CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 18231 depositata il 26 giugno 2023
Tributi – Avviso di accertamento – Ricavi non dichiarati e costi non inerenti – IRES, IRAP e IVA – Motivazione “per relationem” – Accertamento a tavolino – Violazione del contraddittorio – Principi di ragionevolezza e di capacità contributiva – Accertamento analitico/induttivo – Possibilità della prova presuntiva contraria – Incidenza percentuale dei costi relativi – Accoglimento parziale – calcolo dei termni di impugnazione del ricorso in cassazione secondo “ex nominatione dierum”, nel senso che il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale
Rilevato che
– la società contribuente impugnava l’avviso di accertamento notificatole a seguito di PVC della Guardia di finanza di Taranto con il quale erano accertati ai fini IRES, IRAP e IVA ricavi non dichiarati e costi non inerenti per l’anno 2007;
– il giudice di primo grado rigettava il ricorso;
– appellava la E. s.r.l.;
– con la pronuncia qui impugnata la CTR ha confermato la sentenza impugnata rigettando l’appello della contribuente;
– ricorre a questa Corte la società contribuente con atto affidato a quattro motivi di ricorso, poi illustrato con memoria;
– resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
– va preliminarmente trattata e disattesa l’eccezione di inammissibilità posta in controricorso con riguardo alla tempestività dell’impugnazione proposta dalla società contribuente, per le ragioni evidenziate in memoria;
– va ricordato che, in forza della consolidata giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Cass. n. 15029 del 15/07/2020; Cass. n. 17640 del 25/08/2020; Cass. n. 2186 del 1/02/2021), per i termini mensili o annuali, fra i quali è compreso quello di decadenza dall’impugnazione a norma dell’art. 155 c.p.c., comma 2, e art. 2963 c.c., comma 4, opera il sistema della computazione civile, non “ex numero” bensì “ex nominatione dierum”, nel senso che il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale; analogamente si deve procedere quando il termine di decadenza interferisca con il periodo di sospensione feriale dei termini: in tal caso, infatti, al termine annuale di decadenza dal gravame (ora semestrale) di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, devono aggiungersi i 31 giorni di tale sospensione computati “ex numeratione dierum”, ai sensi del combinato disposto dell’art. 155 c.p.c., comma 1, e della l. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, comma 1 non dovendosi tenere conto dei giorni compresi tra il primo e 31 agosto di ciascun anno per effetto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale;
– pertanto, dal momento che la sentenza di appello è stata depositata in data 4 marzo 2016, l’ultimo giorno utile per la proposizione del ricorso per cassazione era il 5 ottobre 2016, dovendosi sommare ai sei mesi i 31 giorni relativi alla sospensione feriale del mese di agosto, data nella quale risulta posto in notifica il ricorso della società contribuente;
– l’impugnazione proposta è quindi tempestiva;
– il primo motivo di ricorso deduce la violazione falsa applicazione della l. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto motivato l’avviso di accertamento impugnato in quanto riproduttivo del contenuto essenziale del PVC, mai comunicato notificato o esibito alla società ricorrente; il motivo è strettamente connesso con il terzo mezzo di gravame, che censura la pronuncia impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la CTR reso motivazione lacunosa in ordine alla legittimità dell’avviso di accertamento, sprovvisto degli elementi indiziari relativi alle movimentazioni bancarie non risultando sufficienti i rilievi indicati nel pvc, atto mai reso noto alla società contribuente;
– i motivi sono entrambi inammissibili in quanto manchevoli di specificità e di localizzazione;
– difatti a fronte della statuizione del giudice dell’appello secondo il quale il PVC, quale atto richiamato dall’avviso di accertamento impugnato, “il PVC è riportato nei suoi contenuti essenziali e per ampi stralci come nel caso in esame” era onere di parte ricorrente, per censurare efficacemente tale affermazione, trascrivere nel ricorso per Cassazione o produrre a questa Corte la parte motivazionale dell’avviso di accertamento impugnato per consentire al collegio di verificare l’effettiva inserzione o meno, nella parte motiva di tale avviso di accertamento qui impugnato, del contenuto del pvc;
– questa Corte, sul punto, costantemente ritiene (si rimanda sul punto a Cass., sez. 5, sentenza n. 16010 del 29/07/2015; Cass., sez. 5, ord., n. 16147 del 28/06/2017; più recentemente anche Cass., sez. 5, ord., n. 28570 del 6/11/2019) che, nel rispetto dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di un giudice di merito sotto il profilo del giudizio reso in ordine alla contestata congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, così come della cartella di pagamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto impositivo che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso;
– in diritto, poi, è altrettanto consolidata la giurisprudenza di Legittimità secondo la quale (Cass. sez. 6-5, ord., n. 9323 del 11/04/2017, ma anche Cass. sez. 5, ord., n. 4396 del 23/02/2018) l’avviso di accertamento può essere motivato “per relationem”, ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento;
– il secondo motivo censura la pronuncia impugnata per violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2 nonché per eccesso di potere e violazione del principio del contraddittorio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto non necessaria l’attivazione del contraddittorio endo-procedimentale con riguardo alle risultanze delle indagini finanziarie operate sui conti bancari riferibili alla società contribuente;
– il motivo è infondato;
– quanto all’imposizione reddituale occorre premettere, invero, che, nella vicenda in giudizio, come si evince dalla pronuncia gravata, l’accertamento non è stato preceduto da alcuna attività di accesso, ispezione o verifica, ma si è tradotto in un accertamento c.d. “a tavolino”, fondato sulle indagini bancarie e sugli atti di diretta acquisizione da parte dell’Ufficio. Ne deriva, quanto alle imposte dirette, l’infondatezza della denunciata violazione trattandosi di ambito in cui non è previsto un obbligo generalizzato di preventivo contraddittorio, ossia al di fuori dalle ipotesi specificamente previste, non essendo annoverabile tra esse il disposto di cui al d.p.r. n. 600 del 1973, art. 32 (v. da ultimo Cass. n. 34209 del 20/12/2019, secondo la quale “in tema di accertamento delle imposte, la legittimità della ricostruzione della base imponibile mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite non è subordinata al contraddittorio con il contribuente, anticipato alla fase amministrativa, in quanto l’invito a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari costituisce per l’Ufficio una mera facoltà, da esercitarsi in piena discrezionalità, e non un obbligo, sicché dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti” e anche la seguente Cass. n. 20426 del 19/07/2021);
– parimenti infondata è la doglianza quanto all’Iva: è ben vero, infatti, che, con riguardo ai tributi armonizzati, in particolare, nella vicenda in giudizio, all’Iva, l’obbligo del contraddittorio preventivo discende direttamente dalla disciplina unionale alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, sicché l’Amministrazione, ove adotti provvedimenti destinati ad incidere sulle posizioni soggettive dei destinatari, è tenuta a mettere costoro in condizione di esporre utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento dell’atto medesimo (già Corte di Giustizia, sentenza 18 dicembre 2008, in C-349/07, S., punto 37; ex multis sentenza 22 ottobre 2013, in C-276/12, S., punto 38; sentenza 17 dicembre 2015, in C-419/14, W., punto 84);
– la giurisprudenza unionale, peraltro, ha chiarito che qualora l’Amministrazione non sia stata rispettosa dell’obbligo di contraddittorio, la violazione – in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze (come pure precisato, per il nostro ordinamento, da Cass. n. 701 del 15/01/2019) – comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto fa valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (c,d. prova di resistenza), ossia se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa (Corte di Giustizia, sentenze 10 ottobre 2009, F.S.Y.H.H., in C- 141/08, punto 94; 10 settembre 2013, M.G. e N. R., in C-383/13, punto 38; 26 settembre 2013, T. S., in C-418/11, punto 84; 3 luglio 2014, K.I.L. e D.H.W.L., in C-129/13 e C-130/13, punti 79 e 79);
– il parametro di riferimento a tal fine è, dunque, costituito dal principio di effettività – per il quale le modalità procedurali interne “non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione” – che, tuttavia, come anche recentemente ribadito dalla stessa Corte di Giustizia, “non esige che una decisione contestata, in quanto adottata in violazione dei diritti della difesa, sia annullata in tutti i casi. Infatti, una violazione dei diritti della difesa determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di detta irregolarità, il procedimento sarebbe potuto giungere a un risultato diverso” (sentenza 4 giugno 2020, SC C.F. SRL, in C-430/19, punti 35 e 37). Non ha invece incidenza, quantomeno nel nostro ordinamento, il principio di equivalenza attesa l’inesistenza di regole procedurali specificamente dettate per l’imposizione in materia di Iva;
– va ancora ricordato che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 24823 del 09/12/2015, hanno poi utilmente precisato che il requisito in questione va inteso “nel senso che l’effetto della nullità dell’accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali” ossia che “non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato…, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto” (recentemente v. anche Cass. n. 20036 del 27/07/2018; Cass. n. 218 del 8/01/2019);
– venendo allora all’esame della doglianza proposta in questo caso, la stessa si manifesta del tutto carente quanto alla richiesta c.d. “prova di resistenza”, in quanto parte ricorrente lamenta la violazione del contraddittorio rispetto alle risultanze delle indagini finanziarie ma in alcun modo deduce o articola come, in mancanza di tale vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa e quali ragioni avrebbe potuto in concreto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, così come ha peraltro riconosciuto la CTR nel ritenere che “nonostante la cospicua documentazione allegata al ricorso nulla è stato documentato in ordine a quanto previsto dalla norma applicata circa la facoltà per il contribuente di dimostrare anche in sede contenziosa che le movimentazioni bancarie hanno concorso alla determinazione del reddito di esercizio”;
– in altri termini, la lamentata violazione è dedotta solo in sé e per sé, neppure deducendo neanche in questa sede ulteriori elementi suscettibili di una diversa, anche solo potenziale, considerazione del merito dell’accertamento;
– da ciò, dunque, il rigetto della censura;
– il quarto motivo si duole della violazione dell’art. 53 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 per avere la sentenza impugnata erroneamente mancato di tener conto dei costi necessari per la produzione del maggior reddito accertato che dovevano riconoscersi quantomeno in via forfettaria anche in assenza di documentazione probatoria;
– il motivo è fondato;
– invero, va dato seguito ai principi affermati dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 10 del 31 gennaio 2023;
– la Corte, nell’esaminare la questione della deducibilità dei costi anche a fronte di un accertamento analitico contabile compiuto mediante indagini bancarie, ha considerato come la disposizione del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 32 consente all’Amministrazione finanziaria di avvalersi di una presunzione che, quanto all’equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch’essi, dalla contabilità dell’imprenditore;
– in tali casi, e quindi sia ove il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, sia ove venga utilizzato il metodo di accertamento induttivo cosiddetto “puro”, potrebbe effettivamente violare i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema nel quale fosse consentito alla stessa Amministrazione dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi “occulti”, dai quali sono stati prodotti ricavi “occulti”, pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall’imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta da quest’ultimo;
– detto sistema produrrebbe effetti evidentemente privi di ragionevolezza, poiché applicherebbe un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria da fornirsi da parte del contribuente rispetto alla presunzione legale in esame, proprio a carico di quel contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e nei confronti dei quali l’Ufficio opera con accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso la tenuta regolare della contabilità o ha posto in essere ben più gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi;
– e ancora, l’operare della presunzione in esame, quanto ai prelievi bancari recuperati a reddito d’impresa quali ricavi “occulti”, si porrebbe in contrasto con il principio della capacità contribuiva di cui all’art. 53 Cost. poiché, in mancanza di alcuna deduzione di costi, che risultasse desumibile in via presuntiva, anche con riferimento alle “medie” elaborate dall’Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza nei fatti inesistente laddove, invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza (ex plurimis, si vedano le sentenze della Consulta n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 179 del 1985 e n. 200 del 1976);
– alla luce di tali ragionamenti, la Corte delle Leggi ha quindi indicato come costituzionalmente orientata l’interpretazione secondo la quale in sede di accertamento derivante dalle risultanze delle indagini finanziarie, il contribuente imprenditore “possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati (sentenza n. 225 del 2005)”;
– pertanto, il motivo in oggetto va accolto;
– la sentenza è dunque sul punto cassata con rinvio al giudice dell’appello per nuovo esame del merito nel rispetto dei principi sopra illustrati.
P.Q.M.
Rigetta i primi tre motivi di ricorso; accoglie il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia sez. staccata di Taranto, in diversa composizione, che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità.
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