CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 febbraio 2022, n. 4404
Licenziamento – Rifiuto di raggiungere la nuova sede di lavoro – Soppressione della unità organizzativa di appartenenza – Principi di correttezza e buona fede – Illegittimità del trasferimento – Accertamento – Prova
Rilevato che
1. con la sentenza n. 2242 del 2010 il Tribunale di Potenza, in funzione di giudice del lavoro, rigettò – per quanto qui ancora rileva – le domande proposte da C. D.A. nei confronti della V. O. N.V. volte ad impugnare il provvedimento datoriale con cui il dipendente era stato trasferito da Potenza a Pozzuoli, con comunicazione del 29 novembre 2005, nonché il successivo licenziamento, intimato il 12 gennaio 2006, per il rifiuto di raggiungere la nuova sede di lavoro;
2. con sentenza n. 566 del 2011 la Corte di Appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarò illegittimo il trasferimento e il conseguente licenziamento, con ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente e rinvio nel prosieguo per la determinazione dell’ammontare dei danni; a fondamento della decisione la Corte territoriale rilevò che il trasferimento del D.A. a Pozzuoli era illegittimo perché il datore di lavoro non si era comportato secondo buona fede e correttezza nella gestione delle conseguenze che erano derivate dalla soppressione della unità organizzativa di appartenenza, e che, pertanto, era legittimo il rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede, privando così di giusta causa il successivo licenziamento;
3. avverso questa decisione propose ricorso per cassazione, in via principale, la V. O. N.V., affidato a sei motivi, resistito dal D.A., il quale formulò anche ricorso incidentale condizionato, per avere la Corte di Appello ritenuto non dimostrata una volontà ritorsiva della società;
4. con sentenza n. 28791 del 2017 questa Corte ha accolto i primi due motivi del ricorso principale della società, assorbiti gli altri, e ha respinto il ricorso incidentale del D.A., con cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvio alla Corte di Appello di Potenza, in diversa composizione, “che procederà a nuovo esame, attenendosi ai princìpi enunciati e provvedendo, altresì, alle spese del giudizio di legittimità”;
5. detta pronuncia, nella parte motiva, ha, tra l’altro, argomentato che: la sentenza impugnata non si era uniformata al principio consolidato secondo cui il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall’imprenditore; nella specie il datore di lavoro aveva dimostrato la soppressione della sede di Potenza, posta a base del trasferimento, mentre la Corte di merito, nel ritenere illegittimo il medesimo (e conseguentemente il licenziamento) era ricorsa ad argomenti che andavano a sindacare le scelte organizzative dell’imprenditore; andava altresì rimarcato il principio giurisprudenziale in virtù del quale il trasferimento del lavoratore presso altra sede, giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali, consente al medesimo di chiederne giudizialmente l’accertamento di legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via di urgenza) di eseguire la prestazione lavorativa richiesta;
6. la Corte d’Appello di Potenza, con sentenza n. 207 del 14 febbraio 2020, in sede di rinvio, ha quindi respinto l’appello del D.A. avverso la pronuncia di prime cure che aveva rigettato le sue domande, compensando le spese;
7. i giudici d’appello, in seguito alla disposta cassazione, hanno innanzitutto evidenziato che non poteva essere messa in dubbio “la sussistenza della riorganizzazione aziendale posta a base del mutamento della sede lavorativa imposto al D.A.”, trovando “riscontro positivo circa la veridicità della misura organizzativa formalmente esistente alla base del trasferimento del lavoratore”; inoltre hanno richiamato il principio di diritto secondo cui, in tema di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario a buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria; il Collegio ha, quindi, ritenuto che la condotta renitente del D.A., che risultava, sulla base del materiale probatorio acquisito, avere rifiutato il trasferimento “come arma per vincere le resistenze datoriali nell’ambito di una trattativa economica”, non fosse conforme a correttezza e buona fede perché finalizzata esclusivamente a “piegare” la volontà datoriale; ha conseguentemente concluso per l’illegittimità del rifiuto opposto dal lavoratore al raggiungimento della nuova sede e per la sussistenza della giusta causa di licenziamento;
8. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con 5 motivi; ha resistito con controricorso la società intimata, che ha anche depositato memoria;
Considerato che
1. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;
con il primo si denuncia la violazione degli artt. 384 e 394 c.p.c., ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., ai sensi del n. 3 della stessa disposizione del codice di rito; si eccepisce che erroneamente la Corte del rinvio avrebbe ritenuto l’esistenza di un giudicato sulla esistenza della riorganizzazione, riconnettendo ad esso “(in sostanza) efficacia preclusiva di ogni ulteriore indagine di merito a compiersi sui fatti e le prove vertenti sull’operato trasferimento e le ragioni dello stesso, ivi inclusa la sussistenza del rivendicato (ex adverso) processo riorganizzativo”; si deduce che l’affermazione fattuale posta dalla sentenza rescindente circa la soppressione della sede di Potenza “è ontologicamente inidonea a configurare un giudicato”; si argomenta poi che la motivazione impugnata, in ordine al trasferimento del lavoratore, non espliciterebbe validamente le ragioni della decisione, con violazione dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 132, c. 2, n. 4 c.p.c. e della previsione dell’art. 111 Cost., affermando poi che la sede di Potenza, in fatto, non sarebbe mai stata soppressa, restando operativa sino al gennaio del 2018;
il secondo motivo denuncia: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dall’assenza della natura residuale del piano lavori in Basilicata e dalla mancata soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal ricorrente”;
il terzo motivo denuncia: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero l’assenza di presupposti giustificativi per la sede di assegnazione”;
il quarto motivo denuncia: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero il rifiuto del ricorrente di porre in essere interventi devianti in relazione all’installazione di nuovi siti”;
il quinto motivo denuncia la “motivazione apparente”, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., ed ancora “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero i motivi del rifiuto a trasferirsi nella nuova sede prospettati dal ricorrente ed il comportamento delle parti”; si deduce che “nel processo i fatti evidenziavano che il ricorrente rifiutava di raggiungere la nuova sede di Pozzuoli ritenendo illegittimo il trasferimento e per evidenti motivi familiari: distanza usurante devastante per il lavoratore e per i propri familiari. Si recava presso la sede di provenienza ove erano rifiutate le prestazioni lavorative ed anzi diffidato dal presentarsi”; per il ricorrente, il giudice del rinvio avrebbe omesso l’esame di tutte queste circostanze concernenti il licenziamento e le ragioni del rifiuto di prendere servizio in Pozzuoli, “sostanzianti l’eccezione di inadempimento, elementi da esaminare anche perché decisivi per il giudizio, idonei a configurare la fondatezza e legittimità della formulata eccezione di inadempimento a tenore dell’articolo 1460 c.c.”; 2. il ricorso non può trovare accoglimento per quanto segue;
2.1. come ricordato nello storico della lite, la sentenza impugnata può dirsi ancorata a due distinte rationes decidendi, da ritenersi autonome l’una dall’altra, e ciascuna di esse può essere posta a fondamento del dictum di rigetto dell’appello proposto dal D.A. in seguito al rinvio disposto da questa Corte;
in primo luogo, i giudici d’appello hanno ritenuto che il trasferimento fosse legittimo, dal che conseguirebbero l’indebito rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede e la giusta causa di licenziamento già affermata dal primo giudice; in secondo luogo la Corte territoriale ha, comunque, esaminato la vicenda alla stregua dell’art. 1460 c.c., considerando in ogni caso il rifiuto del dipendente di trasferirsi contrario ai canoni di correttezza e buona fede, giungendo a confermare, anche per tale via, la legittimità del recesso datoriale; che si tratti di una concorrente ratio decidendi, autonoma rispetto a quella già resa e in grado di fornire al dictum decisorio una distinta base di convincimento, è reso chiaro dal fatto che l’operatività dell’art. 1460 c.c. presuppone un inadempimento datoriale che, in caso di trasferimento legittimo, non ci sarebbe stato, per cui nessuna eccezione di inadempimento avrebbe potuto opporre il lavoratore per giustificare il suo rifiuto e la norma codicistica non avrebbe potuto trovare spazio;
2.2. orbene, al giudice non è preclusa da alcuna disposizione normativa la possibilità di porre a fondamento della sua decisione una pluralità di rationes decidendi, distinte ed autonome, atteso che gli artt. 276 e 279 c.p.c. si limitano a stabilire un ordine di esame e di decisione delle questioni, imponendo di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, ma essendo viceversa il giudice libero di decidere sul merito, individuando la questione e le ragioni da porre a base della decisione (cfr. Cass. SS.UU. n. 11799 del 2017, in motivazione); la Corte territoriale poteva, dunque, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione di merito, esaminare ed accoglierne anche una seconda, al fine di sostenere la pronuncia nel caso in cui la prima fosse risultata erronea (v. Cass. n. 15399 del 2018; Cass. n. 21490 del 2005); anche autorevole dottrina ammette la coesistenza in una unica motivazione di una pluralità di rationes decidendi, in correlazione con il principio di economia processuale, spiegando che talvolta l’estensore è portato a dilungarsi nel discorso giustificativo, anche oltre le necessità di argomentazione manifestatesi nella deliberazione, per corroborare con maggior forza di persuasione la correttezza del suo decidere con l’intenzione, quasi sempre sottintesa, di prevenire in assoluto l’annullamento o la riforma della sentenza, grazie alla conseguente dilatazione dei motivi di gravame (in termini: Cass. n. 35016 del 2021);
2.3. ciò posto, i primi quattro motivi di ricorso per cassazione aggrediscono la prima ratio decidendi della sentenza impugnata, afferendo alla questione della legittimità o meno del trasferimento, mentre solo l’ultima censura riguarda la “fondatezza e legittimità della formulata eccezione di inadempimento a tenore dell’art. 1460 c.c.”; esaminando secondo il criterio della ragione più liquida detto quinto motivo di ricorso, il Collegio giudica il medesimo infondato; non sussiste, infatti, la denunciata “motivazione apparente” che è ravvisabile solo quando essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016); il che non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per ritenere non conforme a correttezza e buona fede il rifiuto di trasferirsi del D.A., in quanto strumentalizzato all’intento di vincere le resistenze datoriali nell’ambito di una trattativa economica; si tratta di una valutazione in fatto, che non può costituire oggetto di riesame in questa sede di legittimità sol perché è difforme rispetto alle attese di chi ricorre, tanto più invocando il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. senza che siano rispettati i limiti posti dalla disposizione novellata, così come rigorosamente interpretata dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); in realtà parte ricorrente, lungi dall’evidenziare nella sentenza impugnata l’omesso esame di un fatto effettivamente decisivo, critica il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine ai comportamenti delle parti in contesa e le Sezioni unite ancora di recente hanno stigmatizzato censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
2.4. invero, va ribadito che, in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (per tutte v. Cass. n. 11408 del 2018); nella motivazione del precedente richiamato si specifica che “l’inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà, quindi, essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c. secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. La relativa verifica […] dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell’ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e più in generale sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 Cost.”; si conclude che “tale verifica è rimessa all’esame del giudice di merito” (conf. Cass. n. 21391 del 2019; in precedenza v. Cass. n. 1168 del 2000 e 8621 del 2001, n. 5444 del 2002, n. 16530 del 2003, n. 16822 del 2003, n. 10477 del 2004, n. 20678 del 2005, n. 11430 del 2006; cfr. pure Cass. n. 13627 del 2017), per cui essa non è sindacabile in questa sede di legittimità oltre i ristretti limiti in cui può esserlo ogni apprezzamento di merito; 2.5. respinto il quinto mezzo di gravame, vale allora l’insegnamento costante nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, secondo il quale laddove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario -per giungere alla cassazione della pronunzia- sia che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, sia che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso della impugnazione; questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano; è sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (in termini, Cass. n. 12372 del 2006; tra le tante: Cass. n. 2736 del 2013; Cass. n. 25540 del 2009; Cass. n. 10420 del 2005; Cass. n. 2274 del 2005; Cass. n. 10134 del 2004; Cass. n. 4349 del 2001) ovvero, come pure altro orientamento ritiene, per essersi formato il giudicato in ordine alla ratio decidendi non censurata (da ultimo Cass. n. 13880 del 2020, che richiama Cass. n. 24076 del 2017; Cass. n. 27015 del 2016; Cass. n. 19254 del 2011; Cass. n. 1658 del 2007; Cass. n. 14740 del 2005);
2.6. applicando siffatto incontrastato insegnamento al caso che ci occupa, ne consegue che, resistendo una delle individuate rationes decidendi alla impugnazione proposta dal D.A., è del tutto ultronea la verifica della fondatezza delle censure mosse all’autonoma, alternativa e distinta ratio decidendi, perché, anche nella eventualità dovesse pervenirsi all’accoglimento di esse, in nessun caso potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, atteso che questa rimarrebbe comunque ferma sulla base del profilo della sua ratio infondatamente censurata, privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata;
3. alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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