Corte di Cassazione, ordinanza n. 20490 depositata il 17 luglio 2023

Accertamento – Giudicato penale – operazioni oggettivamente inesistenti

Rilevato che

L’Agenzia delle entrate notificò alla C. s.r.l., allora in bonis, l’avviso d’accertamento con cui, relativamente all’anno d’imposta 2006, recuperò ad imponibile costi non documentati e costi derivanti da operazioni ritenute inesistenti.

La società impugnò l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Lucca, che ne rigettò le ragioni con sentenza n. 96/02/2013. La pronuncia fu appellata dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana, che con sentenza n. 969/16/2016, ora al vaglio della Corte, rigettò le questioni sulla nullità dell’avviso d’accertamento per mancato rispetto del contraddittorio, respinse le ragioni della contribuente sul recupero a tassazione dei costi non documentati, accolse di contro l’impugnazione con riguardo al recupero ad imponibile dei costi ricondotti ad operazioni qualificate come inesistenti dall’Amministrazione finanziaria. Il giudice regionale, con riferimento alle statuizioni favorevoli alla società, ha ritenuto che l’avviso d’accertamento non fosse supportato da indizi gravi, precisi e concordanti, e ciò sulla base degli elementi indiziari addotti dalla contribuente, innanzitutto le dichiarazioni rese in sede penale dai testi escussi, unitamente agli altri elementi allegati in sede processuale.

L’Agenzia delle entrate ha censurato la sentenza e ne ha chiesto la cassazione, affidandosi a due motivi, cui ha resistito la società in fallimento con controricorso.

Nell’adunanza camerale del 22 novembre 2022 la causa è stata discussa e decisa. La società in fallimento ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.

Considerato che

L’Agenzia delle entrate con il primo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 654 cod. proc. pen., l’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., quanto all’efficacia probatoria che il giudice regionale avrebbe attribuito, secondo la prospettazione difensiva dell’Amministrazione finanziaria, alle testimonianze rese in sede penale nel processo celebrato nei confronti dell’amministratore della società e definito con sentenza di assoluzione;

con il secondo motivo si è doluta della violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dell’art. 19, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 2697, 2727 e segg. cod. civ., degli artt. 2702 e 2704 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., quanto all’efficacia probatoria che il giudice regionale avrebbe attribuito, secondo le prospettazioni difensive dell’Amministrazione finanziaria, alla documentazione che la società aveva allegato al processo.

I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi dalle critiche rivolte alla sentenza impugnata relativamente agli elementi valorizzati per accogliere, sia pur in parte, le ragioni della contribuente, sono fondati.

Dalla lettura della sentenza è dato evincere che la commissione regionale, esaminando il merito dei rilievi elevati dall’Agenzia delle entrate nei confronti della contribuente, con riferimento alla produzione della sentenza penale passata in giudicato, di assoluzione dell’amministratore della società per i medesimi fatti, e della documentazione processuale riconducibile al processo medesimo, ha perimetrato i limiti entro cui la decisione penale irrevocabile di assoluzione possa assumere rilievo nel giudizio tributario, escludendo la sua efficacia di giudicato, ma riconoscendo che il materiale probatorio ivi raccolto possa contribuire, previa una autonoma valutazione del giudice tributario, e unitamente ad altri elementi, alla assunzione della decisione sulla controversia fiscale.

Esaminando dunque il caso specifico, ha ritenuto che quel materiale non era sufficiente a contraddire le prove indiziarie allegate dall’ufficio in ordine al primo rilievo (disconoscimento di costi non documentati), mentre al contrario ha ritenuto che le dichiarazioni testimoniali rese in sede penale, unitamente ad altri elementi indiziari adotti dalla difesa della società, fossero sufficienti a fornire la controprova alle prove indiziarie sul secondo rilievo elevato dall’ufficio (recupero ad imponibile di costi relativi ad operazioni considerate inesistenti). Ha pertanto concluso affermando che le prove indiziarie dell’Amministrazione fossero prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, annullando l’atto impositivo sul punto.

Questa Corte, già con espresso riferimento al “fatto”, ha affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare, ponendola a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio. (Cass., 12 marzo 2007, n. 5820; 22 maggio 2015, n. 10578; 24 novembre 2017, n. 28174; 27 giugno 2019, n. 17258). Ha anche affermato che nel processo tributario le prove raccolte nel giudizio penale definito con sentenza irrevocabile di prescrizione costituiscono fonte di prova che il giudice è tenuto ad esaminare e da cui può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge (cfr. Cass., 9 marzo 2020, n. 6532).

D’altronde, per l’ipotesi di contestazione di operazioni oggettivamente inesistenti, si è affermato che l’Amministrazione finanziaria, che contesti al contribuente l’indebita detrazione dell’iva o dei costi, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo. Peraltro, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229; 14 settembre 2016, n. 18118; 18 ottobre 2021, n. 28628).

Ne discende che la sentenza, anche quando assolutoria per insussistenza del fatto, non solo non fa stato nel processo tributario, semmai costituendo fonte di prova, ma va considerata nell’alveo di una complessiva valutazione, adeguata alle specifiche circostanze e nel confronto con altri elementi di prova acquisiti al giudizio.

Ebbene, nella sentenza ora al vaglio della Corte la commissione regionale non ha fatto corretto uso dei principi di diritto appena illustrati. È certo erroneo, come prospetta la difesa dell’Amministrazione finanziaria, che la commissione abbia attribuito rilevanza alla sentenza penale, riconoscendone efficacia di giudicato nel processo tributario, e non è neppure rispondente al vero che abbia mutuato «automaticamente la rilevanza probatoria di risultanze testimoniali assunte in sede penale».

E tuttavia la motivazione risulta perplessa, perché per un verso sembra compiere una valutazione ponderata delle dichiarazioni di terzi acquisite dal processo penale, ma poi le fonti di prova da questo acquisite non si collocano se non apparentemente in rapporto con altri elementi. O meglio, i cd. altri elementi, per quanto emerge dalla sentenza medesima, non costituiscono indizi autonomi, idonei a rafforzare quanto evincibile dalla sentenza penale, ma acquisiscono autorevolezza solo perché trovano speculare conferma nella sentenza penale. Ma in tal modo il giudice non si avvede che l’elemento indiziario resta sempre lo stesso, visto “doppiamente”.

Così ad esempio, con riguardo alla motivazione dedicata alle operazioni oggettivamente inesistenti, e nello specifico ai pagamenti, quando per un verso si riconosce che la prova rappresentata dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento è inidonea, ma poi si rileva che l’effettività della prestazione fornita dal terzo sarebbe stata confermata in sede penale, in realtà la fonte di prova evincibile in sede penale resta priva di ulteriori riscontri, così da essere di per sé insufficiente.

Ancora più evidente è l’errore in cui incorre il giudice regionale, quando, nel penultimo capoverso della motivazione, sostiene che le risultanze penali sono rafforzate dall’esistenza «dei relativi contratti e dei pagamenti, questi ultimi esposti nel partitario della società e non contestati con prova contraria, rendono l’avviso d’accertamento non dotato sul punto, di quella necessaria gravità, precisione e concordanza richiesta dalla normativa fiscale». Ciò perché il giudice apprezza elementi che, proprio in tema di operazioni oggettivamente inesistenti sono dalla giurisprudenza costantemente esclusi, per essere di regola utilizzati allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia.

I motivi vanno dunque accolti e con essi il ricorso medesimo.

La sentenza va pertanto cassata, nei limiti delle ragioni dell’impugnazione e per quanto favorevole alla contribuente, e rinviata alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Toscana, che in diversa

composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, provvederà a riesaminare le ragioni dell’appello, tenendo conto dei principi di diritto illustrati da questa Corte.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza nei termini di cui in motivazione, e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Toscana, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.