Corte di Cassazione ordinanza n. 18124 depositata il 23 giugno 2023

certificato di origine – prova del paese di provenienza 

Rilevato:

che l’AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI notificò alla F. S.P.A. ed al C. S.R.L. alcuni avvisi di rettifica nonché atti di irrogazione di sanzioni, conseguenti alla revisione delle operazioni di importazione eseguite dalla F. ed aventi ad oggetto elementi di fissaggio aventi quale origine Taiwan e non le Filippine, come invece dichiarato;

che le società contribuenti impugnarono separatamente detti provvedimenti innanzi alla C.T.P. di Genova che, con sentenza n. 201/2015, previa riunione dei ricorsi, li accolse;

che, tanto l’AGENZIA DELLE DOGANE, da un lato, quanto la F. S.P.A. ed il C. S.R.L., dall’altro, proposero appello, rispettivamente in via principale ed incidentale, innanzi alla C.T.R. della Liguria che, con sentenza n. 1417, depositata il 29/10/2018, rigettò il primo, con assorbimento del secondo, osservando – per quanto in questa sede ancora rileva – come l’Ufficio non aveva fornito prova dell’origine taiwanese (e non filippina) della merce importata, non essendo stata la “tesi della trasformazione del prodotto semilavorato…smentita..dalle Autorità Doganali né dall’OLAF” (cfr. sentenza impugnata, p. 5) e, anzi, emergendo ex actis numerosi elementi (cfr. le pp. 5 e 6 della motivazione) indicativi della circostanza che “i prodotti sono stati lavorati sostanzialmente nelle Filippine” (cfr. p. 6); che avverso tale decisione l’AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad uno motivo; si sono costituite con controricorso la F. S.P.A. ed il C. S.R.L.;

Considerato:

che con l’unico motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) della “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 11 del regolamento UE n. 883/2013, che ha sostituito l’art. 9 del Reg. 1073 del 1999, degli artt. 2699 e 2700 c.c., l’Allegato 15 delle D.A.C….e del Reg. (CE) n. 1890/2005” (cfr. ricorso, p. 8), per avere la C.T.R. erroneamente ritenuto non provata l’origine taiwanese (anziché filippina) della merce sottesa alle riprese ed alle sanzioni per cui è causa, nonostante in tal senso deponessero la Relazione Finale OLAF THOR 2164 del 27.1.2014 (n. OF/2011/0298/B1) e la relativa documentazione di riscontro, né alcun valore – di senso contrario – potessero rivestire i certificati di origine preferenziale FORM-A rilasciati in favore della ditta esportatrice con la dicitura “WORKED”;

che il motivo è, in parte, inammissibile, in parte infondato;

che non ignora il Collegio che, in tema di dazi doganali, (a) l’art. 9, comma 2, del Regolamento (CEE) n. 1073 del 1999 attribuisce piena rilevanza probatoria alla relazione finale redatta dall’OLAF all’esito delle indagini antifrode, considerandola espressamente “equipollente” alle relazioni amministrative redatte dagli ispettori dello Stato membro (Cass., Sez. 5, 30.1.2020, n. 2139, Rv. 656818-01); (b) il certificato di origine delle merci (FORM-A, o EUR-1), emesso dalle autorità del Paese di esportazione, previsto dall’art. 26 del Regolamento (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 e dagli artt. 80 e ss. del Regolamento (CEE) 2 luglio 1993, n. 2454, costituisce, con riguardo alla pretesa di recupero dei dazi non preferenziali non versati, titolo di legittimazione esclusivo per esercitare il diritto di fruizione dello specifico regime doganale previsto in relazione all’origine del prodotto (condicio sine qua non), ma non ha efficacia di prova legale assoluta della effettiva origine della merce importata dal Paese terzo che ha emesso il certificato, attesa, da un lato, l’assenza di obblighi di controllo in capo al Paese terzo e, dall’altro, la possibilità, per il Paese importatore, in presenza di ragionevoli dubbi, di contestare l’effettiva origine del prodotto importato e rifiutare, indipendentemente dalla regolarità formale del certificato, l’applicazione dello specifico regime doganale (Cass., Sez. 5, 30.10.2013, n. 24439, Rv. 628661-01); (c) il recupero a posteriori dei dazi preferenziali non versati può essere motivato dall’Amministrazione in ragione dell’invalidazione, da parte dell’autorità emittente del Paese di esportazione, del certificato di origine delle merci, in quanto tale certificato è l’unico titolo di legittimazione che consente di fruire dello specifico regime doganale previsto in relazione all’origine del prodotto (Cass., Sez. 5, 25.1.2019, n. 2148, Rv. 652211-01 e, in specie, il principio di diritto affermato alle pp. 8-9 della motivazione); che, nella specie, la C.T.R. ha, tuttavia, a più riprese chiarito che (a) la “tesi della trasformazione del prodotto semilavorato non è stata smentita né dalle Autorità Doganali né dall’OLAF” (cfr. sentenza impugnata, p. 5), evidenziando che (b) “né dall’indagine OLAF è dato desumere che i prodotti importati non siano stati lavorati nelle Filippine, a Subic-Bay, dove risulta comunque       vi      siano varie     fabbriche   di trasformazione del prodotto” (cfr. p. 6), specificando, altresì, che (c) “dall’esame dei documenti agli atti risulta che sul certificato di origine della Camera di commercio risulta esservi la sigla WORKED, indicante il lavoro sulle merci così trasformate, nella specie la filettatura delle viti. Inoltre nel FORM-A è stata, appunto, stampata la sigla W” (cfr. p. 6) ed ulteriormente rilevando come (d) “sia nell’ordine che nella conferma…vi sono indirizzi mail delle Filippine e gli stessi pagamenti vengono eseguiti su una filiale di Banca delle Filippine, così come per le polizze di carico ed i certificati di origine della merce“;

che rispetto a tali complessive argomentazioni, dunque, il motivo è inammissibile sotto molteplici profili e, precisamente:

1) per difetto di specificità, ex art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., non essendo trascritto il contenuto della Relazione Finale OLAF THOR 2164 del 27.1.2014 (n. OF/2011/0298/B1) e della relativa documentazione di riscontro, atti solo genericamente richiamati alle pp. 3 e 9 del ricorso e neppure chiaramente localizzati, quanto a produzione, nei precedenti gradi di giudizio (“tali prove documentali sono state regolarmente allegate ai processi verbali di revisione che costituiscono parte integrante degli avvisi di rettifica di accertamento impugnati, stati ritualmente depositati in giudizio, sin dal primo grado”, senza alcuna ulteriore indicazione), e contenenti gli elementi che, asseritamente smentendo la ricostruzione operata dalla C.T.R., dimostrerebbero la natura taiwanese e non filippina della merce in questione;

2) per novità, nel silenzio della gravata decisione sul punto ed in difetto di sua localizzazione (circa se, come e quando proposta nei precedenti gradi di giudizio), della questione concernente l’asserito ritiro (anteriormente all’emanazione  degli  atti  impositivi  oggetto  del  presente giudizio) di tutti i certificati di origine preferenziale Form-A emessi per le società filippine (e, tra queste, la CANO SUBIC CORPORATION) esportatrici dei prodotti sottesi alle riprese per cui è causa (cfr. ricorso, p. 21);

3) per sconfinare la censura, in ultima analisi, nella richiesta di una rivalutazione degli elementi che hanno portato la C.T.R., con un accertamento in fatto di pertinenza esclusiva del giudice di merito, a ritenere di origine filippina e non taiwanese la merce sottesa alle riprese per cui è causa (esula, infatti, dal vizio di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, c. 1 e 2 cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità. Cfr. Cass., Sez. 3, 1.6.2021, n. 15276, Rv. 661628-01);

che sotto tale ultimo profilo, peraltro, neppure coglie nel segno la adombrata violazione, ad opera dei giudici di appello, dell’art. 2697 cod. civ. (cfr. ricorso, p. 9, cpv.), posto che la C.T.R. non ha proceduto ad attribuire l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare (cfr. Cass., Sez. 6-3, 23.10.2018, n. 26769, Rv. 650892-01),

essendosi piuttosto “limitata” a valutare – in senso favorevole alla contribuente – gli elementi di prova addotti dalle parti; Ritenuto, in conclusione, che il ricorso debba essere rigettato con la condanna dell’AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore p.t., al pagamento, in favore della F. S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t. e del C. S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna l’AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore p.t., al pagamento, in favore della F. S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t. e del C. S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t., delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in € 200,00 (duecento/00) per esborsi ed € 7.800,00 (settemilaottocento/00) per compenso professionale, oltre al 15% su tale ultimo importo per rimborso forfettario spese generali ed agli accessori di legge.