CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 10846 depositata il 24 aprile 2023

Tributi – Notificazione di cartella di pagamento –  Trasferimento immobiliare – Dissimulazione di un finanziamento – Violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 6 – Condotta antielusiva – Rigetto

Rilevato che

1. C. S.R.L. riceveva la notificazione di cartella di pagamento portante quanto iscritto a ruolo a titolo provvisorio in pendenza di ricorso in primo grado avverso avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate, per l’a.i. 2005, in relazione ad un trasferimento immobiliare nel quale era ravvisabile la dissimulazione di un finanziamento per euro 4.300.000, rideterminava i costi deducibili e recuperava a tassazione l’IVA illegittimamente detratta.

2. La contribuente impugnava la cartella.

2.1. La CTP di Roma, con sentenza n. 90/47/13 depositata il 13 marzo 2013, respingeva il ricorso.

3. Proponeva appello la contribuente.

3.1. La CTR, con la sentenza in epigrafe, respingeva il gravame, osservando quanto segue:

– con riferimento al primo motivo di gravame, volto ad eccepire la violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 6, avendo l’Ufficio iscritto a ruolo, a titolo provvisorio, la somma oggetto di accertamento prima dell’emissione della sentenza della CTP;

— “quello che in concreto l’Ufficio rileva è che, con una serie di atti pubblici tutti del 23/03/2005 – posti in essere tra società collegate – C. ha acquistato un fabbricato dalla società R.G. s.r.l. al valore di euro 15.000.000 più IVA e lo ha rivenduto alla società M.L. s.p.a. al prezzo di 24.500.000 più IVA. La C., lo stesso giorno, ha sottoscritto un preliminare di compravendita, dell’immobile precedentemente acquistato, con la società Iniziative Immobiliari, la quale si impegnava ad acquistare il bene anche tramite una società di ‘leasing’, garantendo un reddito locativo annuo lordo del 7,88%. In pari data la M.L. s.p.a. concedeva in locazione finanziaria il compendio immobiliare alla società Iniziative Immobiliari. Parte appellante sostiene che, alla luce della motivazione dell’Ufficio, siano state contestate alla contribuente condotte elusive /1..). Dalla situazione rappresentata dall’amministrazione finanziaria, è da escludere che si sia in presenza di abuso di diritto, il quale si configura nel caso di uso strumentale di norme tributarie per consentire un indebito risparmio d’imposta. Occorre diversamente valutare se i fatti contestati integrino una condotta antielusiva, come tale regolata dal citato  art. 37-bis /1… La condotta antielusiva mira, attraverso atti, fatti e negozi collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche o anche mediante abuso del diritto, ‘ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni d’imposte, rimborsi o risparmi altrimenti in debiti’ /1..). Venendo alla situazione in esame, l’amministrazione contesta alla contribuente di essersi costituita costi deducibili e un credito IVA non spettante attraverso la sovrafatturazione di un’operazione di vendita in ‘leasing’ di un immobile che, in un unico giorno, è stato oggetto di cessione tra più società del gruppo. L’ufficio ritiene che la circostanza emerga alla luce della vendita finale del bene ad un prezzo che appare sproporzionato rispetto al prezzo di mercato. Non pare che, nel caso di specie, la contribuente abbia, unitamente alle altre società coinvolte, aggirato alcun obbligo tributario /1..). Non siamo quindi in presenza di presunte attività elusive, ma semplicemente di ipotizzati comportamenti finalizzati ad aumentare il credito IVA ottenibile a rimborso attraverso una sovrafatturazione della cessione immobiliare”;

– con riferimento al secondo motivo di gravame, volto ad eccepire la violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 15 per avere l’amministrazione iscritto a ruolo, a titolo provvisorio, in pendenza di giudizio, un mezzo, anziché un terzo, dell’imposta accertata, come previsto dal d.l. n. 70 del 2011, art. 7 comma 2-quinquies, applicabile con riferimento, non alla data di formazione del ruolo, ma alla data di emissione della cartella di pagamento;

— “(…) il ruolo e stato reso esecutivo in data 27/06/2011 e cioè prima dell’entrata in vigore delle modifiche dal d.l. n. 70 del 2011, art. 15 introdotte. L’Ufficio aveva pertanto la possibilità, in forza di quanto previsto dall’art. 15 nella formulazione esistente, di iscrivere a ruolo, in via provvisoria, il 50% della maggiore imposta accertata. Non assume nessun rilievo il fatto che la cartella di pagamento, portante quanto legittimamente iscritto a ruolo dall’amministrazione, sia stata notificata in epoca successiva al 13/07/2011”;

– con riferimento al terzo motivo di gravame, volto ad eccepire la violazione del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 comma 3, con conseguente illegittimità della cartella nella parte in cui è richiesto il pagamento dei compensi di riscossione, stante l’inapplicabilità retroattiva del d.l. n. 262 del 2006, art. 2 comma 3, lett. a), (con cui è stata posta a carico del contribuente una quota dell’aggio anche in caso di versamento tempestivo di quanto richiesto con la cartella), in relazione a fatti costitutivi della pretesa tributaria risalenti a periodo antecedente all’entrata in vigore della novella;

— “nessun rilievo assume il momento in cui è potenzialmente insorto il credito erariale, né quello in cui è stato accertato dall’amministrazione finanziaria, e neppure il momento in cui risulta definitivamente affermata la sussistenza del credito dell’erario.

L’attività di riscossione inizia, per l’amministrazione, con l’iscrizione in un ruolo esecutivo delle somme dovute dal contribuente, e prosegue con l’incarico all’agente di provvedere all’esazione /1..). Il compenso del concessionario è determinato per legge tramite un aggio che il legislatore ha inteso attribuire all’ente deputato alla riscossione e che è dovuto nel momento in cui tale attività viene posta in essere. Non sussiste alcuna natura afflittiva, a pregiudizio del contribuente, nella determinazione del compenso dell’agente e nell’insorgenza di detto compenso già all’atto dell’emissione della cartella, in quanto la disposizione di legge tiene conto della situazione generale in cui l’attività viene espletata /1..). Quanto deciso /1..) implica che non possono essere ritenuti sussistenti i profili di anticostituzionalità dell’art. 17 cit., come prospettati dall’appellante”.

4. Propone ricorso per cassazione la contribuente con sei motivi (il motivo indicato con quinto a p. 19 è in realtà il sesto), cui resistono con altrettanti controricorsi l’Agenzia delle entrate ed E.S. S.p.A..

Considerato che

1. I primi tre motivi di ricorso, per comunanza di censure, possono essere enunciati, illustrati e trattati congiuntamente.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 6.

2.1. La CTR ha escluso la violazione di legge alla luce dell’erronea premessa secondo cui l’applicabilità del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 6, dipenderebbe dalla qualificabilità, o meno, come abusiva od elusiva, della condotta del contribuente e non già dal fatto in sé che tale natura sia contestata al medesimo. Nella specie, cioè, la CTR ha ritenuto inapplicabile la richiamata disposizione, non già prendendo in considerazione ed analizzando l’avviso di accertamento emesso nei confronti di C. s.r.l., dalla cui motivazione si evinceva agevolmente la riconducibilità delle contestazioni all’area dell’abuso del diritto o dell’elusione, ma operando un’ulteriore ed inconferente valutazione sotto il profilo della qualificabilità come abusiva od elusiva della condotta attribuita ad essa e alle altre società che avevano partecipato all’operazione immobiliare.

3. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. ed assenza di motivazione per insanabile contrasto logico delle affermazioni sulle quali essa si fonda e conseguente sua perplessità ed obiettiva incomprensibilità.

3.1. La sentenza impugnata è affetta da contrasto logico poiché essa, dapprima esclude che la condotta della ricorrente potesse integrare abuso del diritto; poi passa a valutare se la medesima possa alternativamente ricondursi al disposto del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis (laddove è noto che la non rinvenibilità di una condotta abusiva implica di per sé l’irrilevanza della clausola antielusiva espressa di cui all’art. 37-bis cit., poiché quest’ultima costituisce esplicitazione del più generale principio del divieto di abuso del diritto); infine, in contraddizione con quanto sopra, nel valutare la rilevanza della clausola antielusiva espressa, effettua un’individuazione dei caratteri della condotta in senso esattamente coincidente con quello dell’abuso del diritto.

Anche la conclusione cui la CTR perviene è contraddittoria, atteso che la rilevazione dell’insussistenza di un aggiramento di norme fiscali comporta, come unica alternativa, la configurabilità della violazione di tali norme: ciò nondimeno, la CTR ha espressamente escluso che la contribuente abbia “posto in essere un comportamento specificamente vietato”.

4. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 6, per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, ove interpretato come applicabile solo nel caso di contestazioni formulate in relazione a fattispecie di elusioni tipiche ai sensi del comma 3 del medesimo articolo.

4.1. Nella denegata ipotesi in cui dovesse ritenersi che il d.p.r. n. 600 del 1973, art. 37bis, comma 6, sia applicabile soltanto in presenza di una delle fattispecie tipiche di elusione elencate nel precedente comma 3, sarebbe rilevante e non manifestamente infondata la rubricata questione di legittimità costituzionale.

5. Il primo motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato.

5.1. Esso è inammissibile perché:

viola il principio di autosufficienza, a misura che non riproduce la motivazione dell’avviso di accertamento e del pvc cui il primo farebbe rinvio, essendo insufficienti, in particolare, i brevissimi stralci del primo (a fronte di stralci meno laconici, ma pur sempre insufficienti, del secondo) riprodotti alle pp. 7 ed 8 del ricorso, al fine, tra l’altro, di appurare se ed in quali contesti siano mai stati effettuati riferimenti espliciti, e, viepiù, impliciti, al dedotto carattere abusivo od elusivo dell’operazione immobiliare e di verificare come sia stato determinato il maggior imponibile recuperato a tassazione (se in funzione del disconoscimento di costi, come sostenuto nella sentenza impugnata, ovvero, in ipotesi, tuttavia non minimamente corroborata, del complessivo indebito vantaggio fiscale di cui la contribuente si sarebbe giovata, come tipicamente nelle contestazioni di condotte abusive od elusive);

– viola i canoni cui è astretto il giudizio di cassazione quale momento di mero controllo della legittimità degli atti impugnati, a misura che introduce una tipica questione di merito, qual è quella dell’interpretazione della contestazione alla stregua del tenore (peraltro in tal guisa solo genericamente accennato) dell’avviso;

– viola, anche a voler prescindere da quanto precede, il principio di precisione, a misura che non contrappone, alla confutazione, da parte della CTR, della tesi dell’esistenza, nella specie, di una condotta abusiva od elusiva, l’individuzione di puntuali e concreti elementi fattuali, pretermessi dalla CTR, da cui ricavare quell’aggiramento di disposizioni di legge, esse pure non indicate, in cui la fattispecie “lato sensu” dell’elusione consiste.

Esso è comunque manifestamente infondato perché l’avere l’avviso – come emerge dai passaggi frammentariamente riprodotti in ricorso – affermato che i contratti posti in essere dalla contribuente e dalle altre società del gruppo di appartenenza “celino una diversa fattispecie contrattuale, consistente, oltre che nella stipula di un contratto di ‘leasing’, anche nell’ulteriore erogazione di un finanziamento (derivante dalla sopravvalutazione dell’immobile)”, non implica affatto la contestazione di una fattispecie elusiva, non individuando né le condotte di aggiramento né i singoli soggetti cui le stesse sarebbero ascrivibili sotto il coordinamento di una regia unitaria né le norme formalmente osservate il cui fine sarebbe stato invece inosservato, ma, come correttamente ritenuto dalla CTR (titolare, a differenza di quanto sostenuto in ricorso, di un potere di interpretazione e valutazione dei fatti quale giudice del rapporto e non solo dell’atto), la pura e semplice contestazione di una frode pur complessa, avente natura evasiva.

6. Quanto precede rende ragione altresì della manifesta infondatezza del secondo motivo.

6.1. La motivazione della sentenza impugnata non è affetta da alcuna contraddizione, né nell’analisi del quadro normativo né nella conclusione di insussistenza in fatto di una fattispecie di abuso del diritto e di elusione.

La CTR, invero, richiama espressamente l’insegnamento di Sez. U, n. 30055 del 23/12/2008, Rv. 605850-01, secondo cui, “in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione“.

Per completezza deve rilevarsi che, prima dell’esplicitazione di una generale clausola antielusiva effettuata dal legislatore nella l. n. 212 del 2000, art. 10bis, introdotto dal d.lgs. n. 128 del 2015, in attuazione della legge di delegazione n. 23 del 2014, il suddetto insegnamento delle Sezioni unite si compenetrava, quanto ai tributi armonizzati e dunque all’IVA, che viene precipuamente in conto nel presente procedimento, con l’elaborazione antiabusiva promanante dalla giurisprudenza unionale, in senso alla quale (a termini delle fondamentali CGUE, 14 dicembre 2000, C-110/99, Emsland-Starke; ID 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax; ID 21 febbraio 2008, C-425/06, Part. Service) era andato emergendo e si sarebbe consolidato l’avviso per cui la sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relativi alle imposte sulla cifra di affari, osta al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte allorché le operazioni che fondano tale diritto integrano un comportamento abusivo, ai fini della configurabilità del quale le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale, costituente essenzialmente il loro scopo, la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni.

Conseguentemente, la censura secondo cui la CTR, esclusa la ricorrenza di un’ipotesi di abuso del diritto, illogicamente avrebbe altresì attinto la conclusione dell’esclusione di un’ipotesi di elusione non coglie nel segno. Invero, l’abuso del diritto e l’elusione denotano un sostrato concettuale comune, in effetti successivamente codificato dalla l. n. 212 del 2000, art. 10-bis, consistente, come affermato sia dalle Sezioni unite che dalla Corte di Giustizia, nel distorcimento, con l’obiettivo, pur non unico ma essenziale, di realizzare un vantaggio fiscale, di strumenti giuridici apprestati dall’ordinamento a comuni fini leciti.

Entro le direttrici di siffatto contesto ermeneutico, la CTR si è semplicemente peritata di chiarire che non ricorre né un’ipotesi di abuso del diritto, sotto il profilo di un impiego strumentale delle norme di diritto tributario, né un’ipotesi di elusione, sotto il profilo dello sviamento di un obbligo tributario: talché, in conclusione, non ricorre quell’ipotesi di distorcimento costituente la cifra dell’elaborazione giurisprudenziale interna e, quanto all’IVA, unionale.

Né – passando così alla seconda parte della censura – la conclusione cui la CTR perviene, dopo aver finanche citato alla lettera la motivazione dell’avviso, per l’effetto nient’affatto pretermesso, si espone a rilievi di contraddittorietà od illogicità, vie più gravi a tal punto da annullare il percorso esplicativo nell’apparenza e quindi nell’inesistenza.

La sentenza esibisce un’effettiva motivazione, sia dal punto di vista grafico che dal punto di vista concettuale, ponendo l’accento, coerentemente con le premesse giuridiche evocate, sull’effettiva consistenza dell’addebito rimproverato alla contribuente, consistente nell'”essersi costituita costi deducibili e un credito IVA non spettante attraverso” – sia consentita l’interpolazione – di una pura e semplice “sovrafatturazione di un’operazione di vendita in ‘leasing’ di un immobile”: ciò che trova conferma nel prezzo “sproporzionato rispetto al prezzo di mercato” della “vendita finale”. Pertanto, alla stregua di un non censurabile accertamento compiuto dalla CTR, rispetto al quale la contribuente neppure allega una diversa ipotesi ricostruttiva, a venire in linea di conto è unicamente, come anticipato, un meccanismo frodatorio inscrivibile in un quadro evasivo. Infatti, “il mancato versamento delle imposte in relazione ad un negozio qualificato in modo giuridicamente corretto dall’amministrazione finanziaria integra un’ipotesi di evasione fiscale e non già di elusione, che ricorre quando uno strumento negoziale è utilizzato allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale mediante un uso distorto della normativa fiscale, sicché non possono trovare applicazione le disposizioni di legge ed i principi elaborati dalla giurisprudenza, interna ed unionale, in tema di abuso del diritto” (Sez. 5, n. 27550 del 30/10/2018, Rv. 65106502).

7. Il rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso determina la stessa sorte quanto all’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata con il terzo motivo, non ricorrendo, nella specie, alcuna forma elusiva.

8. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del d.p.r. n. 602 del 1973, art. 15.

8.1. La CTR ha ritenuto inapplicabile la versione del d.p.r. n. 602 del 1973, art. 15 risultante dalle modifiche di cui al d.l. n. 70 del 2011, entrato in vigore il 13 luglio 2011, perché il ruolo è stato reso esecutivo il 27 giugno 2011. Invece la nuova disciplina deve trovare applicazione in ogni ipotesi in cui la notifica della cartella sia avvenuta – come nella specie – successivamente all’entrata in vigore del suddetto D.L..

9. Il motivo è infondato.

9.1. Nella fondamentale, per la comprensione di terminologia ed architettura del procedimento riscossivo, motivazione di Sez. U, n. 19704 del 02/10/2015 (massimata “sub” Rv. 636309-01 in relazione al seguente principio di diritto: “Il contribuente può impugnare la cartella di pagamento della quale – a causa dell’invalidità della relativa notifica – sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione; a ciò non osta l’ultima parte del d.lgs. n. 546 del 1992, comma 3, dell’art. 19 in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato – impugnabilità prevista da tale norma – non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e quindi non escluda la possibilità di far valere l’invalidità stessa anche prima, giacché l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione“), affermasi, con esemplare chiarezza, quanto segue:

Il ‘ruolo’, come noto, ha una sua precisa definizione legislativa, posto che, per il vigente testo del d.p.r. n. 602 del 1973, art. 10 lett. b), esso è ‘l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’Ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario’ e che, per il medesimo D.P.R., art. 11, ‘nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi’.

A norma del successivo art. 12 l’Ufficio competente ‘forma ruoli distinti per ciascuno degli ambiti territoriali in cui i concessionari operano. In ciascun ruolo sono iscritte tutte le somme dovute dai contribuenti che hanno il domicilio fiscale in comuni compresi nell’ambito territoriale cui il ruolo si riferisce’; nel ruolo ‘devono essere comunque indicati il numero del codice fiscale del contribuente, la specie del ruolo, la data in cui il ruolo diviene esecutivo e il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione, anche sintetica, della pretesa; in difetto di tali indicazioni non può farsi luogo all’iscrizione’; ‘il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica, dal titolare dell’Ufficio o da un suo delegato’ e ‘con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo’, cioè costituisce titolo esecutivo.

Dai riprodotti dati normativi discende che il ‘ruolo’ è un atto amministrativo impositivo (fiscale, contributivo o di riscossione di altre entrate allorché sia previsto come strumento di riscossione coattiva delle stesse) proprio ed esclusivo dell”Ufficio competente’ (cioè dell’ente creditore impositore), quindi ‘attò che, siccome espressamente previsto e regolamentato da norme legislative primarie, deve ritenersi ‘tipico’ sia quanto alla forma che quanto al contenuto sostanziale (cfr. le norme sopra richiamate laddove si precisa che esso deve indicare le ‘somme dovute’ in ‘riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento’ o, ‘in mancanza’ di questo, la ‘motivazione’ del debito).

In quanto titolo esecutivo, il ruolo sottoscritto dal capo dell’Ufficio o da un suo delegato, giusta il dettato del d.p.r. n. 602 del 1973, comma 1, art. 24 viene consegnato ‘al concessionario dell’ambito territoriale cui esso si riferisce’, esso pertanto non solo è atto proprio ed esclusivo dell’ente impositore (mai del concessionario della riscossione), ma, nella progressione dell”iter’ amministrativo di imposizione e riscossione, precede ogni attività del concessionario, della quale costituisce presupposto indefettibile.

Il concessionario della riscossione, a sua volta, in forza del ruolo ricevuto, redige ‘in conformità al modello approvato’ (oggi dall’Agenzia delle entrate) ‘la cartella di pagamento’ che, per il d.p.r. n. 602 del 1973, comma 2, dell’art. 25 ‘contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata’) e provvede (ai sensi del successivo art. 26) alla ‘notificazione della cartella di pagamento’ al debitore” (par. 1 delle “ragioni della decisione”, ppgg. 6 ss.).

Alla luce del superiore insegnamento del Massimo Consesso nomofilattico, è il ruolo a rivestire natura di “atto amministrativo impositivo”, tant’è vero che la successiva giurisprudenza s’è sempre determinata nel senso di affermare che la cartella di pagamento “costituisce (unicamente) l’atto con il quale il contribuente viene a conoscenza per la prima volta della pretesa fiscale”, ragion per cui, tra l’altro, soggiace all’obbligo di motivazione (Sez. 6-5, n. 14236 del 07/06/2017, Rv. 644434-01).

“Rebus sic stantibus”, è il momento di venuta ad esistenza del ruolo che segna l’individuazione della disciplina applicabile relativamente alla conformazione della pretesa impositiva, giacché il ruolo rappresenta l’atto mediante il quale questa assume giuridica consistenza, mentre invece la cartella è un mero veicolo di messa a conoscenza della stessa siccome (ossia per le ragioni, nell’entità e secondo i calcoli) già consacrata nel ruolo.

Talché deve enunciarsi il seguente principio di diritto:

Ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile relativamente alla determinazione del ‘quantum’ delle imposte iscrivibili a ruolo (nella specie, a titolo provvisorio, con riferimento alla sopravvenienza del d.l. n. 70 del 2011, che ha ridotto l’importo iscrivibile da un mezzo ad un terzo), viene in linea di conto esclusivamente il momento terminativo del procedimento di formazione del ruolo, che si perfeziona con la dichiarazione di esecutività, in quanto soltanto il ruolo costituisce il titolo della pretesa nei confronti del contribuente, senza che alcun rilievo assuma la successiva e distinta attività di notifica della cartella, siccome del tutto estranea alla venuta ad esistenza del titolo, essendo finalizzata unicamente alla sua messa a conoscenza nei confronti del destinatario“.

Alla luce del superiore principio, pertanto, come anticipato, il motivo si rivela infondato.

10. Gli ultimi due motivi di ricorso, per comunanza di censure, possono essere enunciati, illustrati e trattati congiuntamente.

11. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 comma 3, ed illegittimità della cartella nella parte in cui è richiesto il pagamento di “compensi di riscossione”.

11.1. La statuizione della CTR sul punto è erronea.

I fatti costitutivi della pretesa impositiva di cui è causa risalgono all’a.i. 2005 e dunque sono antecedenti all’entrata in vigore del d.l. n. 262 del 2006, art. 2 comma 3, lett. a), che ha posto a carico del contribuente una quota dell’aggio di riscossione anche nel caso di pagamento tempestivo della cartella, mentre, sino al 3 ottobre 2006, l’aggio era dovuto soltanto in caso di mancato pagamento. Quello che viene chiamato ‘compenso di riscossione’ non può più considerarsi remunerazione dell’attività dell’agente della riscossione, poiché la sua misura non presenta il benché minimo collegamento con detta attività, ma è correlata unicamente all’ammontare della somma iscritta a ruolo. Ne consegue l’irretroattività delle previsioni di cui al suddetto D.L..

12. Con il sesto motivo di ricorso si denuncia illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17 per violazione della Cost., artt. 3, 25, 53 e 97.

12.1. In caso di rigetto del precedente motivo, sarebbe rilevante e non manifestamente infondata la rubricata questione di legittimità costituzionale sotto il profilo della ricostruzione dell’ambito temporale di applicazione delle modifiche normative introdotte con il d.l. n. 262 del 2006.

13. Entrambi i motivi sono manifestamente infondati.

13.1. Sez. 5, n. 5154 del 2017, in motivazione (par. 8.1, p. 8, e par. 9.1., pp. 8 e 9), ha già avuto modo di ricordare che:

– “l’aggio di riscossione ha natura retributiva, trattandosi del compenso per l’attività esattoriale, e questa natura non muta in base al soggetto – contribuente, ente impositore od entrambi ‘pro quota’ – a carico del quale è posto il pagamento nelle varie circostanze (Cass. 3 aprile 2014, n. 7868, Rv. 630747; Cass. 23 dicembre 2015, n. 25932, Rv. 638287). Per questa sua invariabile natura retributiva, l’aggio deve essere determinato secondo la disciplina vigente al tempo dell’attività di riscossione, senza che possa farsi questione di (ir)retroattività rispetto all’anno d’imposta cui si riferisce l’iscrizione a ruolo”;

– “alcuni giudici di merito non hanno ritenuto manifestamente infondate questioni (di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza e di capacità contributiva), risultate poi inammissibili in punto di rilevanza (Corte Cost. 21 giugno 2013, n. 158; Corte Cost., 9 luglio 2015, n. 147 (cui ‘adde’ anche Corte Cost. 26 maggio 2017, n. 129, e Corte Cost. 29 marzo 2018, n. 65). Tuttavia, la natura retributiva e non tributaria dell’aggio esclude il parametro della capacità contributiva e lascia alla discrezionalità del legislatore la fissazione dei criteri di quantificazione del compenso (…)”.

13.2. Le argomentazioni di Sez. 5, n. 5154 del 2017 sono state successivamente riprese ed approfondite da Sez. 5, n. 3524 del 2018 (massimata “sub” Rv. 647033-01 limitatamente al profilo secondo cui, “attesa la natura retributiva dell’aggio di riscossione, derivante dalla sua funzione di compenso per l’attività esattoriale del soggetto incaricato, è manifestamente infondata la questione di costituzionalità del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 come modificato dal d.l. n. 262 del 2006, art. 2 convertito con modificazioni dalla l. n. 286 del 2006, fondata sull’asserita violazione della capacità contributiva prevista dalla Cost., art. 53”).

La sentenza di cui si tratta, in motivazione (“passim”), ha affrontato “funditus” la “quaestio”, agitata anche nel presente giudizio, della dedotta illegittimità dell’applicazione delle modifiche di cui al d.l. n. 262 del 2006 anche a rapporti d’imposta sorti sulla base di fatti costitutivi anteriori, ritenendone l’integrale non condivisibilità, anche nella parte deducente vizi di costituzionalità, sulla base dei seguenti condivisibili rilievi:

– “la natura non sanzionatoria dell’aggio, e quindi accessoria del tributo, è stata confermata non solo dalla giurisprudenza tributaria (si veda l’affermazione, in via incidentale, contenuta in Sez. V, n. 24020 del 2016, che lo definisce come il ‘compenso spettante al concessionario esattore”), ma anche dalla giurisprudenza non tributaria, ed in particolare da quella fallimentare’“;

– “in quanto compenso, quindi, allo stesso è applicabile la normativa del tempo in cui l’attività di riscossione è posta in essere, indipendentemente dal momento in cui è stata commessa la violazione“;

– “in base al meccanismo di determinazione dell’aggio, anche la modifica del 2006 non appare in contrasto con l’art. 3 Cost., posto che, al contrario, la normativa cerca di distinguere tra zone geografiche e non tratta allo stesso modo situazioni diseguali. Il fatto che dal 2006 una quota fissa sia stata posta a carico del contribuente, e ciò comporti una diversa situazione rispetto ai contribuenti che hanno ricevuto le cartelle prima di tale data, rientra nella fisiologia delle modifiche normative che vanno sempre a variare una situazione preesistente, ma, purché non siano modifiche caratterizzate da elementi di irrazionalità intrinseca, non possono esser considerate come violazioni della Cost. art. 3. Non sussiste, poi, alcuna violazione della Cost., art. 53 posta la già citata natura retributiva, e non tributaria, dell’aggio. Né si ravvisa violazione della Cost., art. 97 ipotizzata nella previsione di una quota fissa dovuta anche in assenza di altra attività dell’ente riscossore, oltre alla mera notifica della cartella. Non si ravvisa, infatti, in quale modo tale meccanismo incida sul buon andamento e sulla imparzialità dell’amministrazione“.

13.3. Rispetto a Sez. 5, n. 3524 del 2018, tenuto conto che nel presente giudizio l’eccezione di illegittimità costituzionale è formulata anche per violazione della Cost., art. 25 deve precisarsi che l’evocazione di siffatto parametro pare decentrata, posto che “in limine” il “thema” delle prestazioni patrimoniali imposte è sussumibile sotto la Cost., art. 23 e comunque inconferente, stante la natura (pur) “lato sensu” retributiva, e non sanzionatoria (ovvero, men che meno, afflittiva), dell’aggio.

13.4. Fermo quanto precede, per completezza, mette soltanto conto di aggiungere che, più di recente, nella stessa scia delle pronunce sin qui analizzate, viene in linea di conto un’articolata e documentata sentenza (Sez. 5, n. 27650 del 2020, Rv. 65996601), relativa ad una cartella di pagamento notificata nel 2013, di cui il contribuente assumeva l’illegittimità con riferimento alla parte relativa al pagamento di compensi di riscossione “in ragione dell’assenza dello svolgimento di una qualsiasi attività, diversa dalla notifica della medesima cartella di pagamento, da parte dell’agente della riscossione, nonché della mancanza di un inadempimento imputabile” (cfr., in motivazione, par. 1 dei “fatti di causa”, p. 3), sostenendo che “la misura stabilita dal legislatore nelle percentuali del 4,65%, per il caso di pagamento entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, ovvero dell’8% in ipotesi di versamento successivo, si palesa irragionevole in quanto eccessiva rispetto al fine remunerativo proprio dell’aggio” (par. 1 delle “ragioni della decisione”, p. 4). La S.C., nel disattendere, anche in questo caso, la censura, ribadisce espressamente che la ragionevolezza della forma di corrispettivo che l’aggio rappresenta – essendo esso “correlato alla responsabilità d’esercizio del concessionario e all’onere, sullo stesso gravante, di predisporre capitali e prestazione d’opera adeguati al soddisfacimento delle suindicate finalità pubblicistiche” (par. 2.2, p. 9) – non è venuta meno, a far data dal 1 ottobre 2006, con il nuovo meccanismo di affidamento in concessione del servizio nazionale ad E. ai sensi del d.l. n. 203 del 2005, art. 3 donde – prosegue la S.C. – la conseguenza a termini della quale “la formulazione del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 – che ancora la quantificazione della remunerazione del servizio esattoriale a percentuali dell’importo iscritto a ruolo normativamente predeterminate – non consente di attribuire, in via interpretativa, all’aggio la portata di compenso modulabile proporzionalmente all’entità dell’attività di volta in volta espletata dall’esattore, di guisa che la percentuale fissata ‘ope legis’ (…) non può essere intesa alla stregua di un limite quantitativo massimo” (par. 2.3., p. 11), ribadendo che “la natura retributiva e non tributaria dell’aggio lascia alla discrezionalità del legislatore la fissazione dei criteri di quantificazione del compenso, non essendo irragionevole che una parte di esso sia comunque posta a carico del contribuente, anche nel caso in cui questi abbia osservato il termine di pagamento della cartella” (par. 3.1, pp. 12 e 13).

13.5. Peraltro, in senso contrario a quanto precede, non può neppure sostenersi che la novella portata dal d.l. n. 201 del 2011, art. 10, comma 12-quater, conv. dalla l. n. 214 del 2011, sostituendo il termine “aggio” con il termine “rimborso”, abbia confermato l’esegesi secondo cui la remunerazione consistente nell’aggio debba comprendere i soli costi effettivamente sostenuti, essendo, comunque, detto rimborso posto “a carico del debitore” per il 51% “in caso di pagamento entro il sessantesimo giorno dalla notifica della cartella” e per la totalità “in caso contrario”: ciò, oltretutto, senza contare che, nell’incessante affastellarsi delle modifiche del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 (sino all’ultima, di cui alla l. n. 234 del 2021, art. 1, comma 15, che – come si vedrà – ha realizzato una peraltro tendenziale statalizzazione dei “costi da sostenere per il servizio nazionale della riscossione”, ponendo “a carico del debitore” la “quota” di “spese esecutive” e quella “correlata alla notifica della cartella di pagamento”, entrambe da fissarsi con decreto ministeriale), il portato di detta novella è risultato pressoché immediatamente superato dalla D.L. n. 95 del 2012, art. 5, comma 1, conv. dalla l. n. 135 del 2012 (a tenore del quale, “ferma restando la diminuzione, sui ruoli emessi dall’1 gennaio 2013, di un punto della percentuale di aggio sulle somme riscosse dalle società agenti del servizio nazionale della riscossione, le eventuali maggiori risorse rispetto a quanto considerato nei saldi tendenziali di finanza pubblica, correlate anche al processo di ottimizzazione ed efficientamento nella riscossione dei tributi e di riduzione dei costi di funzionamento del gruppo E. S.p.A., da accertare con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanarsi entro il 30 novembre 2012, sono destinate alla riduzione, fino a un massimo di ulteriori quattro punti percentuali, dello stesso aggio. Il citato decreto stabilisce, altresì, le modalità con le quali al gruppo E. S.p.A. è, comunque, assicurato il rimborso dei costi fissi di gestione risultanti dal bilancio certificato”).

13.6. I superiori principi, ben lungi dall’essere in alcun modo revocati in dubbio, trovano anzi espressa conferma nella recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 120 del 25/05/2021-10/06/2021, che ha dichiarato “inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, art. 17 comma 1, /1..), come sostituito dal d.l. 29 novembre 2008, n. 185, art. 35 comma 1, lettera a), /1..), convertito, con modificazioni, nella l. 28 gennaio 2009, n. 2, sollevate, in riferimento alla Costituzione, artt. 3, 23, 24, 53, 76 e 97, dalla Commissione tributaria provinciale di Venezia”.

E’ ben vero, infatti, che la sentenza di cui si tratta (parr. 2.1 ss.) ha lanciato un monito al legislatore per la riforma dei compensi di riscossione in ragione della complessiva inefficienza, foriera di sostanziale iniquità, del sistema di riscossione mediante ruoli (atteso che i costi della riscossione “sono fortemente condizionati dall’abnorme dimensione delle esecuzioni infruttuose, che quindi incidono altrettanto fortemente sulla proporzionalità dell’onere riversato sul contribuente che, sebbene inadempiente (o ricorrente avverso la pretesa tributaria), assolve il proprio debito tributario”); ma è altrettanto vero che il ragionamento alla stessa sotteso poggia proprio sul presupposto – esplicitamente evinto dalla giurisprudenza di legittimità, per l’effetto pienamente avallata – della natura retributiva di tali compensi, quale remunerazione, nondimeno, del servizio riscossivo nel suo complesso, e non già quale retribuzione corrispondente (in una sorta di valutazione sinallagmatica) alle singole attività compiute dall’agente della riscossione in ciascun procedimento.

13.6.1. Un tanto appare evidente alla luce della lettera della sentenza che si va esaminando, laddove, in ben due luoghi, evidenzia, – da un canto, che “il rilievo dell’Avvocatura è esatto: la suddetta disciplina è effettivamente funzionale ‘a remunerare i costi che l’agente della riscossione sconta in relazione alle operazioni che si rivelano infruttuose’ e ciò in base, continua la difesa dello Stato, alla ‘precisa scelta di politica fiscale’ di far gravare l’onere complessivo della riscossione ‘sui soggetti morosi, piuttosto che farlo ricadere interamente sulla fiscalità generale (e, dunque, anche sui contribuenti in regola con gli adempimenti fiscali)'”;

– dall’altro, precipuamente, che, “in base al consolidato orientamento della Corte di cassazione l’aggio deve essere inteso come ‘finalizzato non tanto a remunerare le singole attività compiute dal soggetto incaricato della riscossione, ma a coprire i costi complessivi del servizio’ (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 3 dicembre 2020, n. 27650) e assume ‘natura retributiva e non tributaria’ (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 12 febbraio 2020, n. 3416), ‘trattandosi del compenso per l’attività esattoriale’ (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 11 maggio 2020, n. 8714)”.

13.6.2. Sicché, confermata, anche dalla Corte costituzionale, la natura retributiva (e quindi giammai sanzionatoria o al limite impositiva) dei compensi di riscossione, il problema di tenuta costituzionale da Essa evidenziato concerne, su un piano del tutto distinto, il modo di esercizio della discrezionalità del legislatore in materia, nel senso che la “remunerazione” dell’agente della riscossione “deve restare coerente con la sua funzione e non assumere un carattere arbitrario, come invece può facilmente verificarsi nel caso (non infrequente, per le ragioni sopra viste) di eccessiva entità del costo del non riscosso addossato al contribuente ‘solvente'”.

13.6.3. Nondimeno, proprio nel rispetto della suddetta discrezionalità del legislatore (per vero chiamato, nel disegno della Corte costituzionale, ad una riforma organica, in prospettiva di efficacia, dell’intera riscossione mediante ruoli, sì da rendere, per tale via, altresì più equo il carico della remunerazione del servizio in sé addossato ai contribuenti solventi), non ha potuto Essa far altro che concludere per la non rimediabilità del pur “riscontrato”, in via di fatto, “‘vulnus’ degli evocati valori costituzionali”.

13.6.4. A mente del monito contenuto nella sentenza n. 120 del 2021 della Corte Costituzionale, la discrezionalità legislativa ha in effetti finalmente trovato estrinsecazione nella modifica del d.lgs. n. 112 del 1999, art. 17 ad opera della l. n. 234 del 2021, art. 1, comma 15 (cd. legge di bilancio per il 2022), che ha – come anticipavasi – tendenzialmente fiscalizzato gli “oneri di funzionamento del servizio nazionale della riscossione” (stante la rubrica dell’art. 17 cit.), stabilendo, nel nuovo comma 1 dell’art. 17, il principio per cui “l’agente della riscossione ha diritto alla copertura dei costi da sostenere per il servizio nazionale della riscossione a valere sulle risorse a tal fine stanziate sul bilancio dello Stato”. Talché, a partire del 1° gennaio 2022 (giusta la l. n. 234 del 2021, art. 1, comma 15), sono eliminati gli oneri di riscossione stabiliti a carico del debitore dal vecchio art. 17, fermo tuttavia che il bilancio dello Stato si alimenta delle “quote” (poste attive) indicate nelle varie lettere del comma 3 del novellato art. 17, tra cui la lett. a) prevede “una quota, a carico del debitore, denominata ‘spese esecutive’, correlata all’attivazione di procedure esecutive e cautelari da parte dell’agente della riscossione”, e la lett. b) “una quota, a carico del debitore, correlata alla notifica della cartella di pagamento e degli altri atti di riscossione”.

Né è censurabile l’operatività solo “pro futuro” del regime teste’ illustrato, essa pure rientrando (in assenza di vincoli discendenti da Corte Cost. n. 120 del 2021 in punto di diritto intertemporale) nella discrezionalità legislativa e conseguentemente inserendosi (come notato da Sez. 5, n. 3524 del 2018), nella “fisiologia delle modifiche normative”.

14. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo secondo tariffa, seguono la soccombenza.

La contribuente è tenuta al pagamento del cd. doppio contributo unificato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna C. S.R.L. a rifondere all’Agenzia delle entrate le spese di lite, liquidate in euro 15.000, oltre spese prenotate a debito.

Condanna C. S.R.L. a rifondere ad E.S. S.p.A. le spese di lite, liquidate in euro 15.000, oltre maggiorazione forfettaria in ragione del 15%, esborsi in ragione di Euro 200 ed accessori di legge, se ed in quanto dovuti.

Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di C. S.R.L., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.