CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 ottobre 2021, n. 29478
Tributi – Contenzioso tributario – Ricorso in cassazione – Principio di autosufficienza del ricorso – Mancata trascrizione delle clausole del contratto intercorso tra partecipante e partecipata – Impossibilità di qualificazione del contratto e del conseguente regime impositivo – Inammissibilità del ricorso
Rilevato che
1. In seguito a verifica fiscale conclusasi con il processo verbale di costatazione del 23/10/2007, l’Agenzia delle Entrate notificò alla società F.F. s.p.a., in qualità di consolidata, e alla F. s.p.a., in qualità di capogruppo consolidante, un avviso di accertamento, datato 9/10/2007, col quale rettificò il reddito delle predette, relativo all’anno 2005, per avere la prima qualificato, a fini fiscali, in termini di contratto di natura finanziaria quello di “cash pooling zero balance system” (ossia di contratto di gestione centralizzata della tesoreria e dunque di conto corrente non bancario ai sensi dell’art. 1823 cod.civ.), nel quale aveva assunto la funzione di centro di tesoreria, deputato alla gestione delle disponibilità delle società del gruppo, e in virtù del quale aveva provveduto, nel 2005, a movimentare in “dare” il conto corrente centralizzato nei confronti della società del gruppo S. spa (nel capitale della quale aveva una partecipazione) per avere operato versamenti a copertura di saldi di cassa negativi, senza ricevere accreditamenti da essa provenienti, applicando la disciplina propria dei finanziamenti intragruppo. Secondo l’Ufficio, invece, tale contratto non comportava, come sue prestazioni tipiche, l’erogazione di somme di denaro dalla società F.F. alla società S., con obbligo di quest’ultima, di restituzione di una somma maggiorata di interessi, e non poteva dunque essere qualificato come finanziario, ma andava assoggettato alla disciplina dei rapporti di conto corrente non bancari, ex art. 1823 cod. civ., che comportano l’obbligo di annotare nel conto le reciproche rimesse e danno luogo alla inesigibilità e indisponibilità fino alla chiusura, ossia fino al saldo finale, dei crediti da esse nascenti. Pertanto, gli interessi corrisposti da S. a F.F. non avrebbero dovuto essere riqualificati come dividendi ai sensi della disciplina antielusiva e repressiva della capitalizzazione sottile, che, ai sensi dell’art. 98 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, determina, in caso di superamento di un certo rapporto tra entità del finanziamento e quota di patrimonio netto della partecipata di pertinenza della partecipante qualificata (perché pari o superiore al 25%) ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., l’indeducibilità degli interessi maturati sulla quota di finanziamento eccedente quel rapporto, per la partecipata, e l’imponibilità degli stessi al 5% in virtù del regime generale di esclusione dell’imponibile del 95% dei dividendi (partecipation exemption o pex), per la partecipante, sicché tali interessi, non potendo essere qualificati come dividendi, secondo quanto ritenuto dalla partecipante, erano stati recuperati a tassazione a carico di quest’ultima quali ricavi non dichiarati.
Impugnato il predetto atto da F.F., che sosteneva la causa mista del contratto in esame, la C.T.P. di Torino accolse il ricorso con la sentenza n. 14/16/2012, la quale, impugnata dall’Ufficio, è stata confermata dalla C.T.R. per il Piemonte con la sentenza n. 163/34/13 depositata il 15/11/2013.
2. Contro la predetta sentenza l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La contribuente si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, nn. 1, 2 e 4, 1322, secondo comma, 1823 e 1813 cod. civ., 89, comma 2, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere entrambi i giudici di merito affermato che tra la contribuente e la S. sussistesse un rapporto di conto corrente non bancario, strumentale alla organizzazione di un sistema di tesoreria accentrata del gruppo F., da qualificarsi, quanto al 2005, in un contratto di finanziamento dalla prima alla seconda in ragione dell’avvenuta realizzazione di sole rimesse F.F. in favore della partecipata e non il contrario, sicché, considerato il finanziamento fatto nel 2005 e la partecipazione della finanziante nella finanziata, trovava applicazione la normativa sulla capitalizzazione sottile, con conseguente riqualificazione degli interessi maturati in dividendi distribuiti dalla partecipata alla finanziatrice e sottrazione degli stessi a tassazione ex artt.89, comma 2, e 122, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo vigente ratione temporìs, e non imponibilità, in capo alla capogruppo consolidante, neppure del residuo 5%. Ad avviso dell’Ufficio, invece, il rapporto, in quanto di mero conto corrente non bancario, avrebbe dovuto essere regolato dall’art. 1823 cod. civ., a mente del quale l’azzeramento delle reciproche posizioni debitorie e creditorie non comporta alcun obbligo restitutorio delle rimesse fino al saldo finale, il quale solo diviene esigibile, come accaduto nella specie, in ciò differenziandosi rispetto ai contratti di finanziamento, della cui esistenza, peraltro, non era stata fornita alcuna prova, così come della causa mista e della prevalenza della causa finanziaria su quella di conto corrente. Infine, se per la qualificazione del rapporto come contratto di conto corrente è sufficiente la previsione pattizia dell’eventualità di rimesse reciproche, la mera realizzazione di sole rimesse da una parte all’altra non avrebbe potuto in alcun modo incidere sulla causa del contratto, tramutandolo in contratto a causa mista (conto corrente e finanziamento), agli effetti dell’art. 98, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986, stante la mancata previsione di obblighi di restituzione prima della chiusura del conto e di una inequivocabile volontà delle parti in tal senso, restando la circostanza realizzata in un dato lasso di tempo un mero accidente esecutivo del contratto tipico di conto corrente, senza assurgere a manifestazione, neppure implicita, di volontà.
2. Col secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, primo comma, seconda parte, cod. proc. civ., 36, comma 2, n. 4, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (omissione di motivazione), e art. 98, comma 4, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., per avere entrambe le commissioni di merito qualificato il rapporto di conto corrente tra F.F. e S. come finanziario agli effetti dell’art. 98 d.P.R. n. 917 del 1986 (applicabilità del regime “thin cap”), dando rilievo determinante al fatto che la prima avesse praticato solo rimesse attive a favore della seconda, attraverso versamenti disposti nel conto corrente bancario della stessa a copertura di saldi negativi, senza esaminare l’obiezione mossa dall’Ufficio circa la mancata dimostrazione di tale dato, essendosi la contribuente limitata a riportare meri prospetti riepilogativi non soltanto privi di riscontro nei documenti prodotti, ma anche riportanti essi stessi movimentazioni in uscita, come arguibile dal fatto che alcuni mesi riportavano una variazione in decremento del saldo, indice della reciprocità delle rimesse. La C.T.R., peraltro, nel respingere la doglianza, si era limitata a richiamare per relationem il prospetto di pg. 19 delle controdeduzioni in appello della società, riportante saldi meramente negativi, in virtù del quale quest’ultima riteneva di vantare solo interessi passivi, nonostante fosse indicativo di intervenute movimentazioni bilaterali, come del resto pacifico in causa. Pertanto la C.T.R. aveva deciso in violazione dell’art. 115 cit. senza considerare la non contestazione di questo dato e la sua decisività e comunque senza in alcun modo motivare sul punto.
3. I due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono inammissibili.
Preliminarmente, va dichiarata l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, proposta dalla contribuente, per inesistenza della notifica per essere la stessa avvenuta tramite posta elettronica certificata al procuratore domiciliatario della controricorrente per il giudizio di secondo grado, non avente la qualifica di avvocato, benché tale facoltà sia riservata all’Avvocatura generale solo per le notifiche di cui siano destinatari altri avvocati, ex art. 4, comma 1, e 5, legge 21 gennaio 1994, n. 53, dovendo al riguardo trovare applicazione il principio secondo cui l’attività di notificazione svolta dagli avvocati, ai sensi della legge n. 53 del 1994, in mancanza dei requisiti prescritti dalla legge stessa, va considerata nulla e non inesistente, con la conseguenza che tale nullità, quand’anche riscontrata, è sanata dalla rituale e tempestiva costituzione dell’intimato e, quindi, dall’accertato raggiungimento dello scopo della notificazione stessa (Cass., Sez. 5, 5/8/2004, n. 15081; Cass., Sez. 2 – , 15/06/2020, n. 11466).
Nel merito, va evidenziato come la soluzione della questione passi necessariamente attraverso la qualificazione del contratto stipulato tra la contribuente e la S., derivando da tale operazione ermeneutica il regime impositivo cui esso è sottoposto e dunque la valutazione della correttezza o meno dell’operato dell’Ufficio, oltreché la rilevanza delle questioni evidenziate con la seconda censura.
La “thin capitalization” o capitalizzazione sottile consiste, infatti, nella sottocapitalizzazione di una società rispetto all’attività d’impresa esercitata e nel contestuale finanziamento della stessa con apporto di capitale di credito da parte dei soci qualificati, operazione nella quale, attraverso la trasformazione di flussi reddituali, si produce un duplice ordine di vantaggi fiscali, tanto per la partecipata, che ottiene il risparmio di imposta derivante dalla deducibilità degli interessi passivi corrisposti ai soci, rispetto alla diretta corresponsione di dividendi fiscalmente indeducibili, quanto per i soci qualificati, che ottengono un minore o nullo ammontare dell’imposta da essi assolta sugli interessi attivi percepiti rispetto all’ammontare di quell’altra che avrebbero scontato sui dividendi. Tale operazione, perciò, prestandosi a trasformare dividendi in interessi passivi per la società partecipata e attivi per i soci qualificati, è stata regolamentata dall’art. 98 d.P.R. n. 917 del 1986, il quale, introdotto a partire dal primo gennaio 2004 e applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, ancorché abrogato dall’art. 1, comma 33, lett. I), legge 24 dicembre 2007, n. 244, con la riscrittura completa del medesimo d.P.R., consentiva la deducibilità degli interessi passivi alla sola condizione che non venisse superato un determinato rapporto tra patrimonio netto ed entità del debito verso la controllante. Tale disposizione, infatti, rispondeva all’esigenza non di concentrare i debiti nel patrimonio delle società produttive di ricavi, ma, al contrario, di evitare che, gravando di debiti le società controllate, gli utili da queste prodotti fossero travestiti da interessi attivi e trasferiti in capo alla controllante, così svuotando il patrimonio netto della controllata mediante l’artificiosa sostituzione dei relativi utili in perdite generate dall’onere degli interessi passivi (Cass., Sez. 5, 22/7/2020, n. 15582, Rv. 658403-02), con la finalità di scongiurare condotte antielusive derivanti dalla sottocapitalizzazione di una società rispetto alla attività di impresa esercitata e il contestuale suo finanziamento mediante apporto di capitale di credito da parte dei soci qualificati e consistenti – per la società partecipata – nel vantaggio fiscale ottenibile nell’imposta risparmiata grazie alla deducibilità dal suo reddito d’impresa degli interessi passivi corrisposti ai soci rispetto alla diretta corresponsione di dividendi fiscalmente indeducibili, e – per i soci qualificati – nel minore o nullo ammontare dell’imposta che gli stessi assolvono sugli interessi attivi percepiti rispetto all’ammontare di quell’altra che avrebbero scontato sui dividendi. (Cass, Sez. 6 – 5, 26/11/2013, n. 26489, Rv. 628971-01).
Considerato dunque il suddetto regime, l’inclusione o meno dell’istituto del «cash pooling zero balance system» nell’alveo dei rapporti di natura finanziaria citati dal comma 4 del ridetto art. 98, su cui è stata incentrata la doglianza dell’Ufficio sul presupposto che esso costituisca invece un contratto di conto corrente non bancario, disciplinato dall’art. 1823 cod. civ., privo della funzione di finanziamento, a maggior ragione allorché, come nella specie, siano evidenziati anche elementi astratti indicativi di una diversa qualificazione, avrebbe imposto alla ricorrente, in ragione del principio di specificità, di precisare nell’atto introduttivo quali fossero le clausole concretamente contenute nel contratto che avrebbero inciso sulla diversa sussunzione del negozio in una fattispecie diversa da quella individuata da giudici di merito.
A questo riguardo va infatti osservato come, la contestazione sulla qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, essendo ad essa preliminare la ricerca della comune volontà delle parti, costituente accertamento di fatto riservato al giudice di merito, imponga che le relative censure, per essere esaminabili, non possano risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma debbano essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., e, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, debbano essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire in sede di legittimità la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass., Sez. 5, 25/10/2006, n. 22889; Cass., Sez. 5, 04/06/2010, n. 13587).
E poiché la ricorrente ha del tutto disatteso tale principio in sede di articolazione del motivo, avendo omesso di trascrivere le clausole del contratto intercorso tra le parti, deve affermarsi l’inammissibilità della censura.
Da ciò consegue l’inammissibilità anche del secondo motivo, in quanto incentrato sulla dimostrazione in fatto della reciprocità delle rimesse, la quale perde di significato in assenza della previa analisi della qualificazione del contratto e della sua conseguente incidenza sul regime impositivo applicabile.
4. In conclusione, deve dichiararsi l’inammissibilità di entrambi i motivi. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
L’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. del 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge del 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass., sez. 6-L, 29/1/2016, n. 1778; Cass., sez. 5, 14/5/2020, n. 8914).
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità del ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
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