CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 marzo 2022, n. 7979
Tributi – Imposta di registro – Costituzione di società e successivo conferimento di rami d’azienda – Riqualificazione degli atti in cessione d’azienda – Illegittimità
Rilevato che
La società I.L. (già L.I. s.p.a.) ha opposto l’avviso di liquidazione di imposta notificatole in data 7 marzo 2012, in relazione all’atto del 15 luglio 2009 registrato in pari data, con il quale i soci della società responsabilità limitata ILC cedevano le proprie quote pari al 100% del capitale sociale alla L.I.. l’Agenzia delle entrate ha sottoposto l’atto a tassazione proporzionale ritenendo la sussistenza di una operazione strutturalmente e funzionalmente unitaria con atti precedenti, e in particolare con l’atto del 14 marzo 2008 con il quale era stata costituita la società ILC e il successivo atto del 27 marzo 2009 con il quale le società costituenti avevano conferito alla ILC due rami di azienda; l’ufficio riqualifica pertanto l’atto sottoposto a tassazione come cessione di azienda.
Il ricorso è stato respinto in primo grado. La contribuente ha proposto appello che la CTR dell’Emilia Romagna ha respinto sul rilievo che nel caso di specie l’operazione è una nel suo complesso sebbene formalmente articolata in più atti e che l’art. 20 del DPR 131/1986 non ha una funzione antielusiva generale ma meramente interpretativa ai fini della registrazione in quanto “si tratta di imposta che grava sull’atto e non sul trasferimento e sul negozio giuridico sottostante: l’amministrazione finanziaria non è autorizzata a determinare la natura di un contratto prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle corti e per eccesso in contrasto con essa”.
Avverso la predetta sentenza ricorre la società affidandosi a un motivo. L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso. La causa è stata trattata all’adunanza camerale non partecipata del 12 gennaio 2022.
La ricorrente ha depositato memoria
Ritenuto che
1. – Con il primo motivo del ricorso si lamenta in relazione all’art 360 n. 4 c.p.c. la violazione degli articoli 132 e 118 disp. att. c.p.c. e la violazione dell’art. art 111 della Costituzione, in ragione della nullità della sentenza per mancanza di motivazione o motivazione apparente e incomprensibile. Parte ricorrente deduce che il giudice d’appello senza prendere posizione alcuna sulle censure formulate dal ricorrente avverso la decisione di primo grado si è limitato a respingere l’appello perché infondato, senza indicare alcuna motivazione a parte l’incomprensibile assunto che è da disattendere la tesi che l’attività dell’ufficio abbia travalicato lo schema negoziale tipico; il riferimento alla natura dell’art. 20 del DPR 131/1986 è incoerente da un punto di vista sistematico poiché pur affermando che l’operazione è una nel suo complesso, al tempo stesso afferma che l’amministrazione finanziaria non è autorizzata a determinare la natura di un contratto prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti e per eccesso in contrasto con essa.
Il motivo è fondato.
La motivazione della sentenza deve consentire, per rispettare il minimo costituzionale richiesto dall’art 111 Cost. il controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio e ciò non avviene quando essa, eventualmente sovrabbondante nella ricapitolazione dei fatti o nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non permetta di comprendere la ratio decidendi o esponga argomentazioni perplesse o in contrasto insanabile tra di loro si da non potersi identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass. 17196/2020; Cass. n. 13248/2020; Cass. n. 23940/2017).
Nel caso di specie il giudice d’appello, pur rilevando che l’imposta di registro è imposta che grava sull’atto e non sul negozio, che l’art 20 del DPR 131/186 non ha funzione antielusiva e che “l’amministrazione finanziaria non è autorizzata a determinare la natura di un contratto prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle corti e per eccesso in contrasto con essa”, ha poi aderito alla tesi prospettata dall’ufficio, che ha riqualificato l’atto facendo riferimento ad elementi extra testuali, rilevando che nel caso di specie l’operazione è una nel suo complesso sebbene formalmente articolata in più atti.
2. – La ratio decidendi risulta così incomprensibile ove si ponga mente al fatto che l’art. 20 del D.P.R. n. 131/ 1986, è stato modificato dapprima dall’art. 1, comma 87 della L. n. 205/2017 e poi dall’art. 1, comma 1084 della L. n. 145/2018, stabilendo che l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione deve avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extratestuali.
Prima degli interventi normativi del 2017/2018 la giurisprudenza di questa Corte, con alcune isolate pronunce, aveva affermato il principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente ” alla quale lo stesso art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019 e n. 6790/2020). In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre. Ciononostante, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).
L’intervento legislativo è avvenuto in due tempi: dapprima con la legge di bilancio 2018 (legge 25/2017) affermando la necessità di applicare l’imposta “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati” e la seconda con la legge di bilancio 2019 (legge 145/2018) affermando che si tratta di una norma di interpretazione autentica e quindi dotata – per definizione – di efficacia retroattiva (cfr. Cass., n. 23549/19), essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal legislatore medesimo.
In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.
2.1.- La Corte Costituzionale, premesso che l’interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, ha osservato che l’esclusione dalla rilevanza interpretativa degli elementi extratestuali e degli atti collegati, disposta dal legislatore con i menzionati interventi normativi del 2017 e 2018, non si pone in contrasto con i parametri costituzionali.
Infatti, “il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico”, salvaguardando “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”.
Ha aggiunto che gli evocati parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost., non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” dello stesso testo unico. Ha, inoltre, evidenziato che l’interpretazione evolutiva dell’art. 20, incentrata sulla nozione di causa reale, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, in quanto “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale”, pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea.
Ciò non toglie che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possa rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
2.3.- Con successiva sentenza n. 39 del 16 marzo 2021 la Corte Costituzionale ha ribadito il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, in relazione alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost.
Nel richiamare la precedente pronuncia la Corte ha ritenuto che la retroattività conseguente alla natura di interpretazione autentica riconosciuta alla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), trova adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasta con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, avuto riguardo al carattere di sistema assunto dall’intervento legislativo oggetto di scrutinio, e che, per tale motivo, si sottrae al dubbio sollevato dal remittente.
Evidenzia, inoltre, che la medesima ragione impone di disattendere la censura di irragionevolezza della disposizione anche sotto il profilo della ipotizzata violazione dei “motivi imperativi di interesse generale” desumibili dall’art. 6 CEDU, sottolineando che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione e non viceversa.
3. – In sintesi, il legislatore, con un intervento ritenuto conforme ai parametri costituzionali (Corte Cost. 158/2020; 39/2021), ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
La più recente giurisprudenza di questa Corte si è pertanto orientata nel senso che: “In tema di imposta di registro, ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 – nella formulazione successiva alla l. n. 205 del 2017 che, secondo l’art. 1, comma 1084, della l. n. 145 del 2018, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata “ab intriseco”, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extra-testuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto” (Cass. 10688/2021; v. anche Cass. 9065/2021; Cass. 205601/2021).
Alla luce di quanto sopra esposto, si rende evidente che, date le premesse del ragionamento esposto dal giudice d’appello, la conclusione avrebbe dovuto essere diversa e cioè che l’Agenzia non poteva riqualificare l’atto facendo riferimento ad elementi extratestuali.
Ne consegue in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto può decidersi nel merito, accogliendo l’originario ricorso della contribuente.
Le spese del complessivo giudizio possono essere compensate, per la complessità della questione interpretativa trattata, e in ragione del recente consolidamento della giurisprudenza nei termini sopra precisati.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente.
Compensa interamente le spese del doppio grado di merito e del giudizio di legittimità.
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