CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 settembre 2019, n. 24030
Tributi – Accertamento induttivo – Elementi indicativi di capacità contributiva – Conferimento per aumento di capitale sociale – notifiche
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva quattro avvisi di accertamento nei confronti di A.C., ai sensi dell’art. 38 comma 5 D.P.R. 600/1973, per gli anni 2000, 2001, 2002 e 2003, in quanto il 14-5-2003 aveva versato la sua quota di € 455.441,00, pari al 50% delle quote societaria, per il conferimento dell’aumento di capitale della A. P. T. S.r.l..
2. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale, che aveva accolto il ricorso proposto dal contribuente, rilevando che effettivamente vi era stata una vendita di titoli per € 2.003.756,00 (€ 1.621.592,68 nel 2000 ed € 382.163,98 nel 2001), che, però, solo una parte di tale somma, pari ad € 778.718,00, poteva essere valutata ai fini dell’aumento del capitale sociale, che l’aumento di capitale sociale era stato di € 1.689.000,00, che la somma residua di € 910.882,00 (€ 1.689.000 – 778.718,00) era stata versata dai due soci il 14-5-2003 per l’aumento del capitale sociale (quindi € 455.441,00 per ciascuno), era priva di giustificazione non proveniente dallo smobilizzo dei titoli, che tale somma era stata ripartita negli anni 2000-2003. Il contribuente non aveva dato, però, la prova della durata del possesso dei proventi dagli smobilizzi fino alla data del versamento dell’aumento di capitale in favore della società. Non era stata fornita la prova che le somme derivanti dagli smobilizzi erano state poi effettivamente utilizzate per l’aumento di capitale.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, che deposita memoria scritta ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.
4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 22, comma 1, 2 e 3, del d.lgs. 546/1992, 53, comma 2, del d.lgs. 546/1992 e dell’art. 17 d.lgs. 546/1992, articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in relazione al disposto di cui all’art. 330 c.p.c.. Violazione del diritto di difesa del ricorrente, di cui all’art. 24 della Costituzione. Mancata valutazione da parte del secondo Giudicante che la notifica del ricorso introduttivo dell’appello è stata fatta in luogo diverso da quello del domicilio elettivo nel primo grado di giudizio”. In particolare, il ricorrente rileva che nel corso del giudizio di primo grado vi era stata la sostituzione del precedente difensore (e revoca del mandato), dott. D. A., presso cui il contribuente aveva eletto domicilio, con gli Avvocati L. P. C. e A. B. e nuova elezione di domicilio pressi questi ultimi. L’appello della Agenzia delle entrate era stato però notificato al precedente difensore, sicché la notifica era inesistente, non potendo essere sanata neppure dalla tempestiva costituzione in giudizio dell’appellato. Inoltre, non vi è in atti l’attestazione di conformità tra la copia dell’appello spedita al contribuente e quella depositata presso la segreteria della commissione tributaria regionale, né è in atti la copia dell’atto di appello notificata al precedente difensore.
Il ricorrente, poi, evidenzia che l’appellante si è costituita in giudizio tardivamente, essendo stata depositata in atti solo la copia dell’avviso di ricevimento dell’appello, da cui non risulta la data di spedizione dello stesso, con conseguente inammissibilità dell’appello in violazione dell’art. 22 comma 1 d.lgs. 546/1992.
1.1. Tale motivo è infondato.
Quanto alla prima questione sollevata, relativa alla dedotta inesistenza della notificazione dell’appello effettuata al precedente difensore domiciliatario, dopo la nomina di due nuovi difensori, con indicazione di nuovo domicilio e revoca del primo difensore, si evidenzia che la Commissione regionale ha rigettato l’eccezione sollevata dal contribuente, in quanto la notifica dell’appello era stata effettuata alla parte personalmente , e non al suo procuratore nel domicilio dichiarato o eletto, sicché la censura non ha attinto la ratio decidendi della motivazione del giudice di appello.
Peraltro, si rileva che per questa Corte, in materia tributaria, la notifica dell’atto di appello effettuata nei confronti dell’originario difensore revocato, anziché in favore di quello nominato in sua sostituzione, non è inesistente, ma nulla, anche ove la controparte abbia avuto conoscenza legale di detta sostituzione, sicché la stessa è rinnovabile ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Cass., sez. 6-5, 24 gennaio 2018, n. 1798, con sostituzione del difensore avvenuta in udienza e quindi nota alla controparte; Cass. sez.un., 14916/2016), con possibile sanatoria ex tunc per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata, anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità.
Quanto alla mancata attestazione di conformità dell’atto di appello all’originale, l’eccezione è inammissibile perché non si confronta con la decisione del giudice di appello, che l’ha ritenuta eccezione nuova, non ammessa nel giudizio di gravame.
Quanto alla non tempestiva costituzione dell’appellante si rileva che la Commissione regionale ha espressamente affermato che l’Agenzia ha effettuato la notifica dell’appello in data 7-3-2016, sicché la stessa aveva il termine di trenta giorni per costituirsi in giudizio ai sensi dell’art. 22 comma 1 d.lgs. 546/1992. Dalla intestazione della sentenza del giudice di appello risulta che il gravame è stato depositato il 16-3-2016, quindi entro il termine di legge.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 57 del d.lgs. 546/1992, art. 24 Cost, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., sentenza pagina 5 di 5 (erroneamente indicata pagina 4 in sentenza) nella parte in cui ritiene di accogliere l’eccezione di mancanza di prova in merito alla disponibilità degli smobilizzi fino alla data di esecuzione dell’operazione”. In particolare, per il ricorrente l’Agenzia delle entrate ha, per la prima volta, dedotto in sede di appello che il contribuente non aveva fornito la prova di avere posseduto i redditi derivanti dal disinvestimento dei titoli, avvenuto negli anni 2000 e 2001, sino al 14-5-2003, data dell’aumento di capitale della società, e di avere utilizzato tale disponibilità per gli incrementi patrimoniali, incorrendo in una inammissibile mutatio libelli. Il ricorrente, quindi, proprio per la tardività di tale eccezione non ha potuto produrre la documentazione bancaria idonea a dare la dimostrazione dell’utilizzo di tali proventi, derivanti della smobilizzazione di titoli, per provvedere all’aumento di capitale. L’appello è stato notificato nel marzo 2016, sicché la banca non poteva avere più la disponibilità della documentazione relativa agli anni 2000 e 2001, come pure fino al 14-5-2003, data del versamento dell’aumento del capitale sociale.
2.1. Tale motivo è infondato.
2.2.Invero, l’art. 38 commi 4 e 5 del d.p.r. 600 del 1973, vigente all’epoca, disponeva che “L’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall’articolo 39, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato. A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, sono stabilite le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto, quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta. Qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti. Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.
2.3. L’oggetto della prova contraria a carico del contribuente riguarda, dunque, da un canto, la disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte) e, dall’altro, l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1510, Cass. 16 luglio 2015, n. 14885, Cass. 18 aprile 2014, n. 8995, Cass. 26 novembre 2014, n. 25104), pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). Lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali redditi e della “durata” del relativo possesso, va letto, quindi, nel senso che la norma intende opportunamente ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità dei redditi medesimi al fine di ricollegarvi la maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente, escludendo quindi che possano utilizzarsi per finalità non considerate in tema di accertamento sintetico, come per un ulteriore investimento finanziario. In tale ultima ipotesi, infatti, tali ulteriori redditi non sarebbero utili a giustificare le spese o il tenore di vita accertati, che dovrebbero ascriversi, quindi, a redditi non dichiarati.
2.4. Va chiarito, però, che la prova di cui è onerato il contribuente non è tipizzata, sicché può essere data con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento accertato dal fisco, e la durata del relativo possesso, tanto che neppure rileva l’eventuale nullità dell’atto dal punto di vista civilistico. Ed infatti, proprio in base a tale premessa, nella giurisprudenza di questa Corte è stata ritenuta prova idonea e sufficiente la documentazione bancaria rappresentativa della “sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni circolari utilizzati per l’acquisto” (Cass, 22 marzo 2017, n. 7258); o l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari intestati al contribuente in grado di dimostrare l’entità e la durata del possesso dei redditi, non il loro semplice “transito” nella di lui disponibilità del contribuente (Cass., 12214/2017; vedi anche Cass., 16 maggio 2018, n. 12026 e Cass., 23 marzo 2018, n. 7389).
2.4. Facendo corretta applicazione di tali principi di elaborazione giurisprudenziale di legittimità, la Commissione regionale, nella fattispecie in esame, ha adeguatamente valutato il materiale probatorio acquisito al processo, ritenendo che il contribuente non ha fornito la prova della “durata del possesso” dei proventi degli smobilizzi fino alla data del versamento degli aumenti di capitale in favore della società.
Non v’è stata alcuna mutatio libelli, quindi, da parte della Agenzia delle entrate, che si è limitata, nel gravame, ad argomentare la propria tesi a fondamento dell’impugnazione, ma senza in alcun modo modificare i fatti costitutivi posti alla base degli avvisi di accertamento, basati sulla circostanza che “i redditi dichiarati non giustificano in alcun modo l’ingente investimento effettuato” (cfr. pagina 3 del ricorso per cassazione ove è riportato il contenuto dei quattro avvisi di accertamento).
Il requisito della “durata” del possesso dei redditi utilizzati al fine di provvedere alle spese per incremento del patrimonio, fondamento della prova contraria a carico del contribuente, è fissato espressamente dalla legge, per cui l’Agenzia, con l’atto di appello, si è limitata a fornire argomentazioni in ordine alla insussistenza di tale requisito.
3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del principio di non contestazione delle produzioni documentali e delle argomentazioni sostenute dal contribuente (rilievo art. 62 del d.lgs. 546/1992 ed ex art. 360 n. 3 c.p.c.), violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’articolo 23, d.lgs. 546/1992, violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 115 c.p.c., violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 2697 c.c., pagina 5 di 5 della sentenza gravata (indicata erroneamente la n. 4 in sentenza), nella parte in cui ha discusso di produzioni documentali non contestate dalla parte resistente all’atto della costituzione in giudizio”, in quanto l’Agenzia delle entrate, nelle controdeduzioni del giudizio di primo grado, non ha preso posizione sulla documentazione prodotta dal contribuente per dimostrare la provenienza del reddito, già sottoposto a prelievo fiscale, poi utilizzato per l’aumento di capitale. Tali fatti, come indicati nei documenti, in quanto non specificamente contestati, sono pacifici ai sensi dell’art. 115 c.p.c., con il conseguente errore della Commissione regionale che non ha tenuto conto del carattere pacifico di tali circostanze. Il giudice di prime cure, infatti, aveva deciso la controversia a favore del contribuente proprio in applicazione del principio di non contestazione della documentazione prodotta dal contribuente.
3.1. Tale motivo è infondato.
Invero, i fatti oggetto della documentazione prodotta in primo grado dal contribuente, e quindi i disinvestimenti avvenuti nel 2000 e nel 2001 e l’aumento di capitale del 14-5-2003, effettivamente sono pacifici tra le parti.
Ciò che, invece, non è pacifico, ma oggetto di contestazione e punto essenziale della presente controversia, è la “durata” del reddito proveniente al contribuente dai suddetti disinvestimenti di titoli, ossia la continua disponibilità di tali somme, non dunque in mero “transito”, sui conti correnti del contribuente fino al versamento delle somme per l’aumento del capitale sociale.
Pertanto, su questi peculiari aspetti, dirimenti ai fini della decisione della controversia, v’è sempre stato contrasto tra le parti.
Del resto, la non contestazione si fonda sulla allegazione di fatti specifici da parte dell’attore o del convenuto, mentre, nel caso in esame, il contribuente non ha mai dedotto in modo specifico che il reddito proveniente dai suddetti disinvestimenti mobiliari sia rimasto in suo possesso nel tempo, sino ad essere infine utilizzato per provvedere al pagamento dell’aumento di capitale in favore della società.
Al contrario, l’oggetto della controversia origina proprio dalla contestazione della Agenzia delle entrate che ha dedotto, sin dagli avvisi di accertamento, che i redditi dichiarati dal contribuente non giustificano in alcun modo tale ingente investimento.
4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 38 comma 5 e 6 del d.p.r. 600/1973 (nel testo anteriore alle modifiche della legge n. 122/2010), nonché dell’art. 2697, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3, pagina 5 di 5, erroneamente indicata in sentenza in pagina 4, nella parte in cui ha ritenuto non sussistente la prova della permanenza dello smobilizzo alla data dell’effettuazione dell’operazione”, in quanto la Commissione regionale è incorsa in “un evidente travisamento dei fatti ed erronea valutazione delle prove acquisite agli atti processuali”. Inoltre, l’Agenzia delle entrate, né nella fase precontenziosa, né nel giudizio di primo grado, ha mai contestato la “durata” del possesso dei redditi da parte del contribuente. Questi ha fornito la prova della provenienza delle somme da redditi già sottoposti a tassazione. Peraltro, almeno per gli anni 2000 e 2001, cui si riferiscono i disinvestimenti mobiliari, il ricorrente ha fornito la prova della provenienza delle somme utilizzate poi nel 2003 per il pagamento dell’aumento di capitale societario.
4.1. Tale motivo è inammissibile.
Invero, trattandosi di sentenza di appello depositata nel 2017, trova applicazione l’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., come modificato dal d.l. 83/2012, per cui con il vizio di motivazione si può far valere solo l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso e non una nuova e diversa valutazione del materiale istruttorio in atti.
Nonostante nella rubrica si invochi la violazione di legge ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., il ricorrente formula doglianze in merito alla motivazione della sentenza in termini non più consentiti, appunto, dall’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., vigente, ovvero censure di merito in ordine alle valutazioni effettuate dal giudice di appello (che ha ritenuto insussistente la prova della permanenza del possesso del capitale smobilizzato), censure non ammesse in questa sede.
5. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi € 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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