CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 dicembre 2021, n. 39817
Tributi – Accertamento – Regime di trasparenza – Contenzioso tributario – Decisione favorevole nei confronti della società – Travolgimento dell’accertamento definitivo nei confronti dei soci
Rilevato che
Quanto a entrambi i ricorsi:
1. In data 18/6/2010, l’Agenzia delle Entrate notificò alla società A. Costruzioni s.r.l., già s.n.c., che svolgeva attività di lavori generali di costruzione di edifici, un avviso di accertamento, con il quale, sulla base di due P.V.C. della Guardia di Finanza del 5/6/2006 e del 25/7/2007, rettificò la dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2005, avendo accertato maggiori redditi d’impresa da imputare ai soci e un maggior volume d’affari ai fini Iva, e irrogò sanzioni, provvedendo a recuperare a tassazione somme correlate alla omessa contabilizzazione di ricavi, alla mancata fatturazione di acconti e ricavi conseguiti dalla vendita di immobili e alla contabilizzazione di fatture di acquisto emesse irregolarmente e contestando movimentazioni bancarie non giustificate in accredito e addebito. Nella stessa data notificò due distinti avvisi di accertamento ai fini Irpef e Addizionali regionali e comunali rispettivamente nei confronti dei soci, ciascuno nella misura del 50 %, della predetta società, P.S. e B.R., con i quali accertò maggiori redditi in conseguenza della rettifica operata nei confronti della società e irrogò sanzioni per infedele dichiarazione.
Impugnati con distinti ricorsi i predetti avvisi dalla società e dai singoli soci, la C.T.P. di Messina, con la sentenza n. 614/05/12 emessa il 8/6/2012 e depositata il 13/7/2012, accolse parzialmente il ricorso della società, determinando il maggior reddito ai fini Irap e la maggiore Iva dovuta e compensando le spese di lite, così come accolse parzialmente i ricorsi dei soci con sentenze n. 615/5/12 (quanto a P.S. che aveva fatto propri i motivi addotti dalla società, riproducendoli integralmente) e n. 613/5/12 (quanto a B.R.), emesse il 8/6/2012 e depositate il 13/7/2012, sulla base della rettifica operata nei confronti della società.
La C.T.R. per la Sicilia, adita dalla società, definì il giudizio, nel quale si costituì anche l’Ufficio proponendo a sua volta appello incidentale, con la sentenza n. 3207/02/04, emessa il 7/5/2014 e depositata il 23/10/2014, con la quale rigettò l’appello principale e, in accoglimento di quello incidentale, confermò l’atto originariamente impugnato. Nella stessa data definì anche gli appelli proposti dai soci P.S. e B.R., nell’ambito di ciascuno dei quali si costituì l’Ufficio proponendo a sua volta distinti appelli incidentali, emettendo la sentenza n. 3206/02/14, depositata il 23/10/2014, quanto al primo, e la sentenza n. 3205/02/2014, quanto alla seconda, entrambe depositate il 23/10/2014, con le quali rigettò l’appello principale e, in accoglimento di quello incidentale, confermò l’atto originariamente impugnato.
2. Contro le predette sentenze propongono ricorso sia il socio P. (proc. n. 5647/2015), sia la socia B.R. (proc. n. 5651/15), sia la società (proc. n. 5652/2015), sulla base rispettivamente di un motivo, quanto a ciascuno dei due soci, e di tre motivi, quanto alla società. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Considerato che
I ricorsi n. 5647/2015, n. 5651/15 e n. 5652/2015 vanno riuniti, essendo stati proposti dalla società di persone e dai due soci ed essendo essi litisconsorti necessari, oltre a vertere parzialmente su Identiche questioni.
Quanto al proc. n. 5647/2015:
1. Con l’unico motivo di ricorso il socio P.S. lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. clv., per avere la C.T.R. deciso senza previamente riunire, ancorché richiesta, l’appello della società a quello del soci, pur in presenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario in ragione della Inscindibile posizione degli appellanti.
Quanto al proc. n. 5651/15:
1. Con l’unico motivo di ricorso la socia B.R. lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. clv., per avere la C.T.R. deciso senza previamente riunire, ancorché richiesta, l’appello della società a quello del soci, pur in presenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario in ragione della inscindibile posizione degli appellanti.
Quanto al proc. n. 5652/2015:
1. Con il primo motivo di ricorso, la società contesta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., proponendo la medesima censura sollevata dai soci con i motivi che precedono.
2. Con il secondo motivo, si contesta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 85, 93, commi 1 e 4, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto che la mera ultimazione dei lavori di edificazione degli immobili alla data del 31/12/2005 imponesse di contabilizzare il relativo valore tra i ricavi di esercizio, senza considerare che, non essendo stati i fabbricati ancora trasferiti e non essendo stato dunque liquidato alcun corrispettivo, il valore degli stessi doveva essere indicato tra le rimanenze finali di opere di durata ultrannuale, come effettivamente avvenuto.
3. Con il terzo motivo, la società censura la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. affermato che la contribuente non avesse fornito alcuna prova documentale a dimostrazione della provenienza e della destinazione delle somme prelevate o versate dai conti correnti intestati alla società e ai soci, benché in sede di verifica avesse fornito ampie giustificazioni, sia con riguardo alle operazioni di prelevamento attraverso la produzione delle fotocopie degli assegni e le informazioni su partita Iva/codice fiscale dei relativi beneficiari e sulle motivazioni del pagamento, sia con riguardo alle operazioni di versamento attraverso l’esibizione dei mastri di conto attestanti la restituzione al socio P. delle anticipazioni effettuate nel periodo 2001/2005.
4. Va preliminarmente esaminato il ricorso proposto dalla socia B.R. (n. 5651/15), avendo la stessa prodotto, in data 11/6/2019, copia della domanda di definizione agevolata delle controversie tributarie ai sensi dell’art. 6, d.l. 2018, n. 119, munita della quietanza di pagamento e della ricevuta di presentazione all’Agenzia delle Entrate.
Rispetto ad esso non sussistono le condizioni per procedere all’esame nel merito del giudizio, in quanto tale iniziativa, ancorché mancante della dimostrazione dell’avvenuta notifica alla controparte dell’istanza e della documentazione, è inequivocabilmente indicativa del venir meno dell’interesse della contribuente al ricorso, sì da potersi configurare la sopravvenuta inammissibilità dell’impugnazione stessa (in questi termini, Cass., Sez. 5, 19/5/2021, n. 13589; Cass., Sez. 5, 29/8/2018, n. 21287; Cass., Sez. 5, 16/2/2021, n. 4009).
5. L’unico motivo di ricorso di cui al proc. n. 5647/2015 e il primo motivo di ricorso di cui al proc. n. 5652/2015, che vertono su identica questione, sono infondati.
E’ vero che, secondo quanto sostenuto dai contribuenti, l’unitarietà dell’accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone di cui all’art. 5 del d.P.R. 1986 n. 917 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società, riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci e impone dunque che tutti questi soggetti siano parte dello stesso procedimento, non potendo la controversia essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi, con la conseguenza che il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 546/92 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) e che il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio, salvo che i soci prospettino questioni personali come la qualità di socio o la decadenza dal potere di accertamento o la ripartizione del reddito tra i soci (Cass. Sez. U, 04/06/2008, n. 14815; Cass., Sez. 6-5, 11/6/2018, n. 15116).
E’ altresì vero però che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione dei procedimenti, per connessione oggettiva ex art. 274 cod. proc. civ., quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da: 1) identità oggettiva quanto a causa petendi dei ricorsi; 2) simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; 3) simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; 4) identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici, essendo in tal caso rispettata la ratio del litisconsorzio necessario ed essendo escluso ogni rischio di contrasto tra giudicati. Peraltro, la ricomposizione dell’unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perché non giustificate dalla necessità di salvaguardare II rispetto effettivo del principio del contraddittorio (cfr. Cass., Sez. 5, 13/12/2017, n. 29843; Cass., Sez. 5, 10/11/2017, n. 26648).
Pertanto, le pronunce riguardanti la società ed i soci adottate dallo stesso collegio ln identica composizione, nella medesima circostanza e nel contesto di una trattazione essenzialmente unitaria, implicano la presunzione che si sia realizzata una vicenda sostanzialmente esonerativa del litisconsorzio formale, sicché la parte ricorrente per cassazione, che lamenti la violazione del principio del necessario contraddittorio con riferimento al giudizio di primo grado, ha l’onere – In conformità al principio di autosufficienza del ricorso – di descrivere lo sviluppo delle procedure nel corso di quel grado (Cass., Sez. 5, 13/12/2017, n. 29843 cit.; Cass., Sez. 6 – 5, 15/06/2016, n. 12375).
Nella specie, risulta dalle stesse deduzioni difensive dei contribuenti (società e soci) che i ricorsi proposti dalla società e dai due soci furono trattati in primo grado separatamente, ma decisi nella stessa data, il 8/6/2012, e che gli appelli da essi proposti furono decisi dal medesimo collegio, composto dai medesimi giudici, nella stessa udienza, quella del 7/5/2014, con sentenze aventi contenuti uniformi, mentre nessuna descrizione dello sviluppo delle procedure è stata fornita dai ricorrenti se non quella testé affermata delle date e del contenuto della decisione.
Ciò comporta che, alla luce dei principi sopra enunciati, debba darsi luogo alla riunione dei procedimenti, ma non alla declaratoria di nullità delle due sentenze, non sussistendo alcun motivo atto a giustificare la necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio, in quanto sostanzialmente garantito dalla contestuale disamina dei rispettivi ricorsi nei gradi di merito e della omogeneità delle decisioni, al pari di quanto sarebbe accaduto in caso di unicità del processo, e non venendo la posizione dei soci ad essere incisa, come si vedrà, dalla sopraggiunta definitività degli accertamenti a fini Irpef ad essi afferenti, atteso che le pronunce impugnate, ancorché plurime, ne impongono comunque una valutazione unitaria.
Ne consegue il rigetto delle censure.
6.1 Il secondo motivo proposto dalla società è invece fondato.
Sul piano fiscale, infatti, la distinzione tra «immobili strumentali» (destinati, ex art. 43, comma 2, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, alla produzione propria o di terzi), «immobili patrimonio» (destinati al mercato locativo ex artt. 37 e 90 d.P.R. n. 917 del 1986), e «immobili-merce» (destinati al mercato della compravendita e caratterizzati dall’essere quelli al cui scambio o produzione è diretta l’attività di impresa) (vedi Cass., Sez. 5, 23/7/2019, n. 19815, in motivazione; Cass., Sez. 5, 20/2/2020, n. 4417; Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103), implica che l’allocazione in bilancio dei beni societari debba avvenire sulla base della destinazione economica ad essi impressa (in questi termini, Cass., Sez. 5, 20/2/2020, n. 4417; Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103), anche quando siano parte di un unico complesso immobiliare, stante l’autonomia derivante dalla autonoma identificabilità degli stessi in catasto (in tal senso, Cass., Sez. 5, 20/2/2020, n. 4417; Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103), senza che assuma alcuna rilevanza lo stato di compiuta edificazione che assume, da un punto di vista fiscale, valenza neutra.
Ciò appare evidente dalle stesse indicazioni contenute nell’art. 2425 cod. civ., nella parte in cui impone al soggetto che redige il bilancio di indicare nel conto economico – sulla cui base, ai sensi dell’art. 83 d.P.R. n. 917 del 1986, viene determinato il reddito complessivo degli enti commerciali nell’esercizio chiuso nel periodo di imposta – la somma degli importi risultanti dalle voci A1 e A5 (ricavi delle vendite e delle prestazioni o altri ricavi e proventi) quanto ai “ricavi” e la somma delle variazioni positive di voci A2, A3 e B11 (ossia variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti), quanto agli incrementi di rimanenze (Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103, cit.).
La stessa nozione di “ricavi”, arguibile dall’art. 85, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, allorché riconduce gli stessi ai soli «corrispettivi delle cessioni dei beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa» (lett. a) e ai «corrispettivi delle cessioni di materie prime e sussidiarie, di semilavorati e di altri beni mobili, esclusi quelli strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione» (lett. b), implica che l’atto di disposizione (ossia la cessione) sia stato realizzato, mentre le variazioni delle rimanenze finali dei medesimi beni, rispetto alle esistenze finali, concorrono parimenti a formare il reddito secondo un valore non inferiore a quello risultante dal raggruppamento di beni in categorie omogenee per natura e valore ovvero, a mente dell’art. 93, per le opere, forniture e servizi di durata ultrannuale, secondo il valore complessivo relativo alla parte eseguita (es. corrispettivi pattuiti oppure corrispettivi liquidati in relazione allo stato di avanzamento lavori).
La necessaria valutazione, ai fini della corretta classificazione in bilancio, della destinazione economica dei beni-merce ha condotto del resto questa Corte, sia pure in differente fattispecie, ad affermare che i fabbricati finiti e pronti per la vendita debbano essere classificati, se oggetto di locazione, alla voce “immobilizzazioni” e se sfitti alla voce “rimanenze a disposizione della società al fini della vendita”, le quali attengono all’attivo circolante della società cui appartengono (in tal senso, vedi Cass., Sez. 5, 20/2/2020, n. 4417; Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103; Cass., Sez. 5, 23/12/2019, n. 34410), restando i beni, ai fini della loro iscrizione, soggetti al disposto di cui all’art. 2426, primo comma, n. 9, cod. civ., che ne disciplina i criteri di valutazione, posto che il «magazzino» non identifica il luogo fisico nel quale I beni sono conservati, ma l’insieme dei beni-merce che sono nella disponibilità giuridica dell’azienda, i quali, se non vengono valutati a costi specifici, devono essere, ai fini della loro valutazione, raggruppati in categorie omogenee (in tal senso, Cass., Sez. 5, 23/12/2019, n. 34410, in motivazione, cit.).
L’ultimazione o meno degli immobili, dunque, non ha in sé rilevanza ai fini della loro classificazione in bilancio e, ancor meno, ai fini della determinazione del reddito di impresa, ben potendo capitare che un bene non completato sia ceduto prima della sua completa realizzazione (in tal senso vedi Cass., Sez. 5, 23/12/2019, n. 34410), sì da doversi allocare sotto la voce “ricavi”, o che, pur completato, non sia destinato alla vendita ma alla locazione, sì da doversi iscrivere alla voce “immobilizzazioni”, ovvero sia rimasto sfitto e invenduto, sì da doversi classificare in termini di rimanenze di magazzino a disposizione della società ai fini della vendita (vedi Cass., Sez. 5, 9/2/2021, n. 3103), da valutarsi sulla base dei costi specifici iscritti in bilancio.
La correlazione tra “ricavi” e corrispettivi ricevuti dall’impresa appare del resto ulteriormente avvalorata dalla disposizione di cui all’art. 93 del d.P.R. n. 917 del 1986, afferente ai lavori retribuiti in base allo stato di avanzamento, il quale, nel distinguere tra corrispettivi liquidati a titolo definitivo dal committente e corrispettivi liquidati solo parzialmente e nell’imporre di classificare sotto la voce “ricavi” soltanto i primi e sotto la voce “rimanenze” le parti non ancora liquidate, attribuisce rilevanza al momento della liquidazione e dunque al pagamento del corrispettivo e non allo stato dell’immobile (che ne costituisce, in questo caso, un mero presupposto di fatto).
Alla luce di quanto detto, può allora formularsi il seguente principio di diritto: «in tema di redditi di impresa, l’allocazione in bilancio degli immobili-merce, ossia di quelli destinati al mercato della compravendita e al cui scambio o produzione è diretta l’attività di impresa, dipende dalla destinazione economica ad essi concretamente impressa, sicché detti beni, quando non ancora ceduti, devono essere iscritti, se sfitti, alla voce “rimanenze di magazzino” e non a quella “ricavi”, senza che assuma in sé alcuna rilevanza, ai fini dell’imposizione fiscale, la loro avvenuta ultimazione».
Nella specie, appare evidente come i giudici di merito non si siano affatto attenuti a questo principio, avendo ritenuto che gli immobili edificati dalla contribuente impresa di costruzioni andassero iscritti alla voce “ricavi” soltanto perché ultimati nell’anno di esercizio, ossia al 31/12/2005, sì da giustificare la rettifica dei redditi della stessa, e avendo invece trascurato il fatto che gli stessi, a quella data, fossero ancora invenduti e a disposizione della società.
Ne deriva la fondatezza del motivo.
6.2 La parziale invalidità della rettifica nei confronti della società comporta, di necessità, il travolgimento dell’accertamento nei confronti dei soci.
Non può sottacersi, infatti, come, in caso di redditi tassati secondo il regime della trasparenza, la ratio del litisconsorzio necessario e la conseguente riunione dei procedimenti relativi a società e soci in presenza di vicenda sostanzialmente esonerativa dal litisconsorzio formale, secondo quanto accaduto nella specie, risponda, al pari della retrocessione del processo alla fase di merito, alla necessità di garantire la massima omogeneità e il massimo coordinamento possibile tra risultati processuali, evitando quei contrasti tra giudicati che potrebbero altrimenti venire in essere in caso di parcellizzazione del contenzioso tributario in relazione a rapporti omogenei, ancorché distinti in ragione della pluralità dei soggetti coinvolti nella fattispecie costitutiva dell’obbligazione, e connotati dalla sostanziale unitarietà dell’atto impositivo.
Tale situazione fa sì che il ricorso, benché proposto da uno o più obbligati, abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, ma la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, siccome espressione, sul piano costituzionale, dei principi di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione, perché funzionale alla parità di trattamento dei coobbligati e al rispetto della loro capacità contributiva (Cass., Sez. U, 18/01/2007, n. 1052), imponendo tra essi il litisconsorzio necessario, nell’accezione fatta propria dall’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, che, in ambito tributario, rinviene il suo presupposto proprio nella inscindibilità dell’oggetto del ricorso.
Ciò comporta che l’unicità del fatto costitutivo della pretesa impositiva, in uno con la pluralità degli obbligati, rende irrilevante la definitività dell’accertamento afferente i singoli soci, i quali sono legittimamente chiamati in causa anche quando non sia più possibile, per essi, la proposizione di autonoma impugnazione per essere ormai decorso il termine di decadenza ex art. 14, comma 6, d.lgs. n. 546 del 1992, atteso che la rettifica del reddito da partecipazione del socio ai fini Irpef discende direttamente, presupponendolo, dalla rideterminazione di quello della società, In questo sostanziandosi il carattere della unicità del presupposto Impositivo, e che soltanto la possibilità concessa ad esso di opporre all’Ufficio la sentenza a sé favorevole, ad esempio per impugnare la cartella esattoriale e gli atti successivi della riscossione, col solo limite della irripetibilità di quanto già pagato, giustifica la stessa sua chiamata, risolvendosi altrimenti essa in un’inutile attività processuale (Cass., Sez. 5, 27/3/2019, n. 10918).
Coerentemente dunque con il sistema appena delineato, deve allora ritenersi che il principio espresso da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui, per gli accertamenti divenuti «definitivi perché non impugnati», «vale la regola già ricordata della non autonoma impugnabilità (art. 14, comma 6, d.lgs. n. 546 del 1992) e della opponibilità all’amministrazione finanziaria del giudicato favorevole al contribuente, che si formi nel giudizio nel quale lo stesso intervenga come litisconsorte, con il solo limite della irripetibilità di quanto pagato» (Cass., Sez. Un, 4/6/2008, n. 14815 clt.), non debba essere relegato ai soli casi in cui la definitività dell’accertamento derivi dalla sua mancata Impugnazione, ma si estenda anche alle Ipotesi in cui essa derivi dal passaggio in giudicato della pronuncia che ha confermato l’atto impositivo per il socio, essendo la rettifica dei redditi di quest’ultimo derivata da quella operata nei confronti della società, come si è detto, sicché la caducazione di quest’ultima elide il presupposto della pronuncia sulla prima, siccome insuscettibile di vita autonoma.
Peraltro, tali considerazioni devono ritenersi del tutto coerenti col sistema delle impugnazioni e, segnatamente, con il disposto dell’art. 336, primo comma, cod. proc. civ., il quale, nello stabilire che «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata» (c.d. espansivo interno della riforma o della cassazione), impone di estendere l’efficacia della pronuncia anche sui capi del provvedimento non impugnati autonomamente, ma necessariamente dipendenti da altro capo impugnato, ivi compresi quelli che abbiano fatto oggetto di impugnazione separata quando questa sia rigettata, non potendo il nesso di pregiudizialità-dipendenza tra gli uni e gli altri essere escluso dall’eventuale decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi dipendenti (in questi termini, vedi Cass., Sez. L, 1/3/2021, n. 5550, in tema di contributi Inps; Cass., Sez. L, 9/6/994, n. 5601; Cass., Sez. U, 17/2/2004, n. 3054, con riguardo al rapporto tra difetto di giurisdizione e spese).
Alla stregua di quanto detto, deve allora formularsi il seguente principio di diritto: «In caso di redditi tassati secondo il regime della trasparenza, l’unicità del fatto costitutivo della pretesa impositiva si sostanzia nel rapporto di diretta derivazione della rettifica dei redditi dei soci ai fini Irpef dalla rideterminazione di quelli della società di persone, che ne costituisce il presupposto, sicché l’annullamento dell’atto impositivo relativo a quest’ultima ha effetto, ai sensi dell’art. 336, primo comma, cod. proc. civ., anche sulle parti della sentenza afferenti all’avviso di accertamento emesso nei confronti dei soci (c.d. espansivo interno della riforma o della cassazione), siccome da esso dipendenti, anche quando questo sia definitivo per essere ormai decorso il termine di decadenza ai sensi dell’art. 14, comma 6, d.lgs. n. 546 del 1992 ovvero per non essere stati autonomamente impugnati i capi della pronuncia che lo riguardano ovvero per essere stato questo confermato con sentenza passata in giudicato, risolvendosi altrimenti l’integrazione del contraddittorio conseguente al litisconsorzio necessario tra le parti in un inutile attività processuale».
Alla stregua di quanto detto, deve allora disporsi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla C.T.R. per la Sicilia, affinché provveda a rideterminare i redditi della società e del socio P.S. in applicazione dei principi sopra espressi.
7. La terza censura della società e invece infondata.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ. per le presunzioni semplici, e che, in quanto relativa, può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, anche per presunzioni semplici, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario (Cass., Sez. 5, 04/08/2010, n. 18081; Cass., Sez. 5, 3/9/2008, n. 22179; Cass., Sez. 5, 3/5/2018, n. 10480; Cass., Sez. 5, 30/6/2020, n. 13112).
Una volta assolto dal contribuente l’onere probatorio, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione, e a darne conto in motivazione (Cass., Sez. 5, 5/5/2021, n. 11696, Cass., Sez. 5, 30/6/2020, n. 13112; Cass., Sez. 6-5, 03/05/2018 n. 10480), potendo la mancata verifica essere censurata, in sede di legittimità, per omessa o insufficiente motivazione, in base al disposto dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 (Cass., Sez. 5, 5/5/2021, n. 11696).
Nella specie, la contribuente lamenta non tanto l’avvenuta violazione del riparto dell’onere probatorio, quanto l’erronea valutazione, da parte dei giudici di merito, delle prove a discarico da essa fornite, sicché non è ravvisabile la violazione di legge lamentata, avendo la C.T.R. correttamente attribuito la distribuzione tra le parti dei doveri di dimostrazione dei propri assunti, dando adeguato conto dei motivi relativi alla reputata inadeguatezza delle prove fornite dalla ricorrente.
Dopo avere premesso, infatti, che era stata «così giustificata ex lege l’inversione dell’onere della prova sia per i prelevamenti che per i versamenti», i giudici di merito hanno quindi provveduto alla valutazione delle prove fornite dalla contribuente, sostenendo che «nessuna prova documentale risulta fornita dalla società appellante in ordine alla provenienza e alla destinazione di dette somme» e che «gli accenni alla eventuale duplicazione di ricavi (desunti sia dalla contabilità sia dai movimenti bancari), alla mancata depurazione dell’Iva dei versamenti in conto corrente alla pretesa discrepanza tra i metodi di accertamento dell’Iva e delle imposte sui rediti, sono estremamente generici e, come tali inammissibili>>, sicché le censure oggi proposte appaiono più dirette ad ottenere una inammissibile revisione del ragionamento decisorio, piuttosto che a stigmatizzare la lamentata violazione di norme.
Ne deriva l’infondatezza del motivo.
8. In conclusione, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso proposto da B.R., rigettarsi l’unica censura proposta dal socio P.S. e il primo e il terzo motivo proposti dalla società A. Costruzioni s.r.l. (già s.n.c.) e, in accoglimento del secondo motivo proposta da quest’ultima, deve cassarsi la decisione impugnata, con rinvio alla C.T.R. per la Sicilia-Sezione distaccata di Messina, che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi n. r.g. 5647/2015, n. 5651/2015 e 5652/2015.
Dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto da B.R. di cui al n. 5651/2015, rigetta l’unico motivo del ricorso proposto da P.S. di cui al n.r.g. 5647/2015 e il primo e terzo motivo del ricorso proposto dalla Società A. Costruzioni s.r.l. (già s.n.c.) di cui al n.r.g. 5652/2015 e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Sicilia-Sezione distaccata di Messina, che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato a carico di P.S.
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