CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 ottobre 2020, n. 23274
Tributi – Accertamento analitico-induttivo – Presupposti – Lavori eseguiti in appalto per enti pubblici e imprese di grandi dimensioni – Contratti di appalto non documentati per iscritto – Applicazione metodo induttivo – Legittimità
Fatti di causa
La C.T.P. di Alessandria, con sentenza n. 85/5/2012, previa loro riunione, respinse i ricorsi proposti da S. Impianti s.n.c. e dai soci C. e G. S. avverso tre avvisi di accertamento emessi per l’anno 2006, con cui venivano ripresi a tassazione maggiori redditi da attribuire ai soci, nonché maggiore IRAP e IVA; ciò a seguito della notificazione di un questionario, in data 28.3.2009, riscontrato dalla società, risultata congrua e coerente con gli studi di settore, ma la cui documentazione contabile venne tuttavia ritenuta inattendibile dall’Ufficio a causa della genericità della descrizione delle prestazioni in alcune fatture, e della mancanza di evidenze scritte in relazione ad alcuni contratti d’appalto per lavori di importo rilevante. Proposti separati appelli dai soci e dalla società (frattanto trasformatasi in s.r.l.), la C.T.R. del Piemonte, previa loro riunione, li respinse con sentenza del 25.2.2015. Osservò in particolare il giudice d’appello che correttamente l’Ufficio aveva fatto ricorso all’accertamento induttivo ex art. 39 d.P.R. n. 600/1973, stante l’irregolarità di alcune fatture (mancanti della separata indicazione della manodopera) e la mancanza di contratti di appalto – benché per essi non fosse di regola necessaria la stipulazione per iscritto – per lavori eseguiti per enti pubblici (che invece necessitano di tale forma) e per imprese edili di grandi dimensioni.
S. Impianti s.r.l., nonché C. e L. S., ricorrono ora per cassazione, sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo, si deduce violazione degli artt. 42 e 39 del d.P.R. n. 600/1973, nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000, dell’art. 35, comma 29, del d.l. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, e dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.. I ricorrenti lamentano anzitutto la assoluta mancanza, nella motivazione della sentenza d’appello, di qualsiasi statuizione circa la denunciata violazione dell’art. 42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione alla carenza di argomentazione, negli avvisi impugnati, circa i presupposti fattuali e giuridici che potessero giustificare il ricorso alla metodologia induttiva. Sotto altro profilo, i ricorrenti si dolgono dell’erroneo utilizzo dell’art. 35, comma 29, cit., che introdusse per il committente di opere edilizie la possibilità di ottenere una agevolazione fiscale, a condizione che nelle fatture fosse specificamente diversificato ed evidenziato il valore della manodopera, sicché una fattura che tale specificazione non riporti non può per ciò solo ritenersi irregolare, come invece opinato dalla C.T.R. Infine, quanto alla questione dei contratti di appalto, ribadita la non necessarietà della forma scritta, i ricorrenti evidenziano che proprio per tale ragione la mancanza di detta forma non può giustificare il ricorso a presunzioni semplici, né tanto meno gravi, precise e concordanti, con conseguente violazione dell’art. 2729.
1.2 – Con il secondo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della legge n. 146/1998, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
I ricorrenti si dolgono della decisione impugnata, laddove ha ritenuto legittimo l’operato dell’Ufficio, nella parte in cui non ha tenuto conto della congruità della società con gli studi di settore, onde escludere il ricorso a presunzioni semplici per la ricostruzione del reddito, avendo invece ritenuto preclusivo il fatto che l’accertamento riguardasse il 2006, epoca in cui detta norma non poteva operare. Secondo i ricorrenti, la censurata decisione non prende in considerazione la palese omissione di motivazione integrata negli atti impugnati e la manifesta insussistenza dei presupposti per ricorrere al metodo induttivo.
2.1 – Il primo motivo, in tutte le sue articolazioni, è in parte inammissibile ed in parte infondato, benché la motivazione della C.T.R. necessiti di essere corretta, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c.
Premesso anzitutto che le eccezioni sollevate dall’Agenzia nel primo paragrafo del controricorso sono chiaramente un fuor d’opera, in quanto frutto di un grossolano “copia-incolla”, incorre nella inammissibilità la prima censura del primo mezzo, concernente la pretesa pretermissione del motivo d’appello concernente i denunciati vizi motivazionali degli avvisi impugnati.
Si tratta, infatti, di censura propriamente inquadrabile nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c., da denunciarsi ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., e non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norma di diritto. D’altra parte, la mancanza di qualsiasi riferimento alla nullità della sentenza non consente di operare la “conversione” del motivo in discorso, secondo l’insegnamento di Cass., Sez. Un., n. 17931/2013.
2.2 – Venendo ora alla questione delle irregolarità delle fatture, colgono nel segno i ricorrenti allorquando censurano l’affermazione della C.T.R., evidentemente erronea, secondo cui le fatture stesse sarebbero irregolari perché prive della separata indicazione della manodopera. In realtà, il disposto dell’art. 35, comma 19, del d.l. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, introduce un beneficio fiscale per il committente di opere edilizie, a condizione che nelle relative fatture sia riportato separatamente il valore della manodopera; il che significa che, se tale valore non viene indicato con le suddette modalità, l’agevolazione non sarà fruibile, non certo che le fatture siano irregolari, come ritenuto dal giudice d’appello.
Tuttavia, quanto precede non può condurre alla cassazione della sentenza impugnata, che sul punto può essere dunque meramente corretta, perché occorre evidenziare che, nella specie, si discute di accertamento analitico- induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973.
Pertanto, al di là dell’affermazione erronea di cui s’è detto, permane nella sostanza intatta la concatenazione tra le fatture stesse e i lavori cui si riferiscono, che da quanto è dato evincersi sono proprio quelli di cui ai contratti di appalto non documentati per iscritto (ossia, con il Comune di Valenza e con la Regione Valle d’Aosta, nonché con due imprese edili di grandi dimensioni). Ne deriva che, già sul piano astratto, l‘anomalia della mancanza di evidenza scritta dei vincoli negoziali (tale non può non essere valutata l’assenza di contratto redatto per iscritto nei rapporti con enti pubblici – per i quali addirittura si profila la radicale nullità – o con imprese di grandi dimensioni, per i subappalti) concernenti proprio tali fatture giustifica ampiamente il ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, come prescritto dalla suddetta norma.
3.1 – Il secondo motivo è inammissibile, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.
I ricorrenti, infatti, affermano che il ricorso al metodo induttivo, nella specie, non fosse percorribile, giacché essa risultava congrua e coerente con gli studi di settore, lamentando quindi la violazione dell’art. 10 della legge n. 146/1998. Tuttavia, gli stessi ricorrenti, preso atto della decisione della C.T.R. sul punto – che ha negato l’applicabilità dell’art. 10, comma 4-bis, I. cit. alla fattispecie, un tale divieto essendo previsto solo a partire dall’anno d’imposta 2007 – lamentano una mancata applicazione dell’art. 10 nel suo complesso, per non risultarne rispettato il corrispondente obbligo motivazionale negli stessi atti impositivi per cui è processo e, di riflesso, nella decisione qui impugnata. Essi, però, non hanno riportato né direttamente, né per riassunto, l’esatto contenuto della motivazione degli atti impositivi, così non consentendo alla Corte di apprezzare la decisività della censura.
Non senza dire che sia dagli atti regolamentari, sia dalla sentenza impugnata, risulta che le doglianze originariamente mosse e poi coltivate dagli odierni ricorrenti in relazione alla congruità e coerenza con gli studi di settore, in seno al presente giudizio, riguardano il solo comma 4-bis cit., non anche l’art. 10 cit. nel suo complesso, sicchè il mezzo in esame si palesa inammissibile anche per la novità della censura.
4.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 2.300,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Sussistono presupposti per pagamento doppio contributo come per legge, se dovuto.
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