Corte di Cassazione ordinanza n. 11284 depositata il 7 aprile 2022
motivazione atto impositivo – inammissibile integrazione es post
RITENUTO CHE
B.L. S.p.A. (per brevità, Banca) impugnava l’avviso di liquidazione con cui l’Agenzia delle Entrate aveva chiesto il pagamento di euro 20.245,00, a titolo di imposta di registro, in relazione al “decreto ingiuntivo n. 000003774/2010 del 16/12/10 emesso dal Tribunale di Palermo”, per “registrazione dell’atto giudiziario sopra indicato – art. 37 e ssgg. DP.R. 131/86 prot. 9655/52/22/2011 B.L. s.p.a. /G. s.p.a.”.
L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Palermo accoglieva il ricorso della contribuente affermando che lo “scarno” contenuto motivazionale dell’avviso di liquidazione non consentiva di evincere “quali siano i presupposti di fatto e diritto che stanno a fondamento della pretesa erariale (art. 7 legge n. 212 del 2012)” e, quanto alla contestazione concernente l’art. 40 del d.p.r. n. 131 del 1986, che fosse dovuta l’imposta di registro in misura fissa “ai decreti ingiuntivi esecutivi comportanti condanna al pagamento di somme da parte del debitore principale e del fideiussore o anche solamente nei confronti di quest’ultimo sia esso soggetto Iva o non soggetto Iva, nel caso in cui il credito derivi da un’operazione soggetta ad Iva”.
L’Agenzia delle Entrate proponeva appello alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia ed il qiudice del gravame, con la sentenza indicata in epigrafe, respirn eva le censure formulate dall’appellante rilevando che la motivazione deve “garantire la conoscenza e l’informazione” del contribuente per cui, “nei provvedimenti dell’A. f., al fine di realizzarne in pieno l’anzidetta finalità informativa, devono confluire tutte le conoscenze dell’Ufficio tributario e deve essere esternato con chiarezza, sia pur sinteticamente, l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione prospettata”. Quanto all’ulteriore censura erariale affermava, altresì, che “il Decreto ingiuntivo riguardante il pagamento di somme assoggettate ad Iva sconta l’Imposta di Registro in misura fissa (anche) qualora venga emesso nei confronti del solo fideiussore”.
L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza svolgendo due motivi.
La B.L. si è costituita depositando controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione al n. 3 dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per non avere la CTR considerato che i presupposti della tassazione del decreto ingiuntivo (n. 3774/10) richiesto dalla Banca erano accertabili “con la minima diligenza”, trattandosi di procedimento giudiziario ben noto alla contribuente e non sussistendo profili problematici in merito alla misura dell’imposta applicata.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 40, 22, d.p.r. n. 131 del 1986, 6, Parte I, Tariffa allegata al d.p.r. n. 131 del 1986, 8, lett. b), Parte I, Tariffa allegata al d.pr. n. 131 del 1986, in relazione al n. 3 dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per non avere la CTR considerato che “l’importo di € 20.245,00 di cui al codice tributo 109T”, come precisato dall’Ufficio nel giudizio di primo grado, “era da riferirsi alla tassazione, con aliquota proporzionale del 3%,_degli interessi moratori”, per cui il principio di alternatività IVA- Registro di cui all’art. 40, d.p.r. n. 131 del 1986, e la conseguente tassazione in misura fissa, “è stato applicato dall’Agenzia ai contratti di finanziamento e conto corrente enunciati nell’atto giudiziario de quo”, mentre “gli interessi moratori contenuti nel predetto decreto ingiuntivo sono stati tassati con l’aliquota proporzionale del 3%, di cui all’art. 8, lett. b) della Tariffa allegata al DPR 131/86”. Si aggiunge, nel motivo di ricorso, che il rapporto fideiussorio ex art. 22 d.p.r. n. 131 del 1986 è “distinto ed autonomo” rispetto al rapporto di conto corrente e finanziamento, questi ultimi rientranti nel campo di applicazione dell’Iva, quindi, la somma dovuta in esecuzione della fideiussione è “da tassare con l’applicazione dell’aliquota proporzionale dello 0,50% prevista dal citato art. 6, parte la della Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986”.
Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
Giova premettere che il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Palermo, oggetto di tassazione, è stato chiesto dalla Banca Nazionale del Lavoro nei confronti di G. s.p.a., in qualità di diretta debitrice della ingiungente in ragione dei rapporti bancari con essa intrattenuti, e nei confronti di H. s.p.a., in qualità di garante in forza di fideiussione.
L’Agenzia delle Entrate deduce che la Banca, la quale aveva chiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo tassato, era consapevole di dover corrispondere all’Agenzia delle Entrate l’imposta di registro, a norma del d.p.r. n. 131 del 1986, art. 37, pure richiamato nell’avviso impugnato, che prevede la registrazione di tutti gli atti dell’autorità giudiziaria e che proprio facendo applicazione dei suddetti argomenti la giurisprudenza di legittimità ritiene sufficiente “il mero riferimento al numero ed alla data della sentenza civile nell’avviso di liquidazione”, pur in mancanza dell’allegazione all’avviso dell’atto giudiziario tassato, trattandosi di atto di cui il contribuente, parte del giudizio, si può ritenere abbia conoscenza.
L’affermazione è in linea di principio corretta atteso che, come ha affermato la Corte, “In tema di imposta di registro relativa a sentenza civile, l’Amministrazione finanziaria è esonerata dall’obbligo di allegare all’avviso di liquidazione la sentenza su cui esso si fonda, in quanto trattasi di atto di cui il contribuente, parte del giudizio, si può ritenere essere a conoscenza; diversamente tale incombente si risolverebbe in un adempimento superfluo ed ultroneo che, da un lato, determinerebbe un eccessivo aggravio degli oneri connessi all’esercizio della potestà impositiva e, dall’altro, non varrebbe a fornire elementi utili e significativi per la difesa del contribuente (Cass. n. 21713 del 2020).
La Corte, inoltre, ha osservato che l’adempimento dell’allegazione di per sé non garantisce l’assolvimento dell’obbligo motivazionale posto a carico dell’Amministrazione finanziaria dall’art. 7, l. n. 212 del 2000, e pronunciando in fattispecie relativa alla tassazione di una sentenza civile, ha rilevato che, avuto riguardo “all’articolazione del dispositivo nel duplice capo di condanna al pagamento a diverso titolo della medesima somma di denaro (per capitale ed accessori)”, non si ponesse un problema di comprensione delle ragioni di fatto e di diritto della pretesa tributaria, in quanto la lettura integrata del provvedimento giudiziario tassato e dell’atto impositivo, assicurava “al contribuente l’agevole intellegibilità dei valori imponibili, delle aliquote applicate e dell’imposta liquidata.” (Cass. 21713/2020 cit.).
Tuttavia, sebbene non sussista un obbligo di allegazione della sentenza o, come nel caso di specie, del decreto ingiuntivo sottoposto a registrazione, l’obbligo di motivazione di cui all’art. 7, l. n. 212 del 2000, impone che sia comunque possibile per il contribuente individuare la base imponibile e l’aliquota tariffaria applicata dall’Ufficio, sia pure all’esito di una operazione di – mero – calcolo matematico, senza margini d’incertezza.
La Corte, di recente, si è espressa nel senso che “la mancata specificazione di questi elementi applicativi fondamentali determinava in effetti una lesione dei diritti dei contribuenti, anche e soprattutto in considerazione del fatto che la sentenza tassata (…) presentava (in accoglimento di una articolata azione sociale di responsabilità a carico di numerosi convenuti, tra amministratori e sindaci) vari capi di condanna, con importi risarcitori diversi a seconda della quota-parte di responsabilità accertata in capo a ciascuno (per funzione, permanenza in carica ed imputabilità temporale del danno risarcibile), e sulla base di un rapporto di solidarietà almeno apparentemente limitato ai convenuti ritenuti responsabili per la stessa quota-parte“. (Cass. 26340/2021).
Sicché va senz’altro affermata la necessità che l‘Ufficio provveda ad esplicitare con chiarezza nell’avviso di liquidazione indipendentemente dalla allegazione o non allegazione della sentenza – i criteri seguiti nel calcolo dell’imposta, in tutti i casi in cui, per la presenza di profili di complessità nella fattispecie oggetto del titolo giudiziario tassato, il contribuente sarebbe allo scuro del criterio di liquidazione in concreto adottato dall’Amministrazione finanziaria e conseguentemente costretto “a basare la propria opposizione all’avviso di liquidazione su ipotesi ricostruttive meramente congetturali di applicazione dell’imposta, il che è certamente contrario ai principi di tutela sostanziale ed effettiva.” (Cass. n. 26340/2021 cit.).
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate assume: che “nel maggior importo (recato dall’avviso) di € 20.24S,00, di cui al codice tributo 109T” era ricompresa “la somma di € 12.241,00 (…) da riferirsi alla tassazione, con aliquota proporzionale del 3% degli interessi moratori”; che la predetta circostanza venne esplicitata nelle “deduzioni in primo
grado Agenzia in data 13.11.2013, pag. 7, 2° e 3° capoverso”; che tale profilo giuridico, implicante l’inoperatività del principio previsto dall’art. 40 d.p.r. n. 131 del 1986 e, quindi, la non applicabilità dell’imposta in misura fissa, non è stato oggetto di alcuna contestazione da parte della contribuente.
Di detta questione, invero, non v’è traccia nelle sentenze dei giudici di merito incentrate, piuttosto, sulla tassabilità in misura eguale – e fissa – sia della condanna ottenuta nei confronti dell’obbligato principale (la G. s.p.a.), sia di quella ottenuta nei confronti del coobbligato (la H. s.p.a.) in forza di garanzia fideiussoria.
La Banca controricorrente osserva, in proposito, che l’impugnazione proposta contro l’avviso di liquidazione si è basata sul contestato difetto di motivazione dell’atto impositivo e, quanto al merito della pretesa fiscale, su “mere ipotesi” difensive, avendo invocato il principio di alternatività Iva-Registro, la violazione dell’art. 22 (enunciazione di atti non registrati), d.p.r. n. 131 del 1986 e 6, Parte Prima, della Tariffa allegata al citato d.p.r., avuto riguardo alla ipotesi di fideiussione prestata per scambio di corrispondenza e di registrazione in caso d’uso, nonché la violazione degli artt. 22 e 40, d.p.r. n. 131 del 1986, avuto riguardo alla qualità di soggetto Iva con riferimento sia alla Banca creditrice, che alla garante H. s.p.a. del rapporto bancario intercorso con la G. s.p.a., rientrante nel campo di applicazione dell’Iva.
Osserva, altresì, che il difetto di motivazione dell’atto impositivo non può essere sanato in corso di causa, come invece pretenderebbe l’Agenzia delle Entrate (la quale riferisce di aver chiarito, costituendosi innanzi alla CTP di Palermo, “di aver tassato i rapporti soggetti ad IVA, mentre in relazione alla fideiussione ed agli interessi moratori, poiché non imponibili ai fini dell’IVA, precisava che erano stati tassati con imposta proporzionale in misura rispettivamente, dello 0,50% e del 3%.”) e che sulla questione concernente la legittimità della “applicazione dell’imposta proporzionale di registro con l’aliquota del 3% sulla condanna al pagamento degli int eressi moratori (…) non si sono mai espressi i Collegi Provinciale e Regionale”, sicché il vizio di omessa pronuncia, eventualmente, avrebbe dovuto essere denunciato dall’Agenzia delle Entrate sotto il n. 4 dell’art. 360 c.p.c. ed in relazione all’art. 112 c.p.c., cosa che non è avvenuta.
Appare evidente, per quanto riferito dalla stessa Agenzia delle Entrate, ciò che assume rilievo ai fini della verifica del concreto rispetto del diritto di difesa della contribuente, in termini di effettiva conoscibilità, da parte della contribuente, dei presupposti della pretesa impositiva.
Il giudice d’appello ha correttamente ritenuto inammissibile una motivazione “postuma” del provvedimento impugnato, situazione che si verifica quando l’Amministrazione finanziaria colma ex post, e cioè in giudizio, le lacune dell’atto impositivo caratterizzato da un’insufficiente esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda, avendo affermato che “tali elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato non solo tempestivamente con l’inserimento ad origine nel provvedimento impositivo, ma anche con quel grado di determinatezza ed intellegibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del proprio diritto di difesa”.
Orbene, sulla scorta delle allegazioni dell’Agenzia delle Entrate non è dato comprendere come la contribuente potesse evincere dalla lettura – integrata – dell’avviso di liquidazione e del decreto ingiuntivo tassato che della somma di € 20.245,00, corrispondente alla imposta di registro complessivamente dovuta, la minor somma di € 12.241,00 fosse da riferire alla tassazione proporzionale degli interessi ed il resto alla tassazione in misura fissa della sorte capitale ingiunta, onde poter apprestare difese impugnatorie sufficientemente specifiche e circostanziate, frutto cioè non di mere congetture.
La Corte è ferma nel ritenere che l’obbligo di idonea e completa motivazione dell’atto impositivo, previsto dall’art. 7 della l. n. 212 del 2000, sia volto ad assicurare al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa nel giudizio di impugnazione e che l’Ufficio non possa integrare il contenuto di detta motivazione in corso di causa bensì possa solo illustrare fatti e questioni oggetto di causa, nell’ambito di una paritaria dialettica processuale, per incidere sul convincimento del giudice (Cass. n. 2382/2018, n. 12400/2018, n. 3762/2019, vedi anche Cass. n. 28560/2021, sul “principio di leale collaborazione tra privato e p. a.”, che non segna discontinuità rispetto all’insegnamento tradizionale della Corte in quanto la decisione fa comunque salvo “il diritto di difesa dell’interessato”).
Né assume rilievo la circostanza che il giudice di appello pur avendo riconosciuto, come il giudice di prime cure, !a sussistenza del vizio formale dell’atto impugnato, avesse esposto, alla luce di quanto emerso dal dibattito processuale sviluppatosi in corso di giudizio, ulteriori argomentazioni attinenti al merito della pretesa tributaria (distinzione tra obbligazione del debitore principale e del fideiussore, alternatività Iva-registro, distinzione interessi convenzionali e moratori), che la ricorrente ha – cautelativamente – impugnato con il secondo motivo di ricorso, il cui esame appare, ad ogni modo, inammissibile per difetto d’interesse.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta ricorso. Condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi euro 2.900,00, oltre esborsi nella misura di euro 200,00, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.