Corte di Cassazione ordinanza n. 23340 depositata il 26 luglio 2022
studi di settore – contraddittorio – onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto – ipotesi di «doppia conforme»
Rilevato che:
1. Giovanna Rosaria Morro ricorre, con due motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.t.r. ha confermato la sentenza della C.t.p. di Milano che aveva accolto solo parzialmente il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento con il quale, con riferimento all’anno di imposta 2005, erano stati recuperati a tassazione maggiori redditi derivanti dall’esercizio della professione di avvocato, accertati in base all’applicazione di studi di settore.
2. L’Ufficio, accertava, ai sensi dell’art. 39, comma 1, d) d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 54 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, un maggior reddito, derivante da maggiori compensi percepiti per l’attività professionale di avvocato esercitata dalla contribuente che quantificava, stante le giustificazioni addotte da quest’ultima, nella misura minima prevista dagli studi di settore riferiti alla categoria professionale di appartenenza; per l’effetto rideterminava le imposte dovute.
3. la C.t.p., in parziale accoglimento del ricorso, riquantificava in misura favorevole ala contribuente, rispetto all’accertamento, i maggiori compensi percepiti e mandava all’Ufficio la quantificazione degli importi da versare.
4. La C.t.r. rigettava l’appello della contribuente. In particolare, riteneva legittima l’applicazione degli studi di settore e inidonee le argomentazioni addotte a giustificarne la disapplicazione e corretta la determinazione del maggior reddito.
5. L’Avvocatura erariale ha depositato per l’Agenzia delle Entrate «atto di costituzione» ai soli fini della eventuale partecipazione all’udienza ex art. 370, primo comma, cod. proc. civ.
6. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 P.R. 29 settembre 1973, n. 600, degli artt. 62-bis e 62- sexies d.l 30 agosto 1993, n. 331, dell’art. 2727 cod. civ., dell’art. 10 legge 8 maggio 1998, n. 146.
In particolare, censura la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciarsi su quanto rilevato in appello in merito alla contraddittorietà della sentenza di prima grado nella parte in cui aveva recepito le proprie ragioni – addotte a sostegno dello scostamento del reddito da quello presunto secondo gli studi di settore – e, ciononostante, aveva ritenuto di fare comunque applicazione di detti ultimi. Censura, altresì, la sentenza impugnata per aver ritenuto provato il dato dei quattrocentotrenta incarichi indicati dall’Ufficio, sebbene fosse stata fornita prova che questi ultimi erano solo centoventitrè.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, 5 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 in ordine alla quantificazione del maggior reddito, rispetto a quanto dichiarato, come effettuata dalla C.t.p.
Assume, in proposito, che la quantificazione dei maggiori compensi di cui alla sentenza di primo grado era incomprensibile, illogica ed immotivata e che i giudici di appello, investiti della questione, ne avevano fornito un’interpretazione anch’essa contraddittoria.
3. Il primo motivo è infondato.
3.1 Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, la procedura di accertamento tributario standardizzato, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, si fonda su un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati — meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività — ma nasce solo in esito al contraddittorio, da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
In sede di contraddittorio il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino la sua esclusione dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame; di contro, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con l’esplicazione delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare sia l’applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, sia la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche nel caso in cui non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa. In tale ultima evenienza, tuttavia, egli assume le conseguenze del suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standard, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass., sez. U, 18/12/2009, n. 26635; Cass. 21/12/2021, n. 40936, Cass. 9/01/2019, n. 379; Cass. 17/07/2018, n. 18907, Cass. 13/07/2017, n. 17289, Cass. 19/04/2017, n. 9806, Cass. 8/09/2016, n. 17787, Cass. 14/12/2012, n. 23070, Cass. 18/07/2012, n. 12428, Cass. 21/05/2010, n. 12558).
3.2 E’ stato ulteriormente specificato che, ex 62-sexies, comma 3, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 gli accertamenti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e art. 54 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis d.l. n. 331 del 1993; in questo ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente (Cass. n. 40936 del 2021 cit., Cass. 27/07/2011, n. 16430).
3.3 Si è anche precisato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario, che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 P.R. n. 600 del 1973, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello standard, né costituisce una valida prova contraria, laddove, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata (Cass., sez. U, n. 26635 del 2009, cit.; Cass. n. 379 del 2019, cit.).
3.4 La C.t.r. ha fatto corretta applicazione di questi principi. In motivazione, infatti, ha precisato che la contribuente, sia nel contraddittorio con l’Amministrazione, sia in giudizio, aveva apportato solo generiche considerazioni, inidonee a contrastare l’applicazione degli studi di settore. Di seguito, ha evidenziato che le circostanze dedotte e provate erano state già valutate, prima dall’Ufficio e poi dalla C.t.p., ed avevano portato ad una riduzione del reddito originariamente accertato. Infine, dopo aver precisato che le spese che la contribuente aveva allegato di aver sopportato per dipendenti e collaboratori erano state integralmente riconosciute, ha evidenziato l’incongruenza di queste ultime con i ricavi dichiarati. Ha concluso, pertanto, per l’inattendibilità dei dati forniti.
Secondo l’assunto della ricorrente la C.t.r. sarebbe caduta in errore in quanto le circostanze allegate erano state illogicamente ed irrazionalmente valutate dall’Ufficio rideterminando il reddito nella misura minima di cui allo studio di settore, mentre, invece, avrebbero dovuto indurre a disapplicare detto ultimo.
Va ribadito, tuttavia, in ragione dei principi sopra espressi, che per paralizzare l’utilizzabilità degli studi di settore non è sufficiente la sola allegazione di circostanze idonee in astratto a contrastare la presunzione di maggior reddito, con conseguente onere sull’amministrazione di giustificare l’affermazione contraria, in quanto tale assunto non risponde ad una corretta lettura delle norme e si discosta dal suddetto principio.
Al contrario, nel riparto degli oneri, al contribuente è assegnato quello non solo di allegare ma anche di provare – ancorché senza limitazioni di mezzi e di contenuto – la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore incombe l’onere della dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (Cass., sez. 5, 20/02/2015, n. 3415).
La C.t.r. ha ribadito e congruamente motivato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione degli studi di settore, né la ricorrente può dolersi della circostanza che la C.t.p. abbia, di fatto, rideterminato il reddito in misura inferiore ai minimi – già riconosciuti dall’Ufficio – presi in considerazione da detti ultimi.
3.5 Anche la seconda censura di cui al primo motivo – con la quale la contribuente critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha considerato provato il dato dei quattrocentotrenta clienti, pari a quello degli studi di settore, sebbene fosse stato provato che i medesimi erano solo cento ventitré – è infondata.
La C.t.r. ha valorizzato che il dato dei quattrocentotrenta clienti era stato indicato dalla stessa contribuente che, in sede di contraddittorio non lo aveva mai contestato; che l’unica censura mossa era che il dato era stato inserito nell’ultimo verbale ma che la medesima era priva di rilievo in quanto il verbale era stato regolarmente sottoscritto. Ha aggiunto, infine, che il registro informale prodotto dalla cliente era privo di valenza probatoria.
Con tale motivazione la C.t.r. ha fatto corretta applicazione dei principi sopra espressi in quanto ha ritenuto, valorizzando per altro il comportamento contraddittorio tenuto dal contribuente, che la stessa non avesse fornito elementi sufficienti per discostarsi dal parametro previsto nello studio di settore applicato.
4. Il secondo motivo di ricorso, declinato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., è inammissibile.
4.1 Poichè la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 18/05/2015, trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione novellata dal comma 1, lett. b), dell’art. 54, del l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134, che si applica in relazione alle sentenze d’appello pubblicate dall’11/09/2012, donde l’inammissibilità delle censure prospettate secondo la precedente disciplina del vizio di motivazione.
4.2 La Corte, a sezioni unite, (Cass. U. 07/04/2014, n. 8053), ha chiarito che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività (tra le tante, Cass. 13/06/2022 n. 19049).
Il motivo in esame difetta dell’indicazione di tali elementi.
4.3 Questa Corte, inoltre, ha anche di recente chiarito (cfr. Cass. 13/01/2017, n. 743; 14/12/2018, n. 32436; 14/12/2018, n. 32437) che nell’ipotesi di «doppia conforme», prevista dall’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.» (Cass. 22/12/2016, n. 26774; in senso conforme: Cass. Sez. U. 21/09/2018, n. 22430).
Nella specie, posto che il giudizio d’appello è iniziato nel 2015, la doglianza è inammissibile poiché le decisioni dei gradi di merito, entrambe di rigetto (c.d. doppia conforme), si fondano sulle medesime ragioni di fatto e, del resto, parte ricorrente non ha nemmeno sostenuto il contrario. La sentenza di secondo grado, infatti, non ha fatto altro che esplicitare, per altro in maniera congrua e logica, il percorso motivazionale seguito dalla sentenza di primo grado per giungere, dai maggiori compensi accertati, rispetto a quelli dichiarati alla determinazione del maggiori reddito.
5. In conclusione il ricorso va complessivamente rigettato.
6. Non si deve statuire sulle spese del giudizio di legittimità perché l’Agenzia non ha svolto difese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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