CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 25987 depositata il 6 settembre 2023
Lavoro – Illegittimità licenziamento – Riassunzione – Corresponsione indennità – Retribuzioni maturate e non corrisposte – Appropriazione indebita – Rigetto
Rilevato che
1. La Corte d’Appello di Messina, in riforma di sentenza del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con sentenza non definitiva n. 13/2018 dichiarava l’illegittimità del licenziamento comminato a V.C. dalla datrice di lavoro S.F., titolare dell’omonima ditta individuale-tabaccheria, con lettera 5/6/2009, e condannava l’appellata alla riassunzione o, in subordine, alla corresponsione di un’indennità commisurata a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto erogata;
con sentenza definitiva n. 56/2020, svolta CTU contabile, condannava S.F. al pagamento in favore dell’appellante della complessiva somma di € 32.830,76 a titolo di retribuzioni maturate e non corrisposte, 13a e 14a mensilità, differenze paga, ferie non godute, compenso per lavoro straordinario, lavoro festivo e domenicale, festività, riposo settimanale non goduto, ROL e TFR per la durata del rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti nel periodo di riferimento, oltre accessori;
2. la Corte di Messina, in particolare, accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal 4.1.2008 sino alla data del licenziamento (quantunque regolarizzato per un periodo più breve, da dicembre 2008, con qualifica di addetto alle vendite e alla cassa – 2° livello CCNL Commercio), con l’orario di lavoro ordinario e straordinario dedotti dal lavoratore; dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare, anche alla luce dell’intervenuta assoluzione definitiva in sede penale per l’imputazione di appropriazione indebita a base del recesso datoriale; riteneva la compensazione disposta dal Tribunale anche in violazione dell’art. 112 c.p.c., perché non vi era stata tempestiva eccezione in tal senso da parte della datrice di lavoro;
3. ricorre per la cassazione di entrambe le sentenze la datrice di lavoro con sette motivi; resiste il lavoratore con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
1. con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) la nullità della sentenza parziale e la nullità derivata della sentenza conclusiva, per violazione e falsa applicazione degli artt. 437, 416, 101, 162 c.p.c. e 651 c.p.p., per violazione del contraddittorio, mancata acquisizione del fascicolo di 1º grado, acquisizione di sentenza penale non passata in giudicato;
2. il motivo è inammissibile;
3. esso si presenta generico e non dotato della necessaria autosufficienza, non avendo la parte trascritto i verbali d’udienza e soprattutto dove, come e quando avrebbe eccepito l’eventuale violazione del contraddittorio al giudice del merito; i verbali non risultano né depositati unitamente al ricorso né specificamente allocati; d’altra parte, l’acquisizione dei verbali relativi al giudizio di primo grado (dato riconosciuto dall’odierna ricorrente) ha consentito alla stessa di svolgere le sue difese, non essendo chiarito quale documento posto a base della sentenza non sarebbe stato visto o esaminato;
4. si osserva, inoltre, che la sentenza penale di appello di assoluzione risulta successiva alla pronuncia di primo grado del Tribunale in funzione di giudice del lavoro; si trattava, perciò, di un documento nuovo e rilevante che non si era potuto allegare in precedenza, perciò idoneo a far parte del materiale probatorio valutabile in sede civile di appello, non essendo, peraltro, allegata una riforma successiva della pronuncia di assoluzione;
5. con il secondo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza parziale e della sentenza conclusiva, per violazione e falsa applicazione degli artt. 434, 436-bis, 348-bis, 348-ter, 342 c.p.c., per omesso esame dell’eccezione di inammissibilità o improcedibilità dell’appello per mancata indicazione dei motivi specifici di appello;
6. il motivo è infondato;
7. l’eccezione si deve ritenere implicitamente respinta dalla Corte territoriale, che, dopo averne dato conto nella parte narrativa, decidendo l’appello nel merito ha superato l’eccezione ritenendo all’evidenza il gravame ammissibile;
8. invero, ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. è sufficiente una chiara esposizione delle doglianze rivolte alla pronuncia impugnata, senza necessità di proporre un progetto alternativo di sentenza, sicché l’appellante il quale lamenti l’erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare ex novo le prove già raccolte e sottoporre le argomentazioni già svolte nel processo di primo grado (Cass. n. 40560/2021); gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla legge n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. n. 13535 2018; conf. Cass. n. 36481/2022);
9. con il terzo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza parziale e nullità derivata della sentenza conclusiva, per violazione e falsa applicazione degli artt. 437, 345 c.p.c.; afferma violazione del cd. divieto di nova in appello, e l’inammissibilità, perché non formulata in primo grado, della doglianza del lavoratore in ordine alla mancata contestazione dell’addebito disciplinare, che sarebbe stata fatta valere per la prima volta in appello;
10. il motivo è infondato;
11. nello stesso testo della doglianza, l’odierna parte ricorrente riporta le conclusioni di cui all’originario ricorso di controparte innanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con le quali, testualmente, si richiedeva la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente “sia perché adottato in violazione dell’art. 7 L. 300/1970 sia perché privo di giusta causa e/o giustificato motivo”; proprio l’espresso riferimento, contenuto nelle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, all’art. 7 St. lav., norma che disciplina il procedimento disciplinare nel rapporto di lavoro, esclude la novità della domanda e rende priva di pregio la censura di cui al motivo di ricorso per cassazione in esame;
12. con il quarto motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) nullità o erroneità della sentenza parziale, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e dei contratti e accordi collettivi e nazionali di lavoro;
sostiene che il recesso datoriale di cui si discute andava inquadrato nella fattispecie del licenziamento in tronco giustificato dalla grave lesione del rapporto fiduciario, e che la Corte di Messina avrebbe errato nel ritenere illegittimo il licenziamento per mancata preventiva contestazione dell’addebito disciplinare;
13. il motivo è infondato;
14. a mente della giurisprudenza costante di questa Corte, il licenziamento per giusta causa, irrogato per una condotta tenuta dal dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro e ritenuta dal datore di lavoro tanto scorretta da minare il vincolo fiduciario, è un licenziamento ontologicamente disciplinare, a prescindere dalla sua inclusione tra le misure disciplinari dello specifico regime del rapporto, e deve essere assoggettato, quindi, alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell’art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa (così Cass. n. 14326/2012; conf. Cass. n. 17652/2007, n. 18270/2013);
15. il motivo di censura, pertanto, a parte il riferimento del tutto generico a indefiniti contratti collettivi, sovrappone indebitamente le inderogabili garanzie procedurali (ferma l’eventuale possibilità di sospensione del rapporto di lavoro) con la valutazione degli addebiti nel merito;
16. con il quinto motivo, parte ricorrente lamenta (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 112 c.p.c., 2094 e 2099 c.c.; assume falsa applicazione del contratto di lavoro individuale, violazione della ripartizione dell’onere probatorio, erronea valutazione delle prove, e sostiene motivazione contraddittoria e mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, per essere stato ritenuto sussistente il rapporto di lavoro tra le parti da gennaio 2008 fino al licenziamento e per essere stato rimesso il calcolo delle differenze retributive a consulenza tecnica d’ufficio sulla base di un orario lavorativo diverso da quello convenuto dalle parti nel contratto di lavoro;
17. il motivo è inammissibile;
18. la doglianza in esame, infatti, tende, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U. n. 34476/2019), rivalutazione di questioni di fatto in contrasto con il principio secondo cui la denuncia di violazione di legge non può surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi (v. Cass. n. 15568/2020, e giurisprudenza ivi richiamata) o valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n. 20814/2018); non è consentita in sede di legittimità la (sollecitazione di una) rivisitazione del merito della controversia, atteso che la valutazione delle emergenze probatorie e la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 20553/2021, n. 15276/2021, n. 17097/2010, n. 12362/2006, n. 11933/2003); né il giudizio di Cassazione è strutturato quale terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi, al fine di un loro riesame;
19. con il sesto motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, nn. 3, 4, 5, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 1241 ss. c.c., per errata qualificazione giuridica della compensazione, ossia per non avere applicato i principi operanti in tema di compensazione impropria tra le somme dovute a titolo di TFR e (pretesi) ammanchi di cassa riconducibili al lavoratore, con conseguente nullità della sentenza definitiva;
20. il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo;
21. in primo luogo, perché, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass. n. 26874/2018, n. 19443/2011);
22. in secondo luogo, per difetto di autosufficienza, posto che, parte ricorrente, sostenendo che il giudice di appello avrebbe dovuto operare la compensazione impropria tra ragioni di credito e debito nascenti dallo stesso rapporto, tuttavia non deduce né prova quali indebite appropriazioni vi sarebbero state e in quale misura, così impedendo di qualificare l’eccezione di compensazione svolta;
23. con il settimo motivo, parte ricorrente censura la sentenza definitiva (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) per omessa motivazione sulla quantificazione e sulla condanna alle spese, che risulterebbe ingiusta e spropositata;
24. il motivo è inammissibile;
25. la Corte di merito ha espressamente motivato in punto spese, applicando il principio della soccombenza e specificando di operare la liquidazione sulla base dei parametri corrispondenti al concreto decisum; peraltro, la doglianza in ordine alla quantificazione operata in questa sede da parte ricorrente non contiene alcun riferimento al superamento dei limiti tariffari di cui al DM 55/2014;
26. alla stregua delle argomentazioni esposte il ricorso deve essere respinto nel suo complesso;
27. le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in favore dei difensori di parte controricorrente, dichiaratisi antistatari;
28. al rigetto dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.500 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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