CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 2456 depositata il 25 gennaio 2024
Tributi – Avviso di liquidazione imposta di registro – Contratto di fornitura d’opera – Decreto ingiuntivo – Rigetto
Fatti di causa
Con la suindicata sentenza la Commissione tributaria regionale della Campania – Sezione staccata di Salerno, ha respinto l’appello di A. s.p.a. così confermando la decisione di prime cure che aveva disatteso l’impugnazione della contribuente dell’avviso di liquidazione della imposta di registro chiesta in relazione alla registrazione di un decreto ingiuntivo del Giudice di Pace di Nocera Inferiore, con riferimento anche alle disposizioni negoziali ivi enunciate, riferendosi la pretesa azionata dalla società ad un contratto di fornitura d’opera soggetto a registrazione in caso d’uso, ai sensi dell’art. 22, d.P.R. n. 131 del 1986.
Il giudice del gravame ha rilevato che “l’atto impositivo in questione appare bastevolmente motivato e del tutto intellegibile in ordine agli elementi di fatto e di diritto sottesi all’azionata pretesa tributaria” ed ha escluso, alla luce dell’art. 22, d.P.R. n. 131 del 1986, l’ipotesi di duplicazione dell’imposta di registro atteso che “l’imposizione riguarda un atto enunciante quale il decreto ingiuntivo e un atto enunciato quale il contratto di fornitura d’opera prodotto nel relativo procedimento sommario”.
La società A. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
Col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 36, D:Lgs. n. 546 del 1992, assumendo la nullità della sentenza dalla CTR per omessa pronunzia sulla censura di illegittimità dell’avviso di liquidazione per difetto di motivazione, nonostante l’appello avesse investito con specifica censura, sul punto, la decisione di primo grado.
La censura va disattesa alla luce del principio per cui non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione (di merito) sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 cod. proc. civ.), bensì come violazione di legge o difetto di motivazione, ove lamenti l’adozione di una soluzione non giuridicamente corretta o senza adeguata giustificazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione. (Cass. n. 12131/2023; n. 29953/2020).
La sentenza della CTR, infatti, dopo aver dato atto dell’eccezione di difetto motivazionale dell’avviso impugnato, ribadita anche nelle “memorie illustrative” depositate il 19/10/2018 dall’allora appellante A. s.p.a., ha ritenuto di superare, ancorché in mancanza di una espressa statuizione, tale profilo impugnatorio, concernete la validità formale dell’atto impositivo, con una decisione perfettamente in linea, sul punto, con quella del giudice di prime cure, per procedere poi all’esame, nel merito, delle ulteriori questioni oggetto di controversia, per cui non difetta una statuizione sul punto.
Col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., denuncia violazione degli artt. 7, comma 1, L. 212 del 2000, 52, comma 2-bis, d.P.R. n. 131 del 1986, assumendo che anche ove si ritenesse, al riguardo, un implicito rigetto della censura, la sentenza di secondo grado sarebbe ugualmente errata in quanto l’obbligo di motivazione mira a garantire al contribuente il pieno esercizio delle sue facoltà difensive e, nel caso di specie, l’Ufficio ha determinato l’imposta di registro, in misura fissa, oltre che sull’atto giudiziario anche su un non meglio definito ed individuato diverso rapporto negoziale e/o semplicemente di fatto sottostante da cui aveva tratto origine il decreto ingiuntivo tassato.
La censura è inammissibile prima che infondata.
Come più volte affermato da questa Corte, “in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 cod. proc. civ., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso“. (Cass. n. 3829/2023; n. 382/2022; n. 28570/2019; n. 16147/2017).
La contribuente si limita a dedurre che per individuare la pretesa relativa all’imposta di registro relativa al provvedimento giudiziario non basta riportare data, numero e giudice emittente, essendone necessaria l’allegazione o quantomeno la trascrizione, richiamando un dissonate orientamento di legittimità (Cass. n. 29491/2018; n. 29402/2017), superato dalle più recenti pronunce dalla Corte (Cass. n. 9344/2021; n. 30084/2021; 26340/2021; n. 11283/2022; n. 34723/2022 ed altre).
Va, in ogni caso, richiamato il principio secondo cui “in tema di imposta di registro, l’avviso di liquidazione emesso ex art. 54, comma 5, del d.P.R. n. 131 del 1986 in relazione a un atto giudiziario deve contenere l’indicazione dell’imponibile, l’aliquota applicata e l’imposta liquidata, ma non deve necessariamente recare, in allegato, la sentenza o il suo contenuto essenziale rispondendo l’obbligo di motivazione di cui all’art. 7 St. contr. all’esigenza di garantire il pieno e immediato esercizio delle facoltà difensive del contribuente, senza costringerlo ad attività di ricerca, e non riguardando perciò atti o documenti da lui conosciuti o conoscibili, sempre che il contenuto delle informazioni fornite garantisca la conoscenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa fiscale e si tratti di informazioni facilmente intellegibili“. (Cass. n. 239/2021; v. anche Cass. n. 1696/2020, in riferimento alla tassazione di un decreto ingiuntivo).
L’accertamento della adeguatezza della motivazione dell’avviso di accertamento non dipende soltanto dagli elementi in esso esposti, ma anche da quelli contenuti nel richiamato provvedimento dell’Autorità giudiziaria tassato (art. 37, d.P.R. n. 131 del 1986), in quanto destinanti ad integrarsi reciprocamente, ai fini qui considerati, anche se il provvedimento non risulti materialmente allegato, in quanto atto conosciuto o conoscibile dal contribuente.
Ed allora, nel caso in esame, assume rilievo decisivo la circostanza che il contenuto delle informazioni fornite alla società contribuente risultano idonee a garantire la conoscenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa fiscale, circostanza riscontrata dall’analiticità delle contestazioni svolte dalla società A., trattandosi, peraltro, di informazioni agevolmente intellegibili attesa l’assenza di complessità delle statuizioni contenute nel decreto monitorio del Giudice di Pace di Nocera Inferiore la cui tassabilità va posta in relazione agli effetti giuridici prodotti dal provvedimento, ai quali occorre fare riferimento per determinare il valore economico da tassare (base imponibile) e la misura percentuale di incidenza del tributo (aliquota), elementi tutti che confluiscono nella operazione, meramente matematica, di liquidazione dell’imposta di registro richiesta dall’Ufficio è identificata dal “codice tributo”.
Col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., denuncia violazione degli artt. 22 e 40, d.P.R. n. 131 del 1986, assumendo che non è corretto applicare la tassazione ex art. 22 d.P.R. n. 131 del 1986, secondo una interpretazione per cui la semplice enunciazione di un atto lo assoggetterebbe all’imposta di registro ex art. 37, d.P.R. n. 131 del 1986 (che prevede l’assoggettamento all’imposta degli atti dell’autorità giudiziaria di controversie civili che definiscono anche parzialmente il giudizio), perché la tassazione di altro, rispetto all’atto giudiziario, nella specie, il decreto ingiuntivo, rappresenta una illecita duplicazione d’imposta, atteso il principio di alter natività tra IVA e imposta di registro.
La censura va disattesa per le ragioni di seguito esposte.
Nella esaminata fattispecie viene in rilievo l’art. 22, d.P.R. n. 131 del 1986, il quale stabilisce che: “1. Se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene la enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate. Se l’atto enunciato era soggetto a registrazione in termine fisso è dovuta anche la pena pecuniaria di cui all’art. 69.
L’enunciazione di contratti verbali non soggetti a registrazione in termine fisso non da luogo all’applicazione dell’imposta quando gli effetti delle disposizioni enunciate sono già cessati o cessano in virtù dell’atto che contiene l’enunciazione. 3. Se l’enunciazione di un atto non soggetto a registrazione in termine fisso è contenuta in uno degli atti dell’autorità giudiziaria indicati nell’art. 37, l’imposta si applica sulla parte dell’atto enunciato non ancora eseguita”.
L’art. 22 del TUR pone il principio in forza del quale, ricorrendo certi presupposti, ed anche nel caso in cui l’atto enunciante promani dall’Autorità giudiziaria, la registrazione dell’atto enunciante (cosiddetta “tassa di sentenza”), comporta la tassazione dell’atto enunciato (cosiddetta “tassa di titolo”).
In altri termini, il prelievo fiscale sulla condanna contenuta nel titolo esecutivo ottenuto dalla parte creditrice per il soddisfacimento del proprio diritto non esclude la tassabilità dell’atto enunciato (da riferire, nella specie, al contratto di fornitura d’opera), ove esso di per sé integri atto da registrare (Cass. n. 5946/2007; n. 11756/2008; n. 22243/2015; n. 3232516/2019).
La debenza della prima imposizione (“tassa di sentenza”) non è oggetto di controversia tra le parti.
Quanto alla seconda imposizione (“tassa di titolo”), il deposito di una scrittura privata nella cancelleria del giudice civile in sede di procedimento contenzioso, certamente non integra il “caso d’uso”, presupponendo l’art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986 che il deposito dell’atto debba avvenire presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative.
Nel caso, che qui ricorre, di enunciazione di un documento in un atto giudiziario, nell’ambito dell’attività processuale contenziosa e le Sezioni Unite della Corte, con la sentenza n. 7682/2023, hanno chiarito che “il deposito della scrittura privata di cui si discute, prodotta nella cancelleria del giudice civile in sede di procedimento certamente non può integrare “caso d’uso”, presupponendo l’art. 6 TUR che il deposito dell’atto debba avvenire presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative“.
La via, dunque, per giustificare la tassazione dell’atto soggetto ad obbligo di registrazione in “caso d’uso”, laddove l’enunciazione di esso sia contenuta in un atto a propria volta soggetto a registrazione, non può che essere diversa.
Occorre muovere dall’individuazione della esatta portata precettiva del primo comma dell’art. 22 del d.P.R. citato, dovendosi stabilire se il legislatore specificando, nella parte finale del primo comma, che “se l’atto enunciato era soggetto a registrazione in termine fisso è dovuta anche la pena pecuniaria di cui al d.P.R. n. 131 del 1986, art. 69”, abbia inteso o meno riferirsi a tutti gli atti soggetti a registrazione (art. 1, d.P.R. n. 131 del 1986: “L’imposta di registro si applica, nella misura indicata nella tariffa allegata al presente testo unico, agli atti soggetti a registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registrazione”), compresi quelli in “caso d’uso”.
Secondo questa Corte (n. 5946/2007) al quesito va data riposta positiva e “poiché la enunciazione di tali ultimi atti non configura, ai sensi dello stesso d.P.R. n. 131 del 1986, art. 6, come innanzi rilevato, un “uso”, deve concludersi per l’assoggettamento di tali atti all’imposta a prescindere dall’uso (art. 6, d.P.R. n. 131 del 1986, ex d.P.R. cit.) dei medesimi e sulla base della sola enunciazione. In caso contrario, ha osservato la Corte nella richiamata sentenza, sarebbe da considerare inutiliter data la specificazione che assoggetta a pena pecuniaria solo gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, in quanto, non concretando l’enunciazione un “uso”, sarebbero stati imponibili solo gli atti soggetti a registrazione a termine fisso enunciati nell’atto registrato e quindi sarebbe stato superfluo specificare che solo per tali atti e dovuta oltre all’imposta anche la pena pecuniaria”.
Detto orientamento ha trovato conferma nella successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in relazione a varie fattispecie di atti enunciati, per cui può dirsi consolidata l’interpretazione secondo cui l’art. 22, comma primo, del d.P.R. n. 131 del 1986 stabilisce che se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene l’enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate (v. Cass. n. 32516/2019; n. 18454/2016; n. 22243/2015; n. 4096/2012).
Rientrano, dunque, nell’espressione “atti scritti o contratti verbali non registrati” gli atti (non ancora) registrati, perché da registrare solo in “caso d’uso”, laddove siano oggetto di enunciazione in altro atto registrato.
L’art. 5, primo comma, d.P.R. n. 131 del 1986, infatti, recita: “Sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti indicati nella parte prima della tariffa e in caso d’uso quelli indicati nella parte seconda”.
L’art. 5, secondo comma, d.P.R. n. 131 del 1986 stabilisce, poi, che “le scritture private non autenticate sono soggette a registrazione in caso d’uso se tutte le disposizioni in esse contemplate sono relative ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto” e, ai sensi dell’art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972, si considerano operazioni imponibili ai fini IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nei confronti di qualunque soggetto, nell’esercizio di arti e professioni.
Da tali disposizioni emerge che le operazioni relative ad atti soggetti all’imposta sul valore aggiunto scontano l’imposta di registro in misura fissa.
Va, altresì, osservato che il principio di alter natività tra le due imposte non è condizionato, né subordinato all’effettiva applicazione dell’IVA sull’operazione considerata, ma è sufficiente che essa rientri tra le operazioni rilevanti ai fini IVA per cui restano assoggettate all’imposta di registro (in misura proporzionale) solo le operazioni non soggette a IVA (c.d. escluse) per carenza del requisito oggettivo (artt. 2 e 3) e di quello soggettivo (artt. 4 e 5) previsti dal d.P.R. n. 633 del 1972.
Si verte, nella fattispecie per cui è causa, nell’ambito delle ipotesi di condanna al pagamento di somme che possono essere ricondotte alla nozione di pagamento di corrispettivi o prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto ai sensi del suindicato art. 40 cit. e della nota II dell’art. 8, comma 1, lett. b), Tariffa allegata al d.P.R. citato, la quale stabilisce che “Gli atti di cui al comma 1, lettera b), e al comma 1-bis non sono soggetti all’imposta proporzionale per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 40 del Testo unico”.
Giova, infine, segnalare che la sentenza n. 23379/2021 della Corte, in tema di decreto ingiuntivo emesso sulla base di un contratto di prestazione d’opera professionale concluso verbalmente, ha opportunamente posto in evidenza che neppure “può ritenersi che il decreto ingiuntivo abbia determinato la cessazione degli affetti del contratto verbale in esso enunciato: la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 22 TUR si riferisce ai casi di novazione oggettiva, ma non ai casi in cui il contribuente abbia ottenuto un provvedimento giurisdizionale a tutela di un diritto nascente da un contratto. Tale ultima conclusione è anch’essa confermata dal terzo comma dell’art. 22 TUR, dal quale si evince che se il contratto enunciato in uno degli atti dell’autorità giudiziaria e totalmente ineseguito, l’imposta su di esso (sull’atto enunciato) è dovuta per l’intero valore della prestazione ineseguita“.
Col quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., denuncia violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., assumendo che l’Ufficio ha proceduto a tassare il presunto atto enunciato in maniera indiscriminata e senza neanche conoscerlo e che il giudice tributario ha ritenuto corretta l’applicazione dell’art. 22, d.P.R. n. 131 del 1986, senza fornire alcuna indicazione circa l’atto enunciato, in tal modo violando il principio dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.) a carico dell’Ufficio circa la sussistenza di un contratto da tassare. Con riguardo a tale ultima censura, giova osservare che la dedotta violazione del principio secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, avendo la contribuente rimarcato l’assenza di prova dell’atto enunciato soggetto a tassazione, per mancata allegazione all’avviso impugnato o deposito dello stesso in corso di giudizio, non sussiste.
La ricorrente pretende la salvezza da tassazione dell’atto enunciato, sostenendo l’insufficienza del riferimento all’oggetto del contratto enunciato ed alla base imponibile, avuto riguardo al contenuto della fattura emessa da A. s.p.a. nei confronti dell’ingiunto cliente inadempiente, circostanza dalla quale può solo dedursi – in tesi – l’esistenza tra le parti di un generico rapporto contrattuale.
La prospettata mancanza di prova dell’esistenza dell’atto enunciato nel decreto ingiuntivo, tuttavia, è contraddetta dagli elementi (le parti, il tempo, il luogo) su cui si fonda la pretesa creditoria azionata dalla stessa società contribuente con il ricorso in monitorio che da conto di un sottostante contratto di fornitura d’opera intercorso con un cliente, atteso che il fatto generatore dell’imposta di cui si discute è l’effettuazione della prestazione dei servizi, dalla quale sorge tanto l’obbligazione tributaria, quanto l’obbligo di emettere fattura (Cass. n. 9064/2021).
Non si addice, quindi, al caso in esame il riferimento alla diversa ipotesi (Cass. n. 28559/2019) “in cui nell’atto soggetto a registrazione siano menzionate circostanze dalle quali possa solo dedursi che esiste tra le parti il rapporto giuridico non denunciato”, potendo, viceversa, affermarsi che le circostanze enunciate sono idonee di per sé stesse, senza necessita di ricorrere ad elementi non contenuti nell’atto, a dare certezza di quel rapporto giuridico e che la ricorrente per cassazione non sembra abbia inteso far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. non emergendo la denuncia di un errore di diritto o, comunque, di un vizio di ragionamento nell’interpretazione di un contratto.
Sulla scorta di quanto sin qui illustrato, il ricorso va, dunque, integralmente respinto, con ogni conseguenza in ordine alle spese processuali che sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 650,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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