Corte di Cassazione ordinanza n. 22156 depositata il 13 luglio 2022

vizio di omesso esame circa un fatto decisivo – controllo c.d. a tavolino – controllo eseguito presso la sede del contribuente e del controllo c.d. a tavolino non possono essere assimilate – accertamenti bancari ed onere della prova

Rilevato che:

1. C.N. ricorreva, con due motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resisteva con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.t.r. aveva rigettato l’appello del contribuente ed accolto l’appello incidentale dell’Ufficio avverso la sentenza della t.p. di Roma che, a propria volta, aveva parzialmente accolto il ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale, a seguito di indagini bancarie, erano stati recuperati a tassazione, ai fini Irpef, per l’anno di imposta 2005, maggiori redditi di capitale.

2. La C.t.p., esclusa la lesione del diritto al contraddittorio dedotta dal contribuente, accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo una riduzione del reddito imponibile pari al 20 per cento dei versamenti per il quale il medesimo aveva addotto giustificazioni.

3. la C.t.r., disattendendo i motivi di appello, riteneva legittimo l’atto di accertamento, ed illegittima la riduzione forfetaria del reddito operata dalla C.t.p. in misura percentuale. Motivava affermando che l’avviso, sebbene emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni dal rilascio di copia del processo verbale di constatazione, seguiva ad indagini bancarie per le quali non si applicava l’art. 12, comma 7, legge 27 luglio 2000, n. 212; riteneva che, in ogni caso vi era sopravvenuta carenza di interesse in quanto l’Ufficio aveva annullato in autotutela l’avviso di accertamento originario ed emesso ulteriore avviso di accertamento, sicché si era comunque instaurato un contraddittorio. Affermava, altresì, che entrambi gli avvisi di accertamento erano congruamente motivati e che, rispetto ad accertamenti bancari, gravava sul contribuente l’onere di fornire prova contraria. In accoglimento dell’appello incidentale spiegato dall’Ufficio, escludeva la legittimità della riduzione del reddito imponibile disposta con la sentenza di primo grado.

4. Con comparsa del 22 agosto 2018 è intervenuta C.M., nella dichiarata qualità di erede di C.N., nelle more deceduto come da certificazione allegata, che si è riportata alle difese del de cuius. 

5. C.M. ha, altresì, depositato memoria.

Considerato che:

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 12, comma 7, legge 27 luglio 2000 n. 212.

Con l’unico motivo il contribuente propone tre diverse censure, dolendosi della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento nonostante il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni per la notifica e l’omessa redazione del processo verbale e di chiusura delle operazioni di controllo ed, infine, nella parte in cui ha ritenuto sussistente un sopravvenuto difetto di interesse.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, lett. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 2697 cod. civ. per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, attinente alla prova delle giustificazioni delle movimentazioni contestate nei conti correnti   bancari e poste alla base dell’avviso di  accertamento impugnato.

In particolare, assume che la C.t.r. non avrebbe valutato quanto fatto oggetto di deduzione e prova, avendo solo esposto un principio giurisprudenziale.

3. Il primo motivo di ricorso è in parte inammissibile ed in parte infondato. 

3.1 La prima censura è manifestamente infondata.

Va innanzitutto rilevato che dal ricorso e dalla sentenza impugnata, non risulta che l’accertamento controverso sia stato conseguente ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente. E’ pacifico, pertanto, che l’accertamento non è avvenuto a seguito di ispezioni presso luoghi riconducibili al contribuente ma è stato effettuato «a tavolino» presso gli uffici dell’Amministrazione.

A tale proposito questa Corte ha già avuto occasione di affermare che l’applicabilità dei diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali di cui all’articolo 12 legge n. 212 del 2000 postula lo svolgimento di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali del contribuente (ex plurimis Cass. 05/11/2020, n. 24793, Cass. 04/04/2014, n. 7957).

La ragione va ravvisata nel fatto che, in questi casi, lo statuto di diritti e garanzie è di contrappeso all’invasione della sfera del contribuente, nei luoghi di sua pertinenza, dando corpo ad una specifica esigenza di dare spazio al contraddittorio, al fine di conformare ed adeguare l’interesse dell’Amministrazione alla situazione del contribuente.

Le stesse Sezioni Unite, pronunciatesi sulle conseguenze della violazione del termine dilatorio in questione, hanno espressamente correlato il dies a quo di decorrenza del termine medesimo al momento del rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni (Cass. Sez. U, 20/07/2013, n. 18184)

Differente è, invece, l’ipotesi, come nel caso in esame, in cui la pretesa impositiva sia scaturita dal vaglio degli atti sottoposti all’amministrazione dallo stesso contribuente e dall’amministrazione esaminati in ufficio.

Da ciò discende che le ipotesi del controllo eseguito presso la sede del contribuente e del controllo c.d. a tavolino non possono essere assimilate, giacché la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto da imporre termini dilatori all’azione di accertamento che derivi da controlli fatti dall’Amministrazione nella propria sede, in base ai dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente (Cass. 06//06/2016, n. 11539).

3.2 La seconda censura è inammissibile.

Parte ricorrete introduce in sede di legittimità un presunto vizio del procedimento derivante dall’omessa redazione del processo verbale di constatazione. Premesso che, ove il motivo fosse considerato mera argomentazione della censura che precede troverebbe soluzione in quanto già esposto sul punto, va aggiunto che dalla stessa esposizione contenuta ricorso per cassazione dei motivi di impugnazione dell’avviso innanzi alla C.t.p. ed anche dei motivi di appello risulta che la specifica doglianza non era stata dedotto nei gradi di merito.

Va ribadito sul punto che nel giudizio tributario è inammissibile la deduzione di un nuovo motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto il contenzioso tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dai motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo dedotti col ricorso introduttivo, i quali costituiscono la causa petendi entro i cui confini si chiede l’annullamento dell’atto e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. 24/07/2018, n. 19616).

3.3 La terza censura resta assorbita.

La C.t.r., dopo aver motivato sulla inapplicabilità dell’art. 12, comma 7, legge 212 del 2000, ha aggiunto che vi era comunque sopravvenuta carenza di interesse quanto alla dedotta illegittimità del primo avviso perché ammesso ante tempus stante il tempo intercorso tra il verbale del colloquio ed il ritiro a mani del secondo avviso.

Tuttavia, l’eventuale fondatezza di censure riguardanti soltanto una delle argomentazioni poste a fondamento della decisione del giudice del merito, nella specie detta ultima, non potrebbe comunque comportare la Cassazione della sentenza, la quale resterebbe pur sempre fondata sull’altra ragione, a torto censurata ed idonea, da sola, a sorreggerla.

4. Il secondo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

4.1 Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, in caso di accertamenti bancari il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili; di contro, il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione.

Più in dettaglio, all’onere probatorio gravante sul contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell’erario — che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729, cod. civ., per le presunzioni semplici — di fornire, non una prova generica, ma una prova analitica, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili) corrisponde l’obbligo del giudice di merito, da un lato, di operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, e, dall’altro, di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica. (Cass. 30/06/2020 n. 13112, Cass. 03/05/2018, n. 10480).

4.2 La C.t.r., ha fatto corretta applicazione di detti principi rilevando che gli avvisi di accertamento contenevano dettagliata esposizione dei movimenti bancari non giustificati e che il contribuente, nemmeno in appello, aveva esposto con chiarezza né gli estremi dei singoli redditi non suscettibili di legittima ripresa fiscale né le ragioni in fatto ed in diritto deponenti per escludere la legittimità dell’accertamento.

4.3 Il motivo è, viceversa, inammissibile nella parte in cui si denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod proc. civ. l’omessa valutazione di quanto dedotto con riferimento ai singoli versamenti contestati dall’ufficio.

In primo luogo il contribuente non ha indicato in ricorso, per le parti rilevanti, gli scritti difensivi dei gradi di merito, né ha fatto alcuno specifico richiamo ai medesimi, onde permettere a questa Corte di valutare, sulla base degli atti, la fondatezza della censura proposta con riferimento alle giustificazioni rese per ciascuna delle operazioni sottese all’accertamento. Invero, nemmeno si dice in ricorso se e come il giudice d’appello sia stato investito, in modo specifico delle questioni prospettate con riferimento a ciascuno dei versamenti di cui si contesta l’omesso esame.

In secondo luogo, questa Corte ha chiarito che, per potersi configurare il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo, occorre dimostrare che la sua assenza avrebbe condotto a diversa decisione con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data.     Viceversa, resta preclusa,  in sede di legittimità un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Il vizio, pertanto, non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto   al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (tra le tante Cass. 03/10/2018, n. 24305). Nella specie, il vizio è dedotto con riferimento ad una serie di operazioni bancarie per le quali si sollecita una diversa valutazione, preclusa in sede di legittimità. Per di più, il ricorrente si limita ad elencarle in ricorso, senza illustrare, ai fini della loro decisività, in qual modo avrebbero dovuto portare ad una diversa determinazione del reddito.

5. Il ricorso va, pertanto, complessivamente rigettato.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.100,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.