CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 18644 depositata il 3 luglio 2023

Tributi – Diritto di recesso – Valore azioni – Riduzione capitale sociale – Versamento ritenuta d’acconto – Reddito di capitale – Inammissibilità

Rilevato che

1. R.M. e RU.MA., già soci della (…) s.p.a., ricorrono, con sei motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha accolto l’appello dell’Ufficio avverso la sentenza della C.t.p. di Napoli che, invece, aveva accolto il ricorso dei contribuenti avverso il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di ripetizione della ritenuta subita sulle somme corrisposte dalla società a seguito del loro recesso.

2. In ragione dell’esercizio da parte dei due soci del diritto di recesso, la società, dopo aver determinato il valore delle azioni possedute, in data 31 ottobre 2011, provvedeva al rimborso di quanto loro spettante. Le azioni dei due ricorrenti venivano acquistate in parte da altri soci ed in parte dalla società stessa. In data 28 dicembre 2011 la società deliberava di annullare tutte le azioni proprie detenute in portafoglio provvedendo alla riduzione del capitale sociale ed alla sua ricostituzione gratuita. In ragione di detto annullamento la società richiedeva ai due ex soci, limitatamente alla parte di azioni acquistate dalla stessa e successivamente annullate, la provvista per il versamento della ritenuta d’acconto sulle somme liquidate, ritenendo che il reddito conseguito in ragione del rimborso andasse qualificato come reddito di capitale ai sensi dell’art. 47, commi 5 e 7, tuir.

3. I soci, dopo aver eseguito in via cautelativa il pagamento, chiedevano la restituzione di quanto versato all’Erario con istanza rimasta inevasa e sulla quale si formava il silenzio-rifiuto.

4. La C.t.p. accoglieva il ricorso dei contribuenti. Assumeva che l’annullamento delle azioni proprie ad opera della società non era correlato al recesso dei due soci; che pertanto, quest’ultimo andava qualificato come recesso atipico; che, mentre il corrispettivo derivante da un recesso tipico era assimilabile ai dividendi e, dunque, al reddito di capitale, quello derivante da un recesso atipico era riconducibile ai redditi diversi di cui all’art. 67 tuir.

5. La C.t.r. accoglieva l’appello ritenendo che il corrispettivo fosse stato correttamente tassato quale reddito di capitale. Osservava che non ricorreva la fattispecie del recesso atipico in quanto la società aveva seguito il procedimento di cui all’art. 2437quater c.c., acquistando le azioni non optate dai soci e procedendo alla riduzione del capitale mediante annullamento delle azioni proprie. Escludeva, per l’effetto, che l’annullamento potesse essere considerato, come invece ritenuto dalla C.t.p., “evento ulteriore rispetto al recesso” che, pertanto, era ascrivibile al “recesso tipico”. Aggiungeva che l’art. 27, comma 1 D.P.R. n., applicava l’aliquota del 12,5 per cento sia sugli utili corrisposti ex art. 47, comma 7, tuir., sia su quanto percepito ex art. 67 lett.c) bis tuir. e che i ricorrenti avrebbero potuto soltanto chiedere il diverso computo della base imponibile ai sensi dell’art. 68, comma 6, tuir. detraendo gli oneri inerenti che, tuttavia, avrebbero dovuto quantificare e provare.

6. I ricorrenti in data 27 gennaio 2023 hanno depositato memoria.

Considerato che

1. Con il primo motivo RU.MA. e R.M. denunciano, in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 47, comma 7, 67, comma 1, lett. c-bis, tuir.

Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che quanto ricevuto in conseguenza del recesso fosse tassabile ai sensi dell’art. 47, comma 7, tuir. Assumono che detta disposizione non riguarda tutte le ipotesi di recesso ma solo quelle attuate nelle forme di cui all’art. 2347-quater, comma 7, c.c. (ndr art. 2437-quater, comma 7, c.c.).

2. Con il secondo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2437quater, quinto e comma 6, c.c..

Censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile l’art. 2437 quater, comma 6, c.c. ravvisando un rapporto di strumentalità tra l’annullamento delle azioni ed il recesso dei soci, sebbene la società fosse dotata di riserve disponibili adeguate.

3. Con il terzo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c..

Assumono che la sentenza, nel ricostruire il contenuto della delibera assembleare del 28 dicembre 2011, che aveva disposto la riduzione del capitale mediante annullamento delle azioni proprie e la ricostituzione, avrebbe violato le regole di interpretazione del contratto.

4. Con il quarto motivo denunciano, in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c..

Assumono che la C.t.r. ha ravvisato un rapporto di strumentalità tra l’annullamento delle azioni ed il recesso dei soci in ragione di un elemento privo dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

5. Con il quinto motivo denunciano, in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla non contestualità tra recesso ed annullamento delle azioni e dal fatto che quest’ultimo non aveva interessato solo le azioni oggetto del primo e non aveva determinato una riduzione del capitale sociale, essendo stato contestualmente ricostituito gratuitamente.

6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e/o falsa applicazione del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27, comma 1.

Censurano la sentenza impugnata per aver affermato che l’art. 27, comma 1 D.P.R. cit. prevede la medesima ritenuta del 12,5 a titolo di imposta sia sugli utili corrisposti ex art. 47, comma 7, tuir, sia ai redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lett. c-bis tuir.

7. In via preliminare di rito, attesa l’espressa istanza di cui alla memoria di trattazione in pubblica udienza, va rilevato che il collegio giudicante può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare (Cass., sez. un., 5/06/2018, n. 14437); ugualmente allorquando non si verta in tema di decisioni aventi rilevanza nomofilattica, idonee a rivestire efficacia di precedente, orientando, con motivazione avente anche funzione extra processuale, il successivo percorso della giurisprudenza (Cass., sez. un., 23/04/2020, n. 8093; Cass. 21/01/2022, n. 2047; Cass. 13/01/2021, n. 392; Cass. 20/11/2020, n. 26480). In ogni caso, si è anche affermato che la sede dell’adunanza camerale è compatibile con la trattazione di questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite (Cass. 26/10/2022, n. 31679).

8. Il ricorso è inammissibile per difetto di interesse.

8.1. Preliminarmente, va rigettata l’eccezione sollevata dai ricorrenti in memoria secondo la quale sulla sussistenza dell’interesse ad agire si sarebbe formato il giudicato.

Come riferito dagli stessi contribuenti, nelle controdeduzioni di primo grado, l’Ufficio aveva sostenuto il difetto di interesse dei R. all’azione posto che le somme in questione, se non tassabili quali redditi di capitale, sarebbero state tassabili come redditi diversi. Assumono, tuttavia, che l’Ufficio non avrebbe impugnato il capo della sentenza con cui la C.t.p. aveva rigettato l’eccezione affermando quanto segue: “il collegio non ritiene di doversi pronunciare sulle ragioni, ipotizzate dall’Amministrazione convenuta, che fonderebbero l’interesse concreto dei ricorrenti, ovvero sui riflessi che la qualificazione della fattispecie tributaria comporta con riferimento alla situazione fiscale complessiva del contribuente, posto che ciò che rileva in questa sede è la sola configurabilità dell’interesse ad agire in senso processuale. Per la stessa ragione, non rilevano profili eventuali ulteriori dei rapporti tra il contribuente ed il fisco in merito alle modalità di tassazione dei proventi di cui si tratta”.

Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, l’Ufficio riproponeva espressamente la questione in appello ribadendo, con il secondo motivo, che il reddito conseguito al rimborso delle azioni quale che fosse la sua corretta collocazione – ovvero reddito da capitale o reddito diverso – era comunque soggetto alla ritenuta del 12,5 per cento. La formulazione del secondo motivo rivela l’inequivoca volontà di devolvere al giudice di secondo grado la questione controversa, ovvero se potesse ritenersi sussistente l’interesse ad agire laddove una diversa qualificazione del reddito avrebbe comunque comportato il medesimo prelievo fiscale.

8.2. La pretesa di rimborso si fonda sul presupposto che le somme percepite a seguito del recesso non potevano essere qualificate come reddito di capitale in quanto erano il corrispettivo di una vera e propria cessione a titolo oneroso a favore della società e che detta ultima integrava una fattispecie tipicamente produttiva di un reddito diverso.

I ricorrenti, pertanto, si dolgono della erronea qualificazione del reddito, ma non precisano se ciò abbia comportato una tassazione più onerosa.

8.3. Questa Corte ha chiarito che l’errata o imprecisa indicazione di una categoria reddituale nell’avviso di accertamento non costituisce circostanza di per sé sufficiente a determinare la nullità dell’avviso, atteso che la diversa qualificazione della fonte di produzione della ricchezza non incide sugli elementi costitutivi della pretesa fiscale, e, più in particolare, sugli elementi fattuali rilevanti ai fini dell’individuazione del presupposto impositivo (Cass. 13/05/2011, n. 10585). L’imprecisa qualificazione della categoria reddituale non pregiudica infatti la duplice funzione della motivazione dell’avviso di accertamento, di delimitare l’ambito delle ragioni deducibili dall’Ufficio nell’eventuale fase contenziosa successiva, e di consentire al contribuente l’esercizio giudiziale del diritto di difesa di fronte alla maggiore pretesa fiscale. (Cass. 31/07/2015, n. 16246).

8.4. Il medesimo principio è applicabile nei giudizi di rimborso, laddove non rileva la qualificazione del reddito operata dal sostituto d’imposta in termini di reddito di capitale anziché, come prospettato dai ricorrenti, quale reddito diverso.

Per giurisprudenza consolidata della Corte, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della pretesa (ex multis Cass. 2/07/2014, n. 15026). A tal fine non può ritenersi che l’onere sia assolto in ragione di una diversa qualificazione del reddito imponibile rispetto a quella operata dal sostituto d’imposta in quanto detta qualificazione, ancorché risultasse erronea, non è sufficiente per valutare in termini di indebito l’imposta assolta sul reddito.

8.5. Può affermarsi, pertanto, il seguente principio di diritto: “In tema di rimborso delle imposte sul reddito, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della pretesa. Pertanto, al fine di qualificare come indebito il versamento eseguito dal sostituto d’imposta, non è sufficiente la mera allegazione dell’erronea qualificazione del reddito da parte di quest’ultimo, occorrendo la prova che la corretta qualificazione avrebbe escluso l’imposizione fiscale o comportato un’imposizione fiscale meno gravosa“.

8.6. La C.t.r., dopo aver ribadito che il reddito era da qualificarsi come reddito da capitale, ha, sostanzialmente, evidenziato che i ricorrenti non avevano in alcun modo dimostrato che la diversa qualificazione delle somme percepite (reddito diverso anziché reddito di capitale) avrebbe comportato a loro carico una imposizione fiscale meno gravosa.

Tale statuizione, non solo è conforme ai principi sopra, esposti ma riverbera in termini di difetto di interesse dei ricorrenti.

9. In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

10. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.