa ogni specificazione in ordine al modo in cui si sarebbe realizzata la violazione delle norme contrattuali e non risultando depositato il CCNL, del quale non si indica la sede di rinvenimento nelle produzioni di parte dei precedenti gradi di merito; ogni altra doglianza è prospettata senza alcun riferimento puntuale ai passaggi della motivazione posti a sostegno della impugnata decisione dalla Corte distrettuale e pertanto il motivo pecca di specificità;
5.1 in sentenza si afferma ulteriormente che il comportamento del M. di accumulare la corrispondenza inevasa nel bagagliaio della propria autovettura era finalizzato ad occultare la corrispondenza per evitare che Poste venissero a conoscenza della sua mancata consegna e tale profilo non risulta attinto da specifica impugnazione;
6. anche la censura prospettata nel terzo motivo pecca di specificità ed, in ogni caso, è inconferente con riguardo ai rilievi articolati nella prima parte, in quanto la decisione si fonda sull’esclusione dal rito Fornero di domande diverse da quelle attinenti al licenziamento (cfr., da ultimo, Cass. 11.6.2018 n. 15084, con riguardo alle previsioni dell’art. 1, co. 47 e 48, l. 92/2012) e, quanto alla mancata ammissione dei mezzi istruttori orali, non si confuta idoneamente quanto asserito dalla Corte di Roma sulla irrilevanza dei capi articolati, ciò senza considerare che i rilievi presuppongono la pretesa del ricorrente di far derivare la patologia da una condotta, neanche specificata, del datore di lavoro, prospettando una deduzione del tutto nuova;
6.1. non va, poi, omesso di rimarcare che anche una condotta datoriale idonea a creare una disfunzione nel servizio non avrebbe potuto assumere una rilevanza scriminante rispetto alla condotta del ricorrente, come correttamente osservato dal giudice del gravame e non specificamente contestato;
7. alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;
8. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;
9. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, commalbis, del citato D.P.R., ove dovuto.
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