Corte di Cassazione ordinanza n. 28080 depositata il 27 settembre 2022
diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio – art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – rispetto del contraddittorio – dal rilascio della sua copia al contribuente decorrerà il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, senza necessità di adozione e consegna di un ulteriore verbale di contestazione delle violazioni successivamente riscontrate
Rilevato che
I ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la sentenza n. 855/07/2014, pronunciata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, che ha accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza del giudice di primo grado, rigettando il ricorso introduttivo dei contribuenti contro l’avviso d’accertamento con cui l’ufficio aveva rideterminato l’imponibile della società ai fini Iva ed Irap, relativamente all’anno d’imposta 2005, nonché il reddito di partecipazione dei soci.
Nel ricorso si riferisce che l’atto impositivo era stato impugnato dalla società e dai soci, che avevano sollevato eccezioni relative alla ritualità della notificazione nonché questioni di validità del procedimento amministrativo, incidenti sulla validità stessa dell’atto (mancanza del processo verbale di chiusura delle operazioni, o del processo verbale di constatazione; mancato rispetto del contraddittorio per violazione del termine previsto dall’art. 12, comma 7, della I. 26 luglio 2000, n. 212); nel merito avevano inoltre contestato le ragioni della rideterminazione dell’imponibile, tenendo conto degli esiti del procedimento di definizione con adesione, concordata tra le parti, ma dalla quale l’ufficio aveva ritenuto che i contribuenti fossero decaduti per mancata prestazione della garanzia prescritta dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218 (ratione temporis vigente).
La Commissione tributaria provinciale di Pescara, con sentenza 287/01/2013, rigettò tutte le eccezioni formulate dai contribuenti e dall’Agenzia delle entrate, rideterminando l’imponibile nella misura indicata dalle parti in sede di procedimento di definizione con adesione.
La pronuncia fu impugnata dall’Amministrazione finanziaria dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, che con la sentenza ora al vaglio della Corte accolse l’appello. Il giudice di secondo grado ha superato le questioni preliminari, e tra esse l’eccezione di nullità dell’avviso d’accertamento, perché emesso senza il rispetto del termine dilatorio prescritto dall’art. 12, comma 7, I. 26 luglio 2000, n. 212. Ha quindi accolto le doglianze dell’ufficio relativamente alla rideterminazione dell’imponibile secondo gli importi emersi in sede di procedimento con adesione. Ha in particolare sostenuto che, decaduta la contribuente dalla definizione con adesione delle pendenze fiscali -per mancata prestazione della garanzia prevista dall’art. 8, comma 2, cit.-, il giudice di primo grado aveva errato nel rideterminare il debito tributario secondo gli accordi raggiunti in sede di adesione. Ha pertanto confermato nella sua interezza l’avviso di accertamento, rigettando integralmente il ricorso introduttivo dei contribuenti.
I ricorrenti hanno censurato la sentenza affidandosi a tre motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Nell’adunanza camerale del 7 aprile 2022 la causa è stata trattata e decisa. I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.l cod. proc. civ.
Considerato che
Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 24, della I. 7 gennaio 1929, n. 4, dell’art. 52, comma 6, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché il giudice regionale avrebbe erroneamente qualificato come processo verbale di constatazione quello redatto dall’Agenzia delle entrate il 27 febbraio 2012, all’esito della acquisizione documentale;
con il secondo motivo lamenta il travisamento di un fatto, in relazione all’art. 360 primo comma, n. 5, cod. proc. civ., quanto alla qualificazione come verbale di constatazione di un verbale meramente descrittivo del compimento delle operazioni di acquisizione di documentazione prodotta dal contribuente;
con il terzo motivo si duole della violazione dell’art. 12, comma 7, della l. 26 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver ritenuto osservato il termine dilatorio di 60 gg, tenendo conto dell’intervallo temporale decorso tra la redazione del verbale di consegna della documentazione del 27 febbraio 2012 e l’avviso di accertamento.
I motivi possono essere trattati congiuntamente perché connessi, censurando tutti, sotto il profilo dell’errore d’interpretazione della disciplina (primo e terzo) e del vizio motivazionale (secondo), la decisione impugnata laddove questa ha valorizzato il verbale redatto il 27 febbraio 2012, sostenendo che da esso al momento di emissione dell’avviso d’accertamento era ampiamente decorso il termine dilatorio di 60 gg.
Va chiarito che l’attività d’indagine nei confronti della società XXX s.n.c. si svolse con accessi di militari della GdF presso la sede sociale. A conclusione fu redatto il processo verbale di constatazione, datato 11 febbraio 2009. Il 9 marzo 2011 l’Amministrazione finanziaria comunicò alla contribuente l’invito a presentarsi presso l’ufficio al fine di fornire chiarimenti ed esibire tutta la documentazione relativa alle voci di costo elencate nei conti economici relativi ai bilanci al 31 dicembre 2006 e al 31 dicembre 2007. Nei rapporti successivi tra l’ufficio e la contribuente furono peraltro redatti più verbali di acquisizione di documentazione, rispettivamente datati 30 marzo 2011, 7 aprile 2011, 5 dicembre 2011, 17 febbraio 2012, 27 febbraio 2012. In ciascuno di essi risultavano elencate le fatture e la documentazione prodotta, relativa alle operazioni contabili annotate, e in essi riepilogate. L’avviso di accertamento fu emesso il 7 giugno 2012.
Questi i fatti e le cadenze temporali delle operazioni e degli atti compiuti, i ricorrenti sostengono che l’atto impositivo sia stato emesso senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni, previsto, a presidio del rispetto del principio del contraddittorio, dall’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000. Di contro, la difesa dell’Agenzia delle entrate sostiene che la garanzia del contradittorio sarebbe stata salvaguardata, poiché già al termine della verifica con accessi presso la sede della contribuente i militari della GdF avevano rilasciato copia del processo verbale di constatazione (11 febbraio 2009). La successiva attività di controllo era invece proseguita negli uffici al fine di esaminare e computare i costi da riconoscere alla contribuente.
Nella pronuncia ora al vaglio del collegio il giudice regionale ha ritenuto fondata la difesa dell’Amministrazione finanziaria, evidenziando che l’attività successiva al rilascio del pvc era proseguita presso gli uffici finanziari. Peraltro, proprio in riferimento alla successiva attività di controllo, ha valorizzato i verbali redatti nelle varie date in cui la società aveva prodotto la documentazione richiesta dall’Agenzia delle entrate, sino a quello del 27 febbraio 2012. Da quest’ultimo, constata il giudice regionale, alla data di emissione dell’avviso d’accertamento, risultavano decorsi ben oltre sessanta giorni.
Tale ragionamento è invece criticato dalla difesa dei contribuenti, che sostengono come ai fini del rispetto della prescrizione dell’art. 12, comma 7, della I. 212 cit., i processi verbali redatti all’esito dell’acquisizione della documentazione non abbiano rilevanza, non potendo confondersi con il processo verbale di chiusura delle operazioni, a cui farebbe esclusivo riferimento la norma. Ne discende, secondo la prospettazione difensiva, che decorrendo i sessanta giorni solo dal rilascio del pvc, e mancando nei fatti tale verbale, i termini dilatori non avrebbero mai iniziato a decorrere e l’atto impositivo sarebbe viziato e nullo.
Perimetrato l’oggetto della controversia, nell’interpretare il contenuto e l’ambito applicativo dell’art. 12, comma 7, della I. 212 del 2000, la giurisprudenza di legittimità ha intanto riconosciuto che la regola, posta a presidio del contraddittorio endo-procedimentale, va diversamente intesa proprio in ragione della sua finalità. Se infatti dal contenuto della norma si evince che la garanzia del contraddittorio si traduce nell’intento di assicurare “collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente”, volta ad un migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva (Sez. U, 29 luglio 2013, n. 18184), appare comprensibile perché la sua obbligatorietà non si estenda a tutte le ipotesi, risultando ad esempio non necessaria negli accertamenti senza accessi presso la sede del contribuente, ossia quelli cd. a tavolino, per i quali manca una attività di controllo “fisicamente invasiva” dell’Amministrazione finanziaria nella sfera privata del contribuente. In merito si è infatti affermato che il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, cit. opera soltanto in caso di controllo eseguito presso la sede del contribuente e non anche nella diversa ipotesi, non assimilabile alla precedente, di accertamenti cd. a tavolino, atteso che la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto di imporre termini dilatori all’azione di accertamento derivanti da controlli eseguiti nella sede dell’Amministrazione sulla base dei dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente (ex multis, Cass., 4 aprile 2018, n. 8246; 5 novembre 2020, n. 24793).
Ciò peraltro riguarda l’area dei tributi non armonizzati, perché per quelli armonizzati la garanzia del contraddittorio impone comunque il rispetto del termine dilatorio, in osservanza della prescrizione dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riconosce «il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio». La giurisprudenza nazionale ha peraltro ritenuto che in questa ipotesi, perché la violazione dell’obbligo comporti l’invalidità dell’atto, il contribuente debba assolvere all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Sez. U, 9 dicembre 2015, n. 24823; cfr. inoltre Cass., 19 luglio 2021, n. 20436; 15 gennaio 2019, n. 701, 29 ottobre 2018, n. 27420; 27 luglio 2018, 20036; vedi 19 ottobre 2021, n. 28833). In tal modo il giudice italiano si è anche attenuto ai parametri indicati dalla giurisprudenza euro-unitaria, secondo cui
«Quando il diritto dell’Unione non fissa né le condizioni alle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa né le conseguenze della violazione di tali diritti, tali condizioni e tali conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purché i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)» (CGUE 3 luglio 2014, C-129 e 130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financién).
Per quello che interessa allo sviluppo logico del ragionamento che il collegio si appresta a formulare in rapporto all’oggetto della controversia, è qui utile per un verso rammentare che, sul piano normativo, quanto alle imposte nazionali, l’obbligo del rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni prima della emissione dell’atto impositivo afferisce alle ipotesi di “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”, che sono le categorie di intervento accertativo tipizzate e identificate nell’art. 52, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, a sua volta richiamato dall’art. 32, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973 in tema di imposte dirette, e dall’art. 53 bis, d.P.R. n. 131 del 1973 in materia di imposta di registro (per le imposte armonizzate si è invece già illustrato il perimetro e le modalità entro cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicato e rispettato il principio).
Ebbene, tralasciando le ulteriori ipotesi in cui il rispetto del contraddittorio è specificamente ed espressamente previsto dal diritto positivo, quanto al contenuto dell’art. 12, comma 7, della l. 212 del 2000, la ragione della distinzione posta, in seno alle imposte nazionali, tra gli accertamenti eseguiti mediante accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente e quelli eseguiti presso gli uffici dell’Amministrazione finanziaria, sta nella constatazione che solo nella prima ipotesi essi sono caratterizzati dalla «autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli: peculiarità, che specificamente giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali» (cfr. Sez. U, n. 24823 del 2015, cit.; vedi anche Cass., 11 settembre 2020, n. 18854, per l’ipotesi in cui solo nei riguardi di uno dei contribuenti l’Ufficio aveva proceduto a verifiche e ispezioni presso la sede dell’accertato).
Se le considerazioni fossero circoscritte a tale constatazione, la controversia da cui questo collegio è stato investito sarebbe immediatamente risolvibile sulla falsariga di quanto già prospettato dalla difesa dell’Agenzia delle entrate, ossia che, eseguiti e conclusi gli accessi e verifiche presso la sede della società con il processo verbale di constatazione rilasciato l’11 febbraio 2009, rispetto alla data di emissione dell’avviso di accertamento, 7 giugno 2012, il termine dilatorio sarebbe ampiamente trascorso.
Sennonché occorre affrontare l’ulteriore aspetto evidenziato dalla difesa della ricorrente. Questa ha infatti denunciato come nel caso di specie, rispetto al rilascio del pvc, l’Amministrazione ha proseguito la propria attività accertativa, pur senza riaccedere alla sede sociale, ma neppure limitandosi all’analisi della documentazione già acquisita, bensì proseguendo nell’acquisizione di nuova documentazione, in un dialogo ripetuto con la contribuente. Ha inoltre sostenuto che i processi verbali redatti dall’ufficio, descrittivi delle operazioni di acquisizione ed elencazione della documentazione ulteriormente acquisita non poteva sostituire il rilascio del processo verbale di chiusura della verifica, dal quale solo può decorrere ritualmente il termine dilatorio previsto dall’art. 12, comma 7, cit. La critica si rivela apparentemente suggestiva, sebbene sia del tutto infondata quanto irrilevante.
Intanto va ribadito che l’attività, rispetto alla quale andava rispettato il termine dei sessanta gg. prima della emissione di un atto impositivo, non può che essere quella della verifica propriamente detta, perché la richiesta e la consegna di ulteriore documentazione ha implicato solo una attività integrativa meramente documentale, espletata fuori della sede del contribuente, il quale peraltro non ha neppure dimostrato come e in quali termini la denunciata inosservanza del contradditorio avrebbe limitato il suo diritto di difesa nella fase endo-procedimentale. Tale ultima osservazione vale soprattutto con riferimento all’Iva.
Si è trattato cioè solo di un “dialogo” tra Amministrazione e contribuente, senza alcun ulteriore accesso nella sede del contribuente, tradottosi in un “contatto” tra le parti per la consegna di documentazione da parte del contribuente presso la sede dell’Agenzia delle entrate.
Deve infatti escludersi che al caso di specie sia applicabile quella giurisprudenza secondo cui, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, qualora il processo verbale di costatazione, pur regolarmente notificato al contribuente, non abbia definito l’attività di accertamento, ma abbia semplicemente segnato un passaggio della procedura, successivamente proseguita attraverso il confronto con il contribuente e l’acquisizione di documenti, per concludersi mediante un ulteriore accesso, pur breve, dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente al fine di acquisire ulteriori dati, è da tale ultimo atto che decorre il termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, di cui all’art. 12, comma 7, l. n. 212 del 2000, previsto a pena di nullità (Cass., 2 dicembre 2021, n. 38045). In questa ipotesi infatti la prosecuzione dell’attività di verifica e il confronto con il contribuente è culminato con un accesso cd. breve, successivo dunque al rilascio del pvc, che non esime dall’emissione di un nuovo processo verbale e dal rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni. Nel caso di specie non vi è stato più alcun accesso presso il contribuente.
D’altronde il contribuente non ha neppure affermato che con l’invito alla produzione di ulteriore documentazione, mai prima richiesta, successivo al rilascio del processo verbale redatto a sugello della verifica presso la sede sociale (2009), si fosse riaperto il confronto tra le parti, rimettendo tutto in gioco, ciò che rappresenta l’essenza stessa della tutela del contraddittorio endoprocedimentale.
In ogni caso la questione resta del tutto irrilevante a fronte della circostanza che, se pur astrattamente a tale ulteriore attività di verifica volesse attribuirsi una qualunque valenza, è certo che l’Amministrazione al momento della consegna dell’ulteriore documentazione ha provveduto ogni volta a redigere un apposito verbale.
I contribuenti sostengono che quei verbali, meramente descrittivi del compimento delle operazioni di acquisizione di documentazione prodotta dal contribuente, fossero del tutto inidonei, non potendo sostituire il processo verbale di chiusura delle operazioni. Pongono dunque il problema se il termine debba decorrere dalla redazione di un formale processo verbale di constatazione, o anche di chiusura delle operazioni, oppure se sia sufficiente un processo verbale che comunque l’Amministrazione abbia provveduto a redigere in relazione alle operazioni compiute. La risposta è che sia corretto identificare il termine dal momento della redazione di un verbale che attesti le operazioni concretamente eseguite, e dunque, come nel caso di specie, dal verbale anche meramente descrittivo del compimento delle operazioni di acquisizione della documentazione prodotta dal contribuente.
Ai fini del rispetto delle regole del contraddittorio endo-procedimentale non è infatti necessario che sia redatto un formale processo verbale di chiusura della verifica. Va infatti rammentato che il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 decorre dalla emissione e consegna di tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo, (Cass., 2 luglio 2014, n. 15010; 23 gennaio 2020, n. 1497), tenendo conto che anche quando con il verbale si compie la descrizione dell’attività espletata, sia pur di sola acquisizione di documentazione, per ciò stesso pur sempre di verbale di chiusura si tratta (Cass., 9 luglio 2014, n. 15624).
D’altronde questa Corte ha precisato che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione, essendo sufficiente un verbale attestante le operazioni compiute (Cass. 22 giugno 2018, n. 16546). Ed in tema di violazioni di norme finanziarie il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente, previsto dall’art. 24 della I. 7 gennaio 1929, n. 4, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi e meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31120). Neppure la previsione di cui all’art. 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, quindi non impone sempre l’adozione di un processo verbale di contestazione di violazioni finanziarie, essendo invece deputato ad attestare le operazioni compiute dall’Amministrazione. Pertanto, nell’ipotesi di acquisizione di documenti, il contenuto del processo verbale sarà quello di descrivere le operazioni di acquisizione ed elencazione della suddetta documentazione. Ciò comporta che dal rilascio della sua copia al contribuente decorrerà il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, senza necessità di adozione e consegna di un ulteriore verbale di contestazione delle violazioni successivamente riscontrate (Cass., 8 maggio 2019, n. 12094; 4 maggio 2021, n. 11589).
Ebbene, a tutto voler concedere in riferimento alla ricostruzione pretesa dai ricorrenti, l’ultimo verbale di consegna della documentazione risaliva al 27 febbraio 2012, mentre l’avviso d’accertamento fu emesso il 7 giugno 2012, ben oltre dunque il termine di sessanta giorni, così che manca, anche sotto tale profilo, ogni motivo di doglianza da parte dei contribuenti, perché nella decisione impugnata il giudice regionale, sia pur succintamente, si è attenuto ai principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Ne discende l’infondatezza delle censure mosse dai ricorrenti, e il rigetto del primo e del terzo motivo, così come del secondo, quando di esso non se ne voglia dichiarare l’inammissibilità perché la critica alla sentenza, sotto il profilo del vizio motivazionale, secondo la nuova formulazione della rubrica dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, consente la sola denuncia dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Nel caso di specie con il motivo i ricorrenti hanno inteso criticare la natura e funzione del verbale di consegna della documentazione del 27 febbraio 2012, che esula dal perimetro del cd. “fatto storico”.
Il ricorso va dunque rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza dei ricorrenti nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di€ 7.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a orma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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