CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2022, n. 2868
Rapporto di lavoro subordinato – Inquadramento – Differenze retributive per lavoro straordinario – Regolarizzazione della posizione contributiva ed assicurativa
Rilevato che
1. I.I.C. convenne in giudizio la M. 2 s.n.c. di C.A. e P.M. per sentir accertare e dichiarare che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1.7.2004 al 31.12.2009 con inquadramento nel V livello del contratto di categoria ed ottenere la condanna al pagamento della somma di € 15.890,07 a titolo di differenze retributive anche per lavoro straordinario ed a regolarizzare la posizione contributiva ed assicurativa. Chiese altresì l’accertamento della nullità del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo e, conseguentemente, di essere reintegrato nel posto di lavoro con condanna della convenuta società al risarcimento del danno da quantificarsi nelle retribuzioni non erogate dal licenziamento alla effettiva reintegrazione con gli accessori dovuti per legge. In tale contesto dedusse che la convenuta aveva affittato l’azienda alla L. s.n.c. a decorrere dal 1.1.2010 e perciò convenne in giudizio anche tale ultima società ed il socio S.S.
2. Il Tribunale di Bologna, esclusa la prova dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato per il periodo antecedente la sua regolarizzazione, rigettò le domande di differenze retributive. Ritenne invece insussistente il giustificato motivo oggettivo di licenziamento ed applicabile alla fattispecie la tutela obbligatoria. Condannò quindi A.C., in proprio e quale legale rappresentante della M. 2 s.n.c., e la L. s.n.c. a versare al ricorrente l’indennità risarcitoria ex art. 8 della legge n. 604 del 1966 nella misura di 4,5 mensilità oltre accessori dovuti per legge.
3. La Corte di appello di Bologna, investita del ricorso principale delle due società e dei suoi soci C. e S. in proprio e del ricorso incidentale del lavoratore, li rigettò compensando tra le parti le spese del grado.
3.1. Il giudice di secondo grado, per quanto ancora interessa, evidenziò che le società ricorrenti ed i loro soci – rispettivamente cedente e cessionaria dell’azienda per la quale aveva lavorato l’Ignat – mostravano di confondere il trasferimento di azienda con il giustificato motivo oggettivo il quale solo legittima la risoluzione del rapporto e deve essere dimostrato in giudizio da chi lo allega con specifico riferimento alle ragioni economiche della riduzione del personale a prescindere dal trasferimento di azienda. Confermò poi la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto insufficiente la prova dell’esistenza del rapporto di lavoro tra le parti anche per il periodo dal 1.7.2004 al 16.9.2007 evidenziando che le dichiarazioni dei testi erano generiche e non consentivano di ritenere provata la subordinazione rivendicata.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso S.S., sia in proprio che quale legale rappresentante della L. s.n.c. di S. Sante & C., articolando quattro motivi. I.I.C. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc.civ..
Considerato che
5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1655 cod.civ. e conseguentemente dell’art. 2112 cod.civ. in relazione all’art.360 n. 3 cod. proc.civ.. Ad avviso dei ricorrenti erroneamente la Corte territoriale avrebbe ravvisato nel contratto intercorso con la società M. una cessione di ramo di azienda. Sostengono che invece la L. s.n.c. aveva convenuto di appaltare l’esecuzione di lavorazioni e la prestazione di servizi alla M. con l’impegno ad assumere un solo lavoratore (era stato effettivamente poi assunto il più anziano) e con comodato e locazione da parte della società dei beni aziendali necessari alla realizzazione dell’appalto. Precisano che era stata prevista una durata di sei anni del contratto e la sua risoluzione anticipata in caso di recesso o inadempimento. Dopo aver così, rettamente, ricostruito la fattispecie concreta deducono che erroneamente la corte di appello aveva applicato nel caso in esame l’art. 2112 cod. civ. e ritenuto responsabile solidalmente la L. per il pagamento dell’indennità ex art. 8 della legge n. 604 del 1966.
6. Il motivo è inammissibile.
6.1. Per quanto risulta dalla lettura della sentenza e degli atti di parte solo con il ricorso in cassazione risulta allegato, per la prima volta, che il contratto intercorso tra le parti era un appalto di servizi e non una cessione di ramo di azienda ( così è stata qualificata sia in primo che in secondo grado). La censura per tale aspetto è generica perché pur riportando stralci dell’accordo del 27.10.2009 che risulta allegato alla memoria di primo grado doc.2) tuttavia da un canto non allega e dimostra che tale questione era stata posta sin dalle prime difese ( si tratta di ricostruzione giuridica che tuttavia presuppone anche specifici accertamenti di fatto) e poi riproposta in appello a fronte di una interpretazione quale cessione di ramo già del primo giudice. Orbene “la verifica dei presupposti fattuali che consentano l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c. implica una valutazione di merito che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 20422 del 2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del 2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238 del 2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora, Cass. n. 2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020). L’accertamento in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in astratto dal comma 5 dell’art. 2112 c.c., implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e, poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità. In particolare, non può negarsi che la valutazione, nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestio facti che opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112 c.c. Come già ritenuto da questa Corte “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata; v. pure Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).”
Peraltro, pur denunciandone la violazione, non si chiarisce in cosa si sarebbe sostanziata la violazione dei canoni di interpretazione denunciati nella rubrica del motivo.
La ricostruzione dei giudici di merito in tal senso si pone come una delle possibili soluzioni che in mancanza della specifica violazione di canoni di interpretazione, solo genericamente richiamati, non risulta essere stata specificatamente censurata.
7. Il secondo motivo di ricorso – con il quale viene denunciata l’inesistenza della motivazione, in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ., con riguardo alla decisiva circostanza della avvenuta cessione del ramo di azienda e si deduce che la sentenza della Corte di appello avrebbe sostanzialmente aderito alla ricostruzione del giudice di primo grado senza tener conto delle censure con le quali era stato dedotto che il contratto aveva ad oggetto l’affidamento della materiale esecuzione dell’attività produttiva – è anch’esso inammissibile per la decisiva ragione che non riporta il contenuto della sentenza di primo grado che a suo dire avrebbe inadeguatamente motivato sulla cessione di ramo e non consente quindi alla Corte di apprezzare compiutamente, sin dalla lettura degli atti, i tratti della denunciata violazione.
8. Con il terzo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e la conseguente errata applicazione dell’art. 2112 cod.civ.. Sostengono i ricorrenti che era stato trascurato il fatto che il rapporto tra lo I. e la M. era cessato il 31.12.2009, ancor prima che l’accordo commerciale con la L. divenisse efficace, il 1.1.2010. Deducono che tale circostanza era stata allegata anche davanti al giudice di appello che l’aveva del tutto trascurata. Sostengono che alla fattispecie troverebbe applicazione solo la tutela obbligatoria e che, esclusa la responsabilità solidale tra cedente e cessionaria, tutt’al più la L. s.n.c. ed il signor S. avrebbero potuto rispondere del debito della M. ai sensi dell’art. 2650 cc sempre che lo stesso fosse stato iscritto nei libri contabili e precisano che nessuna domanda era stata avanzata in tali termini nei loro confronti.
9. Anche questa censura è inammissibile poiché non chiarisce se ed in che termini la questione che ne è l’oggetto era stata posta davanti al giudice di primo grado né se quel giudice l’aveva esaminata e respinta né come era stata riproposta davanti alla Corte di appello che con la sua sentenza ha confermato che era stata data la prova del trasferimento di azienda ed ha ritenuto perciò irrilevante, con riguardo alla risoluzione del rapporto, l’inattività della cedente. Peraltro il giudice di secondo grado ha chiarito che per ritenersi provato un licenziamento legittimo era onere della società, rimasto inadempiuto, dimostrare l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo che avrebbe giustificato la risoluzione del rapporto ed escluso l’applicazione del 2112 cod. civ.. Escluso quindi che tale prova fosse stata offerta, il giudice del gravame ha conseguentemente confermato l’avvenuto trasferimento di azienda anche nei confronti dell’odierno controricorrente.
10. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale, in via subordinata, è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 cod. civ. e ss. e degli artt. 1615 cod.civ. e ss. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod.proc.civ. – è anch’esso inammissibile. Con la censura si deduce che il rapporto tra la M. e la L. debba essere comunque qualificato come affitto di azienda, ex 1615 cod.civ., e non già come cessione di ramo, essendo mancata nella specie la successione nei contratti e nei debiti aziendali ed essendo proseguita la gestione dei clienti da parte della M. che si era riservata di commissionare ad altre ditte prodotti e servizi. Tuttavia la parte ricorrente da un canto trascura di riprodurre nel ricorso il contenuto dell’accordo intercorso con l’altra società e, comunque, non tiene conto del fatto che la qualificazione del rapporto è valutazione demandata al giudice di merito, che può essere censurata per errori nell’interpretazione, e che, nel caso in esame, tali vizi nell’interpretazione risultano meramente affermati ma non si chiarisce affatto in cosa siano consistiti. Tali carenze si riverberano allora sull’ ammissibilità della censura.
11. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo in favore della parte costituita. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 3.000,00 per compensi professionali € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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