CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 25696 depositata il 4 settembre 2023
Lavoro – Pubblico impiego privatizzato – Pagamento di compenso incentivante – Contratto di lavoro a tempo determinato – Settore lavori pubblici – Articolo 18 della Legge n. 109/1994 – Incarichi di progettazione conferiti ai lavoratori autonomi – Impegno di spesa – Diritto alla retribuzione aggiuntiva per lavoro straordinario – Accoglimento
Fatti di causa
Il ricorrente venne assunto dal Comune di (…) con contratto di lavoro a tempo determinato e inquadrato nel settore lavori pubblici. All’esito del rapporto, si rivolse al Tribunale di Sciacca per chiedere la condanna dell’ente pubblico al pagamento dell’importo capitale di € 182.993,28 a titolo di compenso incentivante ai sensi dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 maturato su incarichi di progettazione e di Responsabile Unico del Procedimento (RUP) ricevuti ed espletati in costanza di rapporto di lavoro.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Sciacca accolse quasi integralmente la domanda, condannando il Comune al pagamento dell’importo capitale di € 180.080,42.
L’ente pubblico impugnò la sentenza davanti alla Corte d’Appello di Palermo, la quale, accogliendo parzialmente il gravame principale e accogliendo l’appello incidentale del lavoratore, ridusse la condanna all’importo capitale di € 129.949,52, in particolare – per quanto qui ancora di interesse – negando il diritto dell’attuale ricorrente al pagamento del compenso incentivante maturato per le prestazioni riferite ad opere prive di copertura finanziaria.
Contro tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Il Comune si è difeso con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380-bis.1 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli artt. 16, 17 e 18 legge n. 109 del 1994 e s.m.i. – violazione dell’art. 9 del regolamento comunale per la ripartizione e la erogazione degli incentivi di progettazione di cui all’art. 18, comma 1, della legge n. 109 del 1994 (recepito in Sicilia, unitamente all’art. 17, dall’art. 26 legge reg. n. 22 del 1996 e dall’art. 3 legge reg. n. 23 del 1998)». Si duole del fatto che la corte territoriale abbia ritenuto inapplicabile l’art. 17, comma 2-bis, della legge n. 109 del 1994 agli incarichi di progettazione conferiti ai lavoratori dipendenti della stessa amministrazione appaltante e non dovuto il compenso incentivante di cui all’art. 18 della medesima legge in mancanza di finanziamento dell’opera progettata.
1.1. Il motivo è infondato, nei termini di seguito esposti.
1.1.1. L’art. 17, comma 12-bis, della legge n. 109 del 1994 dispone che «Le stazioni appaltanti non possono subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata …».
Secondo il ricorrente, tale disposizione vieta alla pubblica amministrazione di negare ai propri dipendenti il compenso incentivante per il solo fatto che l’opera cui si riferisce l’attività professionale aggiuntiva non ha copertura finanziaria. La corte d’appello ha invece ritenuto che il comma 12-bis si applichi solo ai contratti con professionisti esterni e non riguardi le prestazioni rese «dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti» (comma 1, lett. a, del medesimo art. 17 della legge n. 109 del 1994).
1.1.2. A bene vedere, l’art. 17, comma 12-bis, della legge n. 109 del 1994 non è pertinente al caso di specie, dato che il Comune di (…) non si avvale di una propria delibera o di una clausola contrattuale che preveda di «subordinare la corresponsione dei compensi … all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata».
1.1.3. Ciò premesso, è comunque corretta l’affermazione della corte d’appello secondo cui il comma 12-bis non riguarda gli incarichi interni, ma soltanto gli incarichi conferiti ai professionisti lavoratori autonomi, esterni agli uffici delle amministrazioni appaltanti.
Lo si desume dal seguito della disposizione, in forza del quale: «Nella convenzione stipulata fra stazione appaltante e progettista incaricato sono previste le condizioni e le modalità per il pagamento dei corrispettivi con riferimento a quanto previsto dagli articoli 9 e 10 della legge 2 marzo 1949, n. 143, e successive modificazioni. Ai fini dell’individuazione dell’importo stimato il conteggio deve ricomprendere tutti i servizi, ivi compresa la direzione dei lavori qualora si intenda affidarla allo stesso progettista esterno».
Si fa riferimento a una «convenzione» (e, quindi, non a un semplice incarico conferito a un proprio ufficio o dipendente), la quale deve stabilire «le condizioni e le modalità per il pagamento dei corrispettivi» (mentre le condizioni e le modalità per il pagamento del compenso incentivante sono dettate dal successivo art. 18 e, per delega in esso contenuta, dalla contrattazione collettiva decentrata e da un «regolamento adottato dall’amministrazione»).
1.1.4. È dunque proprio sull’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 (come vigente all’epoca dei fatti) che si deve spostare l’attenzione, per verificare se esso giustifichi l’affermazione della corte territoriale secondo cui il diritto al compenso incentivante sarebbe sottoposto ex lege alla condizione del finanziamento dell’opera cui si riferiscono le prestazioni professionali del dipendente della pubblica amministrazione.
Parte ricorrente osserva che «L’art. 18 … non pone espressamente la suddetta condizione» e rileva che il legislatore ha inteso privilegiare la progettazione interna, obiettivo col quale sarebbe in contrasto l’interpretazione penalizzante fatta propria nella sentenza impugnata.
La censura non coglie nel segno. La corte d’appello ha correttamente motivato che il citato art. 18 prevede la ripartizione tra i professionisti interni coinvolti nelle prestazioni professionali di «Una somma non superiore all’1,5 per cento dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all’articolo 16, comma 7, …».
Il richiamato art. 16, comma 7, dispone che «Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi … fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle amministrazioni aggiudicatrici, nonché degli altri enti aggiudicatori o realizzatori».
Dal combinato disposto delle due disposizioni emerge che il compenso incentivante consiste nella ripartizione tra i dipendenti coinvolti nell’attività professionale di «una somma» che rappresenta una quota (non superiore al 1,5%) degli «stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori». Pertanto, la stessa connotazione normativa del compenso incentivante implica necessariamente il presupposto del finanziamento dell’opera cui si riferiscono le prestazioni professionali. Senza finanziamento dell’opera non esiste, infatti, la somma che deve essere ripartita tra i dipendenti «con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall’amministrazione».
Nella presente controversia non viene in rilievo l’obbligo della pubblica amministrazione di adottare un regolamento per recepire le previsioni della contrattazione collettiva decentrata su modalità e criteri di ripartizione dell’incentivo (v. Cass. nn. 13937/2017, 3779/2012, 13384/2004), obbligo che il Comune di (…) ha pacificamente assolto. Né si discute «sulla natura del procedimento di liquidazione e sugli effetti, quanto all’azionabilità del diritto, della mancata conclusione del procedimento stesso» (v. Cass. n. 10222/2020). La questione riguarda invece, a monte, il presupposto dell’esistenza stessa del diritto al compenso incentivante, desunto dalla connotazione che la legge dà a quel compenso.
È pertanto ovvio che la soluzione del caso non si può trovare nel regolamento comunale, che non costituisce la fonte del diritto al compenso incentivante, essendo soltanto delegato a stabilire la misura esatta dalla somma da destinare al pagamento del compenso («non superiore all’1,5 per cento … a valere direttamente sugli stanziamenti») e a dettare i criteri, recependoli dalla contrattazione collettiva, per la ripartizione tra gli aventi diritto, oltre a termini e modalità per il pagamento.
1.1.5. Non giova alla tesi di parte ricorrente invocare il favor del legislatore per la progettazione interna, perché tale preferenza non può che valere nei limiti in cui il legislatore stesso ha disegnato l’istituto e lo ha fatto definendo il compenso incentivante come una quota parte delle somme stanziate per la realizzazione dell’opera progettata.
2. Il secondo motivo di ricorso denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per: violazione e falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 109 del 1994 e s.m.i. violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c.». Il ricorrente, da un lato, afferma, che gli incarichi da lui ricevuti «rientrano tra quelli finanziati dal fondo creato dal Comune di (…) ex art. 18 legge n. 109/1994»; dall’altro lato rileva che non sono
in discussione né il conferimento degli incarichi di progettazione, né lo svolgimento effettivo da parte sua di tutte le relative prestazioni.
2.1. Il motivo è fondato per quanto riguarda la denunciata violazione dell’art. 2126 c.c.
2.1.1. L’affermazione secondo cui «tutti gli incarichi svolti dal ricorrente rientrano tra quelli finanziati dal fondo creato dal Comune di (…) ex art. 18 [comma 2-bis], della legge n. 109 del 1994» attiene al fatto, che la corte d’appello ha invece accertato in termini diversi, con decisione insindacabile in questa sede.
2.1.2. Fondata è invece la censura che la mancanza dell’impegno di spesa, se pure impedisce il sorgere del diritto al compenso incentivante (perché questo è connotato come una quota parte di quell’impegno), tuttavia non può far svanire del tutto il diritto del lavoratore al pagamento della retribuzione per le prestazioni aggiuntive comunque svolte.
In termini più generali, è vero che le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo incoerente con esse è invalido (Cass. n. 5679/2022,) e rende ripetibili eventuali pagamenti eseguiti sulla sua base (Cass. n. 14672/2022). Ciò però non consente di derogare alla disciplina, in sé centrale nell’ambito del diritto del lavoro regolato su base negoziale, di cui all’art. 2126 c.c., certamente applicabile anche nel pubblico impiego (Cass. n. 18063/2023).
La centralità dell’art. 2126 c.c. va posta in connessione anche con le tutele costituzionali del lavoro e della sua retribuzione (artt. 35, comma 1, e 36 Cost.), secondo un sistema che impedisce di ravvisare ostacoli rispetto al pagamento di prestazioni comunque rese con il consenso del datore di lavoro, anche pubblico, seppur poi si evidenzino contrasti con previsioni della contrattazione collettiva, delle regole autorizzatorie per esso previste o con vincoli di spesa.
2.1.3. La corte d’appello ha errato, pertanto, respingendo in toto la domanda del lavoratore di pagamento della retribuzione per le prestazioni aggiuntive sulla base del solo rilievo, quantunque corretto, della impossibilità di accordare il compenso incentivante secondo le previsioni dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994. Né era necessaria, per l’applicazione del principio di cui all’art. 2126 c.c., una diversa ed autonoma domanda, se non altro perché non si tratta, nel caso di specie, della nullità di un contratto di lavoro e di invocare l’eccezionale efficacia parziale di un contratto nullo, ma soltanto di esaminare una domanda di pagamento di un compenso che si assume maturato nell’ambito di un valido contratto di lavoro, in seguito al conferimento di incarichi per lo svolgimento di prestazioni aggiuntive.
2.1.4. Poiché i vincoli di spesa, nella citata prospettiva costituzionalmente orientata di cui si è detto, non possono essere valorizzati nel senso di escludere ogni pagamento per una prestazione che sia stata resa con il consenso di chi gerarchicamente la poteva richiedere o accettare, è compito del giudice del merito accertare e quantificare il credito retributivo sulla base di quanto sopra precisato e, dunque, in mancanza di altri riferimenti normativi, in ragione del superamento del debito orario e con riguardo alle misure unitarie orarie proprie del lavoro straordinario secondo la contrattazione collettiva del tempo; senza attribuire rilievo ai limiti orari di ricorso allo straordinario in ipotesi previsti dalla medesima contrattazione.
2.1.5. L’accoglimento del secondo motivo comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «in tema di pubblico impiego privatizzato, l’affidamento di incarichi di progettazione, direzione lavori e simili a lavoratori dipendenti della stazione appaltante in mancanza di stanziamenti previsti per la realizzazione dell’opera cui gli incarichi si riferiscono, se pure impedisce il sorgere del diritto al compenso incentivante ai sensi dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 (nel testo all’epoca vigente), tuttavia non fa venire meno il diritto del lavoratore alla retribuzione aggiuntiva per lo svolgimento di attività oltre il debito orario di tali prestazioni di lavoro, corrispondente – in mancanza di altri parametri – alla misura propria del lavoro straordinario secondo la contrattazione collettiva tempo per tempo vigente, in quanto il consenso datoriale, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c.».
3. Il terzo motivo denuncia «violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per omesso esame della delibera di G.M. n. 27 del 24.2.2006 e della delibera di G.M. n. 226 del 15.12.2003».
3.1. Il motivo riguarda l’asserita esistenza dell’impegno di spesa per due delle undici opere cui si riferiscono le attività professionali oggetto di contestazione e rimane assorbito dall’accoglimento del secondo motivo, per effetto del quale il giudice del rinvio viene investito di un nuovo esame che riguarda tutte le opere e le prestazioni ancora in contestazione.
4. Cassata la sentenza impugnata, il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
5. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto che, dato l’accoglimento del ricorso, non sussiste il presupposto per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale ai sensi dell’art. 13, comma 1-bis, del medesimo d.P.R.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo e assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.