CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 settembre 2019, n. 24153

Socia accomandataria – Obbligo di iscrizione nella gestione commercianti dell’INPS – Effettivo svolgimento di un’attività commerciale

Fatto

Rilevato che

con sentenza nr. 1034 del 2013, la Corte d’Appello di Firenze accoglieva il gravame proposto da S.S. avverso la sentenza del Tribunale di Firenze (nr. 1336 del 2012) e dichiarava non sussistente l’obbligo di iscrizione della stessa nella gestione commercianti dell’INPS, in relazione alla qualità di socia accomandataria della S.I. sas di S.S. & C. (di seguito, per brevità, STAC);

per quanto qui rileva, la Corte territoriale, richiamato il precedente di questa Corte nr. 3145 del 2013, ha osservato come non sussistesse l’obbligo di iscrizione della S. alla gestione commercianti per esercitare la stessa mera attività di gestione della redditività di immobili; al riguardo, la Corte di merito ha ritenuto che l’INPS non avesse dimostrato lo svolgimento di attività imprenditoriali ulteriori rispetto a quella dichiarata (id est: di riscossione dei canoni di locazione di un fondo di proprietà), non essendo sufficiente il richiamo all’oggetto sociale, se non accompagnato dall’effettivo svolgimento di «un’attività commerciale»;

avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso in cassazione l’INPS, affidandolo ad un unico ed articolato motivo, cui ha opposto difese, con controricorso, S.S. che ha, altresì, depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod.proc.civ.;

Diritto

Considerato che:

con un unico motivo, l’INPS denuncia – ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge 22 luglio 1966 nr. 613; dell’art. 1 della legge 27 novembre 1960 nr. 1397, così come modificato dall’art. 1, comma 203 e ss., della legge nr. 662 del 1996, dell’art. 2 della legge nr. 1397 del 1960 e degli artt. 2313, 2318 e 2697 cod. civ., per aver la Corte territoriale ritenuto che la S., unica socia accomandataria della STAC, non dovesse essere iscritta alla Gestione Commercianti INPS, in difetto della prova di svolgimento di attività commerciale, e ritenuto che la società fosse stata costituita al solo fine di godimento di beni immobili, senza esercitare attività ulteriori rispetto alla riscossione di canoni relativi ad un terreno; secondo l’INPS, la Corte di merito non avrebbe valutato che la S. era l’unica socia accomandataria della STAC, che non svolgeva (la S., appunto,) altra attività lavorativa, che l’oggetto sociale era relativo « all’acquisto e vendita di terreni, di impianti nonché di immobili in genere [..]», che tutta l’attività della gestione della società non era delegata agli altri soci accomandanti, difettando la prova di procure speciali e/o atti di gestione; per l’INPS, inoltre, la Corte di appello avrebbe errato nell’applicazione della regola di giudizio ex art. 2697 cod.civ., sussistendo una presunzione normativa circa lo svolgimento di un’attività imprenditoriale da parte delle società non costituite nella forma di quella semplice;

il motivo è, nel suo complesso, infondato;

i giudici di merito hanno escluso lo svolgimento di un’attività commerciale e dunque il presupposto per l’iscrizione nella gestione commerciante, per svolgere la S. solo attività di gestione della redditività degli immobili;

al riguardo, questa Corte, con orientamento costante (Cass., sez. 6, nr. 3145 del 2013; Cass. nr. 17643 del 2016; Cass, sez. 6, nr. 27376 del 2016; Cass., sez. 6, nr. 3883 del 2018; Cass., sez. 6, nr. 20236 del 2017; Cass., sez. 6, nr. 12981 del 2018) ritiene che l’attività di riscossione di canoni di locazione, non finalizzata alla prestazione di servizi in favore di terzi né ad atti di compravendita o di costruzione, non esorbita dalla semplice gestione degli immobili concessi in locazione e, pertanto, non configura esercizio di attività commerciale ai fini dell’iscrizione nella gestione commercianti.

Presupposto imprescindibile per l’iscrizione alla gestione commercianti è, infatti, in conformità a quanto previsto dalla legge 23 dicembre 1996, nr. 662, art. 1, comma 203 (che ha sostituito la legge 3 giugno 1975, nr. 160, art. 29, comma 1) lo svolgimento in concreto di un’attività commerciale, non rilevando, di per sé, il contenuto dell’oggetto sociale (Cass. ord. nr. 25017 del 2016);

il giudizio reso, nella fattispecie di causa, in ordine allo svolgimento di mera attività di gestione della «redditività» di immobili, è un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, che la Corte di appello ha condotto in corretta applicazione delle regole processuali di distribuzione del carico allegatorio e probatorio, non avendo fondamento legale la presunzione legale dedotta dall’INPS;

la contestazione dello stesso (id est: del giudizio di svolgimento di mera attività di gestione della redditività di immobili), articolata in termini di violazione di legge, non coglie nel segno; nella sostanza, le censure schermano deduzione di vizi della motivazione, attenendo alla esatta ricostruzione della vicenda di causa; tuttavia – seppure riqualificate ai sensi dell’art. 360 nr.5 cod.proc.civ. – le censure non superano il rilievo di inammissibilità giacché non indicano, nel modo rigoroso richiesto dal vigente testo del predetto articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ. (applicabile ratione temporis), il fatto «storico» decisivo ed oggetto di discussione tra le parti non esaminato nella sentenza impugnata (Cass., sez.un., nr. 8053 del 2014); la pluralità di fatti che l’INPS assume non validamente apprezzati dalla Corte territoriale esula, all’evidenza, dal modello legale dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. (ex multis, in motivaz., Cass. nr. 13384 del 2017, § 8.1., sulla base di Cass. nr. 21439 del 2015): nessuno di essi, infatti, è ex se risolutivo, nel senso dell’idoneità a determinare il segno della decisione;

il ricorso va dunque rigettato, restando assorbite le ulteriori questioni sollevate dalla parte controricorrente nella memoria difensiva, con le spese liquidate in dispositivo secondo soccombenza;

occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, D.P.R. nr. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00, per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.