CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 1157 depositata l’ 11 gennaio 2024

Lavoro – Illegittimità ordine di servizio – Assegnazione sede e incarico – Dimissioni per giusta causa – Azione risarcitoria – Previsioni CCNL – Demansionamento – Rigetto

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 29 novembre 2017, la Corte d’appello di Genova, nella regolare costituzione dell’appellata A., ha accolto l’appello proposto da A.Q. avverso la sentenza del Tribunale di Imperia n. 30/2017, dichiarando l’illegittimità dell’ordine di servizio n. 4 del 27 novembre 2013.

2. A.Q., infatti, aveva adito il Tribunale di Imperia impugnando, appunto, detto ordine di servizio, con cui era stata disposta la sua assegnazione alla Struttura Complessa Distretto di Imperia (“S.C. Distretto di Imperia”), modificando così la sua originaria sede di servizio (“Presidio Ospedaliero Unico”) e le sue originarie mansioni, comprendenti attività chirurgica.

Il ricorrente aveva dedotto plurimi profili di illegittimità del provvedimento, chiedendo di accertarne la

“nullità/illegittimità/infondatezza” con conseguente assegnazione o riassegnazione ai precedenti sede ed incarico.

Il Tribunale di Imperia, acquisita una missiva del 9 settembre 2016 con la quale il ricorrente aveva rassegnato le dimissioni per giusta causa, aveva dichiarato la domanda inammissibile, gravando il ricorrente medesimo delle spese di lite.

Aveva ritenuto il Tribunale che, per effetto delle dimissioni, fosse sopravvenuto un difetto di interesse ad agire del ricorrente medesimo, non potendo la pronuncia da quest’ultimo invocata produrre alcun effetto utile.

3. Proposto appello da parte di A.Q., la Corte d’appello di Genova ha riformato la sentenza, ritenendo in primo luogo fondato il primo motivo di gravame, in quanto era da ritenersi che fosse ancora ravvisabile – sulla scorta del principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 9172/2003 – un interesse concreto ed attuale dell’appellante ad ottenere l’emissione di una sentenza dichiarativa dell’illegittimità dell’ordine di servizio, atteso che A.Q. non si era limitato a chiedere l’accertamento dell’illegittimità dell’assegnazione disposta dalla datrice di lavoro con l’ordine di servizio oggetto di impugnazione, ma si era altresì riservato di proporre un’azione risarcitoria volta ad ottenere il ristoro dei danni subìti a seguito dell’illegittima assegnazione.

Esaminando, in secondo luogo, il merito, la Corte territoriale è giunta alla conclusione che l’ordine di servizio oggetto di impugnazione era da ritenersi illegittimo, in quanto:

− alla luce del contenuto del CCNL Dirigenza medica del SSN in data 8 giugno 2000, dal cui art. 13 doveva evincersi che la sede di destinazione costituisce uno degli elementi del contratto individuale di lavoro, non essendo ammesse né la modifica unilaterale da parte del datore né la previsione di clausole peggiorative o derogatorie nell’ambito del contratto individuale;

− il contratto di lavoro del ricorrente individuava come sede di svolgimento del servizio il Presidio Ospedaliero Unico, con impegno dell’appellante ad accettare disposizioni in ordine ad eventuali assegnazioni diverse per esigenze di servizio ritenute opportune dall’Amministrazione;

− al fine di stabilire se fosse consentita, alla luce delle previsioni normative e della contrattazione collettiva, l’assegnazione dell’appellante ad una sede diversa, non assumevano rilevanza né l’art. 98 Cost. né l’art. 52 D. Lgs. n. 165/2001 – non avendo i medesimi ad oggetto la modifica dell’assegnazione della sede del Dirigente medico – mentre rilevava la disciplina dettata in tema di mobilità interna dall’art. 16 del CCNL del 10 febbraio 2008, integrativo del CCNL dell’8 giugno 2000 dell’area della dirigenza medico-veterinaria;

− alla luce del suddetto art. 16, era da ritenersi che, qualora sia necessario soddisfare le esigenze funzionali delle strutture interessate in presenza di eventi contingenti e non prevedibili ai quali non si o possa supplire con l’istituto della sostituzione, la l’Azienda potesse utilizzare lo strumento della mobilità interna di urgenza, nel rispetto tuttavia di due limiti, e cioè il carattere provvisorio dell’assegnazione in caso di mancanza dell’assenso dell’interessato ed il rispetto del principio di rotazione tra tutti i dirigenti;

− nella specie l’assegnazione dell’appellante era avvenuta al di fuori delle ipotesi contemplate dalla suddetta previsione del CCNL, essendo avvenuta: a) in assenza di conferimento di uno degli incarichi previsti dall’art. 27 della CCNL 8 giugno 2000; b) senza deduzione dei presupposti per far luogo alla mobilità d’urgenza; c) in via definitiva;

− la legittimità del provvedimento non poteva basarsi neppure sulle previsioni contenute nel contratto individuale, in quanto anche queste ultime avrebbero legittimato assegnazioni “provvisorie e circoscritte” e non una vera e propria ipotesi di mobilità interna, comportando una diversa la nullità delle stesse previsioni contrattuali, in quanto peggiorative delle previsioni del CCNL.

4. Per la cassazione della decisione della Corte genovese ha proposto ricorso la A..

Resiste con controricorso A.Q..

5. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380 bis.1, c.p.c.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è affidato a tre motivi.

1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., “la violazione o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e la violazione dell’art. 112 c.p.c.”.

L’Azienda ricorrente impugna la decisione della Corte d’appello di Genova, nella parte in cui la medesima ha ritenuto che l’odierno controricorrente, nonostante le dimissioni, fosse ancora portatore di un interesse alla decisione nel merito.

Richiama, sul punto, gli orientamenti di questa Corte, dai quali afferma potersi evincere il principio per cui, qualora nelle more del contenzioso il rapporto di lavoro sia cessato, il lavoratore non ha più alcun interesse ad una pronuncia di illegittimità del trasferimento inizialmente impugnato, nemmeno a livello di mero accertamento di un allegato inadempimento datoriale ove ad esso non sia causalmente collegata una domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento dei danni ex art. 1218 c.c..

Tale sarebbe, secondo la ricorrente, la situazione nel caso di specie, avendo A.Q. unicamente chiesto l’annullamento dell’ordine di servizio che disponeva il trasferimento senza formulare alcuna pretesa risarcitoria, con la conseguenza che, intervenute le dimissioni, il ricorso dell’odierno controricorrente avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse ad agire in capo al ricorrente.

1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce:

− in relazione all’art. 360, n. 3 e 5, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione “degli artt. 32, 97 e 98 Cost., dell’art. 1 (comma 1, lettere a, b; comma 2 e comma 3), dell’art. 2 (comma 1, lettere a, b; comma 3 bis), dell’art. 5 (commi 1 e 2), dell’art. 6, comma 2, dell’art. 30, comma 2, dell’art. 40, commi 1 e 3 quinquies, dell’art. 52, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dell’art. 15 (commi 1 e 3), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.i., del principio dell’equivalenza delle mansioni nell’ambito della dirigenza del ruolo unico, degli art. 5 e 7 del contratto individuale di lavoro, dell’art. 13 (commi 4, 12 e 13) e dell’art. 27 del CCNL 8 giugno 2000, dell’art. 16 del CCNL 10 febbraio 2004”;

nonché “in subordine”

− in relazione all’art. 360, n. 3 e 5, c.p.c., la “nullità ai sensi dell’art. 40, commi 1 e 3 quinquies, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 dell’art. 13, commi 4, 12 e 13, del CCNL 8 giugno 2000 e dell’art. 16 commi nn. 1, 2, 3 e 4, del CCNL 10 febbraio 2004 per violazione delle norme imperative e dei principi di cui agli artt. 32, 97 e 98 Cost. ed agli artt. 1 (comma lettere a, b; comma 2 e comma 3); 2 (comma 1, lettere a, b; comma 3 bis); 5 (commi 1 e 2); 6, comma 2; 30; dell’art. 52, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165; nonché dell’art. 15 (commi 1 e 3), del D.Lgs. 30 dicembre al 1992, n. 502 e s.m.i.”

Argomenta, in sintesi, il ricorso che la decisione impugnata, accogliendo nel merito il ricorso di A.Q., avrebbe direttamente violato sia l’art. 52 del D. Lgs. n. 165/2001, sia l’art. 15 del D. Lgs. n. 502/1992) sia gli artt. 5 e 7 del contratto individuale di lavoro.

Le previsioni normative richiamate, evidenzia il ricorso, costituirebbero principi fondamentali e norme imperative della Riforma del pubblico impiego, finalizzate ad assicurare, attraverso la flessibilità della gestione delle risorse, gli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità della pubblica amministrazione nel perseguimento dei compiti istituzionali, consentendo l’assegnazione dei dipendenti pubblici ad una qualsiasi delle mansioni dell’area di inquadramento considerate equivalenti secondo le necessità dell’Amministrazione.

Argomenta ulteriormente l’Azienda ricorrente che le previsioni del contratto individuale di A.Q., nella parte in impegnavano quest’ultimo a svolgere ogni altra mansione necessaria al corretto funzionamento del servizio e ad accettare disposizioni in ordine ad eventuali assegnazioni diverse per esigenze di servizio ritenute opportune dall’Amministrazione, lungi dall’essere nulle per contrasto con l’art. 13, comma 13, del CCNL 8 giugno 2000, sarebbero invece pienamente conformi e coerenti con i principi fondamentali, le norme imperative e le disposizioni del D. Lgs. n. 165/2001 e del D. Lgs. n. 502/1992, non essendo ravvisabile una limitazione dei poteri datoriali nelle previsioni del CCNL.

Deduce, anzi, l’Azienda ricorrente che una diversa interpretazione dell’art. 13 (commi 4, 12 e 13) del CCNL 8 giugno 2000 e dell’art. 16 del CCNL 10 febbraio 2004 renderebbe le previsioni medesime “nulle ex lege ai sensi dell’art. 40, commi 1 e 3 quinquies, del D.Lgs. n. 165/2000 e non applicabili alla fattispecie in esame”, per violazione degli artt. 1 (comma 1, lettere a, b; comma 2 e comma 3), dell’art. 2 (comma 1, lettere a, b; comma 3 bis), dell’art. 5 (commi 1 e 2), dell’art. 6, comma 2, dell’art. 30, dell’art. 52, comma 1, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nonché dell’art. 15 (commi 1 e 3), del D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.i.

Deduce, infine, la ricorrente che la decisione impugnata avrebbe violato anche l’art. 5, commi 1 e 2, e l’art. 6 del D. Lgs. n. 165/2001, in quanto la Corte territoriale si sarebbe ingerita nell’organizzazione dei servizi istituzionali e nella gestione delle risorse umane che rientrano nell’esclusiva competenza del datore di lavoro pubblico.

1.3. Con il terzo motivo non rubricato il ricorso deduce la necessità di riformare la decisione impugnata, a seguito dell’accoglimento del ricorso, anche in relazione alla statuizione sulle spese di lite.

2. Il primo motivo è infondato.

La ricorrente richiama i precedenti di questa Corte – in particolare Cass. Sez. L, Sentenza n. 6749 del 04/05/2012 – con quali è stato ribadito il nesso tra interesse ad agire ed azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti ed è stato quindi chiarito che, nel caso di domanda del lavoratore volta a conseguire unicamente l’accertamento dell’inadempimento datoriale, la successiva cessazione del rapporto di lavoro in corso di causa determina il sopravvenuto difetto di interesse ad agire, non essendo possibile per il lavoratore conseguire dalla pronuncia giurisdizionale un risultato utile giuridicamente apprezzabile (cfr. altresì Cass. Sez. L – Ordinanza n. 30584 del 28/10/2021).

Parte ricorrente, tuttavia, omette di considerare che in tali precedenti, il difetto sopravvenuto di interesse ad agire è stato subordinato alla mancata formulazione di una domanda risarcitoria, evidente essendo che, ove tale domanda sia invece presente, la cessazione del rapporto di lavoro non vale ad elidere l’interesse del lavoratore a conseguire l’accertamento dell’inadempimento datoriale, e ciò proprio ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria che in tale inadempimento trova fondamento.

È stato, quindi, recentemente ribadito che, in tema di dequalificazione professionale, ove il lavoratore richieda l’accertamento della illegittimità della destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte, costituendo il suddetto accertamento la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, l’interesse ad ottenere la pronunzia permane anche dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, incidendo quest’ultimo evento soltanto sull’eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza ma non sul diritto all’accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto, escludendo, quindi, la correttezza di una statuizione di sopravvenuto difetto di interesse ad agire in una ipotesi in cui il lavoratore ricorrente, sin dal ricorso introduttivo, aveva fatto espressa riserva di proporre azione per il risarcimento del danno da demansionamento (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 4410 del 10/02/2022).

Si deve, pertanto, ribadire che l’estinzione del rapporto di lavoro in corso di causa non determina il venir meno dell’interesse ad agire del lavoratore che abbia chiesto l’accertamento della illegittimità dei provvedimenti datoriali che incidono sulla sede di lavoro o sulle mansioni svolte, allorquando il ricorrente, sin dal ricorso introduttivo, abbia fatto espressa riserva di agire per il risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento del datore di lavoro, in quanto l’accertamento di tale inadempimento viene a costituire la premessa logica e giuridica delle pretese risarcitorie, determinando il permanere dell’interesse ad ottenere la pronunzia giurisdizionale.

Svolte tali premesse, e tornando al caso in esame, si deve osservare che, come evidenziato dalla decisione della Corte genovese e non contestato dalla ricorrente, A.Q. aveva, nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, formulato espressa riserva di agire per il risarcimento di tutti i danni che assumeva di avere subito per effetto del mutamento di sede lavorativa.

Correttamente, quindi, la Corte d’appello ha ritenuto che tale riserva valesse a rendere persistente l’interesse del ricorrente a conseguire l’accertamento della illegittimità del provvedimento datoriale anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, in ciò conformandosi ai principi enunciati da questa Corte.

3. Il secondo motivo è, parimenti, infondato.

Il richiamo della ricorrente ad una cospicua mole di previsioni normative e di contrattazione collettiva, così come l’invocazione del principio di flessibilità nella gestione delle risorse, non valgono, invero, ad obliterare la constatazione che il motivo di ricorso viene nel concreto a sindacare l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito, nel momento in cui quest’ultimo ha concluso che il provvedimento nei confronti dell’odierno controricorrente era stato adottato in assenza dei presupposti della mobilità d’urgenza.

Ne deriva l’infondatezza di un motivo di ricorso che comunque spende argomentazioni apodittiche e non perspicue, dovendosi invece rammentare che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).

4. Il terzo motivo è inammissibile.

Ci si trova di fronte ad un motivo meramente ottativo o ipotetico, in quanto finalizzato a prospettare uno scenario alternativo di decisione sulle spese di lite nel giudizio di merito in caso di recepimento delle tesi della ricorrente.

È evidente, tuttavia, che un motivo col quale si prospetti quella che avrebbe dovuto – o dovrebbe – essere la diversa regolamentazione delle spese di lite nello scenario di un ipotetico – auspicato – diverso esito del giudizio di merito non costituisce un vero ed ammissibile motivo di censura – non censurandosi nel concreto la decisione sulla spese per la diretta violazione di una delle regole di distribuzione di cui agli artt. 91 segg. c.p.c. – ma una semplice prospettazione alternativa, destinata ad essere o assorbita dall’eventuale accoglimento degli altri motivi di ricorso – rendendosi in quel caso necessaria una nuova statuizione sulle spese – o, in caso di rigetto dei motivi medesimi, a risultare inammissibile per radicale carenza di autonomia.

5. Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.

6. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”, spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 – Rv. 657198 – 05).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 5.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.