CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 maggio 2019, n. 13039
Lavoro – Svolgimento di attività lavorativa a domicilio – Verbale di accertamento – Prestazione resa secondo i criteri previsti per il cd. lavoro subordinato
Ritenuto che
la Corte d’Appello di Brescia, confermando la sentenza del Tribunale di Mantova, ha rigettato il ricorso della S.G.S. s.r.l., la quale aveva domandato di dichiarare l’illegittimità del verbale di accertamento col quale gli Ispettori dell’Inps avevano qualificato il rapporto di lavoro della dipendente C.C. come di lavoro subordinato a domicilio;
la Corte territoriale ha accertato che il materiale probatorio agli atti aveva confermato che la C. svolgeva attività lavorativa a domicilio quale sarta per la G.S. s.r.l. e che la prestazione era resa secondo i criteri previsti per il cd. lavoro subordinato esterno dalla legge n. 877 del 1973 e successive modifiche; che in particolare la lavoratrice: a) eseguiva la prestazione nel proprio domicilio; b) il lavoro era prevalentemente personale; l’aiuto occasionale offerto dalla sorella convivente e non a carico non era mai stato retribuito; c) era tenuta a seguire le direttive della società quanto alle modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere, che ricavava da un capo campione e dalla scheda tecnica fornita dalla datrice;
nella fattispecie, la Corte d’appello ha ritenuto sussistenti altresì tutti gli elementi sintomatici della cd. subordinazione esterna elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (p. 9 e 10 sent.), quali l’inserimento nel ciclo produttivo dell’azienda, la possibilità di accettare le singole commesse, la perentorietà dei termini di consegna delle lavorazioni, lo svolgimento di altri lavori per terzi, la possibilità di negoziare in prezzo, l’iscrizione all’albo degli artigiani, l’emissione di fatture, la volontà delle parti;
quanto alle domande concernenti la somma versata dall’Inail come contributo spese alla lavoratrice e la natura della sanzione inflitta, a titolo di evasione e non di mera omissione contributiva la Corte territoriale ha affermato:
quanto alla prima, che la lavoratrice aveva diritto alla corresponsione dei premi omessi, in quanto facenti parte integrante della retribuzione da lavoro dipendente;
quanto alla seconda, riguardante la natura della sanzione civile, che essendo incontestato il mancato versamento dei contributi previdenziali, detta omissione integrava gli estremi dell’evasione, poiché la fattispecie dell’omissione si limita all’ipotesi del mancato pagamento degli oneri da parte del datore che abbia tuttavia provveduto alle denunce e alle registrazioni obbligatorie richieste dalla legge, mentre, nel caso in esame, si era riscontrata la preordinazione da parte della Società di voler dato vita a un contratto di lavoro a domicilio autonomo fittizio;
la cassazione della sentenza è domandata dalla G.S. s.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 380 bis co. 2 cod. proc. civ.; l’Inps e l’Inail resistono con tempestivo controricorso.
Considerato che
con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1 n. 3 cod. proc. civ., parte ricorrente contesta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 co. 1 e 2 della Legge n. 877 del 1973 per errata individuazione dei criteri generali che presiedono alla distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo nel campo del lavoro a domicilio e omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione nella scelta e nell’adozione di tali criteri distintivi nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2082, 2094 e 2222 c.c.”; le censure tendono a confutare punto per punto le argomentazioni dei giudici di merito quanto alla ritenuta sussistenza degli indici di qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato esterno;
con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1 n. 5 cod. proc. civ., lamenta “Omessa insufficiente o contraddittoria motivazione in relazione a fatti e prove decisivi per il giudizio”; la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata su una serie di circostanze specificamente contestate dalla Società, tra le quali, in particolare, il requisito del familiare “non a carico” richiesto dalla legge e la possibilità per la lavoratrice di rifiutare le singole commesse;
con il terzo e ultimo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1 n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente contesta “In via subordinata, violazione e falsa applicazione dell’art. 116 comma 8 lett. a) e b) della Legge n. 388 del 2000 e in particolare della distinzione ivi contemplata tra le fattispecie di omissione/evasione nel versamento dei premi assicurativi e conseguentemente del regime sanzionatorio applicato”; la doglianza pone in rilievo – in particolare – la mancata indagine da parte del giudice dell’appello circa la sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta della Società, in quanto rivolta all’occultamento del rapporto di lavoro subordinato con la dipendente; il ricorso è inammissibile;
quanto al primo motivo, la sentenza impugnata appare esente da vizi; essa ha fatto compiuta ed esatta applicazione dei principi ermeneutici legali e giurisprudenziali al rapporto di lavoro dell’odierna controricorrente, confermandone la piena aderenza al tipo “subordinato a domicilio”, così come accertato dal verbale degli Ispettori del lavoro;
per come prospettate, le doglianze formulate da parte ricorrente mirano a reintrodurre questioni di merito, inibite in sede di legittimità, e non già a contestare la sussunzione della fattispecie in esame entro i parametri di riferimento legali e giurisprudenziali, oggetto di approfondito esame da parte della Corte territoriale;
il secondo motivo è altresì inammissibile, poiché esorbita dai confini tracciati dall’art. 360, co. 1, n. 5 del codice di rito ratione temporis applicabile alla fattispecie, e precisati dalle Sez. Un. n. 8053 del 2014;
riguardo ai fatti su cui la sentenza avrebbe, secondo parte ricorrente, omesso di motivare (quali la sussistenza del requisito del familiare “non a carico” richiesto dalla legge e la possibilità per la lavoratrice di rifiutare le singole commesse) la Corte territoriale ha, di contro, svolto uno specifico accertamento e offerto una motivazione coerente e logica rispetto al quadro complessivo fattuale di riferimento, adempiendo esattamente al compito assegnato al giudice del merito di qualificare la natura del rapporto di lavoro sulla base delle risultanze probatorie;
affinché sussista la violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., in base alla nuova formulazione, la motivazione deve essere o del tutto inesistente ovvero solo formalmente esistente, ma resa all’esito di un iter argomentativo contraddittorio, che non consente di individuarne il nesso logico con il decisum (ancora in tal senso Sez. Un. n. 8053 del 2014), ciò che non si riscontra nell’impianto della decisione impugnata;
anche il terzo motivo è inammissibile, atteso che parte ricorrente, dolendosi della mancanza dell’accertamento circa la sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta della datrice di lavoro, tende a riproporre una questione di merito rivolta ad ottenere una rivalutazione del fatto a sé più favorevole, inibita nel giudizio di legittimità;
in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma quater del d.P.R. n.115 del 2002, ricorrono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 3500,00 nei confronti dell’Inps ed Euro 3500,00 nei confronti dell’Inail per compensi professionali, oltre alle spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 – bis.
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