CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 gennaio 2022, n. 1102
Enasarco – Agenti di commercio operanti all’estero – Contribuzione – Accertamento della natura di agenzia dell’attività svolta
Rilevato che
la Corte d’appello di Roma, In riforma della pronuncia del Tribunale, ha rigettato l’opposizione della società F. s.r.l. al decreto ingiuntivo emesso in favore della Fondazione Enasarco per i contributi previdenziali dovuti in relazione al rapporto di agenzia intercorso con M.Z. nel periodo 2005-2008, nonché per i versamenti FIRR per il periodo 2005-2007;
la Corte territoriale ha ritenuto, diversamente dal primo giudice, che dalle risultanze probatorie acquisite al giudizio fosse emersa la natura di agenzia della prestazione svolta dallo Z., e che, pertanto, sussistesse l’obbligo contributivo in capo all’opponente, comprensivo dei contributi FIRR, mentre nel caso dell’agente E.R., ha affermato, in una a quanto già deciso dal Tribunale, che nulla era dovuto dalla F. s.r.l. al medesimo titolo, stante l’espresso esonero contributivo previsto dal Regolamento Enasarco, in vigore dall’ 1 gennaio 2004, per l’attività degli agenti di commercio operanti all’estero;
la cassazione della sentenza è domandata dalla società F. s.r.l. sulla base di due motivi;
la Fondazione Enasarco ha depositato tempestivo controricorso.
Considerato che
col primo motivo, formulato sulla base dell’art. 360, co. l, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ., parte ricorrente deduce “Violazione a falsa applicazione degli artt. 1742 c.c. e 115 c.p.c., nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c.”; si duole della qualificazione giuridica del rapporto commerciale tra M.Z. e la società F. s.r.l. quale agenzia, che la Corte d’appello avrebbe formulato senza un’adeguata motivazione, e in contrasto con la documentazione prodotta in giudizio;
sostiene che non si riscontrerebbe quella continuità e stabilità del rapporto tipica del contratto di agenzia e che non vi sarebbe l’individuazione di una precisa zona di operatività dell’agente né un vincolo di esclusiva; contesta che la Corte d’appello abbia travisato la documentazione prodotta dalle parti giungendo a conclusioni errate;
col secondo motivo, formulato sulla base dell’art. 360, co. l, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ., deduce “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e seguenti c.c., 2697 c.c., 115 c.p.c. nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio; nullità della sentenza in relazione all’art. 132 cod. proc. civ.”; lamenta che la Corte d’appello non avrebbe motivato in nessun modo l’addebito alla società dei versamenti al fondo per l’indennità di risoluzione del rapporto (cd. FIRR); che l’accantonamento al fondo non deriva dalla legge, bensì da atti di natura negoziale, gli accordi economici collettivi di categoria (a.e.c. in tema di agenzia), validi soltanto tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti; che nel caso in esame le parti non hanno aderito alle associazioni stipulanti l’a.e.c., né tale accordo è stato richiamato nel contratto di agenzia;
il primo motivo è inammissibile sotto ciascuno dei denunciati profili;
in primo luogo parte ricorrente non rende intelligibile la dedotta violazione di legge;
in base a quanto ribadito dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n. 23745 del 2020, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa;
la censura contesta l’accertamento di fatto circa la natura di agenzia dell’attività svolta dall’odierno controricorrente, senza considerare che la Corte d’appello ha fatto derivare la qualificazione del contratto quale agenzia da un rigoroso accertamento di fatto circa la sussistenza della volontà delle parti di dare corso a un rapporto stabile, diverso da un mero procacciamento di affari, risultato provato, tra tutti gli elementi istruttori emersi, anche dalla regolare e costante emissione di fatture a cadenza trimestrale, riferite ad una pluralità indeterminata e non specifica serie di affari, segno dell’atteggiarsi concreto del rapporto d’agenzia in modo non occasionale;
neppure assume rilievo la doglianza con cui la società fa rilevare che, nel costituirsi in giudizio, la Fondazione Enasarco non aveva contestato le modalità di svolgimento del rapporto, ma si ero limitala ad opporsi alla prova in quanto irrilevante rispetto ai fatti di causa;
secondo quanto ritenuto da questa Corte, la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, bensì un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi con specifico motivo d’impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale alla condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio;
da ciò consegue che, “…nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (Così, Cass. n. 3680 del 2019; cfr., anche, Cass. n. 27490 del 2019);
le critiche risultano, in definitiva, dirette alla rivalutazione del fatto così come ricostruito e qualificato dal giudice di merito;
va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017); Al quanto al vizio di omesso esame di una questione sollevata dalla difesa o di un’eccezione di nullità (anche sollevabile d’ufficio), questa Corte afferma che questo non è configurabile quando debba ritenersi che tali questioni o eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente;
sulla base del principio di diritto affermato da questa Corte (cfr. ex multis, Cass. n. 7406 del 2014), il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale ultimo può configurarsi in relazione alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendosi profilare al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 cod. proc. civ., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte; in sintesi, il vizio di omessa pronuncia non ricorre, neppure quando sia stata omessa una pronuncia su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (ex multis cfr. Cass. n. 20191 del 2017);
riguardo alla denuncia di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la ricorrente lamenta che, se correttamente valutate, le fatture prodotte in giudizio, ed esaminate dagli ispettori, avrebbero dovuto portare alla conclusione circa la volontà delle parti di dare corso ad un rapporto di lavoro occasionale;
le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che «nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» (Sez. Un. n. 8053 del 2014);
la critica non fa riferimento all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), ma si limita a denunciare la mancata valorizzazione di risultanze istruttorie che si assumono erroneamente valutate dalla Corte territoriale: pertanto, la doglianza fuoriesce dai confini espressamente indicati dalla norma, ed acclarati dalla giurisprudenza di questa Corte;
il secondo motivo presenta un assorbente profilo di inammissibilità, non avendo la parte ricorrente allegato I’ accordo economico collettivo aziendale in tema di agenzia di cui contesta l’applicazione;
in base al principio di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 4 e 369 n. 6 cod. proc. civ. il ricorso per cassazione, in ragione del principio di specificità, deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 11603 del 2018; Cass. n. 27209 del 2017; Cass. n. 12362 del 2006);
in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della Fondazione Enasarco, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R, n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17 della I. n.228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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