CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 28833 depositata il 17 ottobre 2023

Lavoro – Insussistenza crediti previdenziali – Contratto part time – CCNL edilizia – Clausola di flessibilità – Orario di lavoro – Accoglimento parziale

Rilevato che

F.I.S.C., titolare della omonima ditta esercente attività edile, propose due distinti ricorsi, rivolti ad INPS ed INAIL, al fine di far accertare l’insussistenza dei crediti previdenziali portati da un certificato di variazione emesso dall’Inail e da un verbale ispettivo notificato dall’INPS;

in particolare, con verbale ispettivo del 20 giugno 1999, l’Inps aveva contestato che nel periodo compreso fra il 1° giugno 2004 ed il 3 maggio 2009 l’impresa avesse utilizzato un contratto part time per la totalità dei contratti di lavoro sottoscritti, in contrasto con il CCNL edilizia ed affini del 1° ottobre 2004, che consentiva l’utilizzo di tale tipo contrattuale solo per il 3% dei dipendenti, versando i relativi contributi in misura proporzionale alla retribuzione effettivamente corrisposta e non alla maggiore misura rapportata alla retribuzione stabilita per l’orario di lavoro, come previsto dall’articolo 29 del d. l. n. 244 del 1995;

l’istituto previdenziale aveva anche contestato che gli operai assunti con contratto a tempo parziale avessero lavorato in realtà per l’intero orario settimanale, percependo soltanto il salario ordinario senza maggiorazione per lavoro supplementare, né per quello straordinario; di conseguenza, l’INAIL aveva chiesto il pagamento della somma complessiva di euro 24.836,26 e l’INPS della somma complessiva di 90.700 a titolo di contributi evasi e sanzioni;

le opposizioni furono rigettate dal Tribunale di Oristano, a seguito di istruzione delle cause avvenuta con produzione documentale, con due sentenze pronunciate nello stesso giorno;

la Corte d’appello di Cagliari, dopo aver riunito le impugnazioni proposte dalla ditta C. avverso entrambe le decisioni di primo grado, con sentenza n. 200 del 2016, ha riformato in parte le sentenze, ritenendo fondata la domanda di accertamento negativo solo in relazione ad alcuni contratti di lavoro part time ritenuti genuini;

la Corte d’appello ha, in primo luogo, confermato la correttezza della declaratoria di nullità dei contratti di lavoro part-time oggetto di contestazione, che l’appellante aveva denunciato essere stata illegittimamente pronunciata d’ufficio, in quanto il giudice di primo grado aveva ritenuto fittizio il ricorso alla qualificazione dei contratti come part-time alla luce dell’effettivo svolgimento dei rapporti, avvenuto secondo l’orario di lavoro ordinario, data la natura imperativa della normativa che regola l’obbligazione contributiva; ha ritenuto corretta la qualificazione come part time soltanto dei contratti stipulati a partire dall’aprile 2007 fino al Febbraio 2008, nei confronti di alcuni dei lavoratori interessati, in quanto era stata specificamente richiamata nel testo la clausola di flessibilità di cui all’art. 46, comma 7, d. lgs. n. 276 del 2003;

per i rimanenti periodi, invece, il costante ricorso alla variazione di orario di lavoro impediva che si potesse configurare una legittima realizzazione della clausola di flessibilità e conseguentemente la pretesa contributiva doveva ritenersi fondata, posto che l’articolo 29, comma 1, d. l. n. 244 del 1995 conv. in legge n. 341 del 1995 fissava dei limiti alla possibilità di considerare, ai fini della contribuzione previdenziale ed assistenziale, un orario settimanale di lavoro inferiore all’orario di lavoro normale stabilito dai contratti collettivi nazionali;

tale regola tendeva a fornire copertura assicurativa anche in caso di assenze del lavoratore dovute a cause inerenti allo svolgimento dei lavori edilizi indipendenti da specifiche colpe del prestatore; quindi, solamente nei casi in cui si fosse rientrato in una di quelle ipotesi tassativamente contemplate nella disposizione citata, oppure espressamente previste con decreto ministeriale, si sarebbe potuto non applicare tale criterio legale riferito all’orario normale;

conseguentemente, espletata CTU e sollecitata risposta ad ulteriori quesiti, la Corte d’appello ha concluso assorbendo tutte le altre questioni ritenute irrilevanti di ininfluenti ed ha accolto quindi solo per quanto di ragione gli appelli proposti dalla ditta ed, in parziale riforma delle sentenze impugnate, ha condannato la stessa ditta al pagamento in favore dell’Inail di una somma pari ad euro 11.325,14 ed in favore dell’Inps della somma pari ad euro 30.813,76; le spese di entrambi i gradi del giudizio, ritenuta la complessiva statuizione giudiziale e gli importi accertati, sono stati compensati quanto all’INPS nella misura di 2/3, con il restante terzo a carico della ditta C.; quanto all’INAIL, le spese sono state compensate nella misura della metà con la restante metà a carico della ditta C.; le spese di consulenza tecnica sono state definitivamente poste a carico di ciascuna delle parti nella misura di 1/3, al fine di equilibrare la ripartizione del costo in ragione della particolare ratio della CTU;

avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione la ditta C. nei confronti sia dell’Inail che dell’Inps sulla base di sette motivi, illustrati da successiva memoria;

resistono con controricorso Inps e Inail;

Considerato che

con il primo motivo, si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. in ragione del fatto che il giudizio di accertamento negativo, proposto dall’odierno ricorrente, non avrebbe potuto concludersi con la condanna dell’impresa al pagamento dell’importo dovuto, in mancanza di domanda degli istituti previdenziali; la Corte d’appello non avrebbe potuto sostituire d’ufficio all’azione di accertamento negativo esperita dall’impresa una diversa azione di condanna avente distinti i presupposti ed oggetto, così incorrendo nel vizio di ultra petizione, violando il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato;

con il secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 115 del c.p.c., dell’art. 3, comma 9, del d. lgs. n. 61 del 2000 e dell’art. 46, comma 7, del d. lgs. n. 276 del 2000; si ritiene errata la sentenza in quanto non ha ravvisato la valida clausola di flessibilità, in contrasto con le risultanze dei contratti stessi che alla luce appunto delle disposizioni indicate, mostrerebbero che era stata pattuita la clausola elastica della cui esistenza il giudice avrebbe dovuto tener conto;

con il terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia in quanto la Corte d’appello aveva ritenuto che la variazione dell’orario di lavoro in assenza di pattuizione con la ditta comportasse la nullità del contratto, in contrasto con la disciplina del contratto part-time; tuttavia, si era eccepito che in ogni caso la mancata pattuizione scritta delle clausole non avrebbe comportato la nullità dell’intero contratto, ma soltanto l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 8, comma due bis, d.lgs. n. 61 del 2000; la sentenza aveva del tutto ignorato questa eccezione ed il relativo motivo d’appello;

con il quarto motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 3, comma 9, dell’art. 8, commi 1 e 2 bis del d. lgs. n. 61 del 2000; il motivo deduce, sotto un diverso profilo, le stesse deduzioni del precedente esaminandole dal punto di vista dell’applicazione del diritto sostanziale; illustra le conseguenze del mancato rispetto della disciplina della clausola di flessibilità che avrebbe dovuto comportare unicamente l’applicazione della sanzione prevista;

con il quinto motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 196 c.p.c. in materia di consulenza tecnica d’ufficio, e con il sesto motivo, si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti;

con entrambi i motivi, ci si duole che la sentenza abbia acriticamente e pedissequamente condiviso i calcoli indicati nella relazione integrativa della consulenza tecnica d’ufficio senza pronunciarsi sulle differenze del tutto ingiustificate fra i dati riportati nella relazione del 5 Aprile 2016 e quelli diversi esposti nella perizia dell’undici maggio del 2015;

ricorda la parte che all’udienza del 27 novembre 2013 la c.t.u. aveva risposto al quesito posto dalla Corte e poi, con le due perizie dell’undici maggio 2015 – una per ciascun giudizio che non era stato ancora riunito all’altro – la consulenza aveva calcolato i contributi omessi con riferimento a tutti i 43 dipendenti assunti dall’impresa fra il 2004 e del 2009 con i calcoli che vengono riportati; era poi stato richiesto dalla Corte d’appello, con il supplemento di perizia, lo scorporo delle pretese riferite ai contratti genuini, ma gli importi definitivi sarebbero lievitati in maniera del tutto incongrua; si lamenta l’omessa esame di un fatto decisivo che, secondo la parte, riguarderebbe la mancata rilevazione della incongruità dei nuovi calcoli proposti dalla CTU e quindi una grave carenza di motivazione sotto questo profilo;

con il settimo motivo, si deduce la violazione e o falsa applicazione dell’art. 91 del c.p.c.;

la parziale compensazione delle spese non si giustificherebbe alla luce dell’esito vittorioso della controversia e quindi la sentenza, anche se errata per i motivi sopraesposti, avendo accertato la fondatezza delle domande avrebbe dovuto comunque dichiarare la soccombenza degli istituti senza disporre la parziale compensazione;

il primo motivo, autosufficiente (in quanto basato sul contenuto delle memorie di costituzione degli Enti indicate a pag. 8 del ricorso per cassazione, confermato dalla sentenza impugnata e non smentito dalle parti interessate) è fondato;

dal tenore degli atti difensivi si evince infatti che la domanda di condanna non è mai stata proposta sia dall’Inps che dall’Inail, posto che i medesimi si erano limitati a chiedere il rigetto della domanda avversaria; del resto, non è mai stato contestato che quella introdotta dalla parte fosse una mera domanda di accertamento negativo, riferita al contenuto del verbale ispettivo che, contrariamente agli atti impositivi (avviso di addebito o cartella di pagamento) non introduce un giudizio assimilabile a quello di opposizione a decreto ingiuntivo;

i motivi, secondo, terzo e quarto, tesi ad evidenziare l’erroneità della sentenza impugnata in punto di ritenuta infondatezza della domanda di accertamento negativo, relativamente ai periodi per cui la Corte territoriale ha escluso la valida sussistenza dei contratti part time, sono in larga misura inammissibili e per il resto infondati;

essi non si relazionano efficacemente con i contenuti della sentenza impugnata che ha appurato, non solo l’assenza di valida previsione contrattuale relativa alla flessibilità dell’orario, ma anche della simulazione con finalità elusiva dell’obbligo contributivo dello schema del lavoro part time;

la sentenza impugnata, confermando quella del Tribunale, ha dato atto dell’accertamento in concreto, in primo ed in secondo grado, ad onta di una formale indicazione quali contratti part time, di una effettiva esecuzione dei rapporti di lavoro secondo i parametri del tempo pieno con consequenziale piena applicazione della disciplina di settore in materia di minimale contributivo in edilizia;

non si tratta, dunque, di una scorretta applicazione della disciplina relativa al rapporto di lavoro a tempo parziale, nei termini denunciati dal ricorrente, o dell’omessa pronuncia sulla eccezione a tale disciplina riferita, ma di una critica alla qualificazione giuridica cui è pervenuto il giudice di merito, che avrebbe imposto una differente formulazione del vizio di violazione di legge o dell’accertamento in fatto, seppure nei ristretti limiti ammessi dall’attuale formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5) c.p.c.;

questa Corte di cassazione ha infatti affermato che la regola del cd. minimale contributivo, che deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, opera anche con riferimento all’orario di lavoro, che va parametrato a quello previsto dalla contrattazione collettiva, o dal contratto individuale, se superiore; ne deriva che la contribuzione è dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro (vd. Cass. nn. 15120 del 2019; 16859 del 2020; 23360 del 2021);

peraltro, la Corte territoriale ha comunque effettuato una valutazione in fatto, con analitica disamina degli elementi probatori acquisiti, che non può formare oggetto di giudizio in sede di legittimità al di fuori dei ristretti limiti indicati dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014 e succ.), posto che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario; dunque, non è fondato il motivo di omessa pronuncia sull’eccezione di ultra petizione derivante dall’aver proceduto all’accertamento della simulazione senza esaminare il rilievo che l’unica sanzione prevista per la violazione dell’art. 3, comma 9, dell’art. 8, commi 1 e 2 bis del d. lgs. n. 61 del 2000, sarebbe quella ivi indicata; si tratta, infatti, di ricostruzione incompatibile con il ragionamento svolto dalla Corte d’appello, con implicito rigetto della stessa eccezione;

i motivi, quinto e sesto, relativi alla violazione di legge sull’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio ed al vizio di motivazione quanto al calcolo degli importi dovuti, sono inammissibili per difetto di specificità;

in sostanza, si assume essere stata violata la regola procedimentale relativa alle modalità di espletamento della consulenza senza individuare quale sia l’errore commesso, ed inoltre si denuncia l’omissione non di un fatto storico ma si allude ad una sorta di errore di calcolo, derivante dal fatto che la somma successiva all’operazione di scorporo sarebbe superiore a quella ottenuta precedentemente a tale operazione;

è evidente che il mero dato aritmetico non dà conto dell’omessa considerazione di un fatto storico decisivo per il giudizio principale o secondario, potendo la circostanza essere giustificata dal calcolo ad es. di interessi e sanzioni che maturano nel tempo;

anche il settimo motivo incentrato sulla compensazione parziale delle spese va rigettato;

non si tratta, infatti, di soccombenza per una parte minima della domanda, ma di soccombenza piena su capi distinti della domanda, quali devono considerarsi le singole poste indicate nel verbale ispettivo in relazione a ciascun rapporto contributivo irregolare corrispondente ai diversi rapporti di lavoro sottesi, che giustifica la parziale compensazione (Cass. SS.UU. n. 32061 del 2022);

in definitiva, accolto il primo motivo, vanno rigettati tutti gli altri;

la sentenza impugnata va quindi cassata senza rinvio in ragione del motivo accolto e nei limiti dello stesso, ai sensi dell’art. 382, terzo comma, c.p.c.;

quanto alle spese dell’intero processo, avuto riguardo all’esito complessivo, vanno confermate le decisioni sul punto adottate dal Tribunale e dalla Corte d’appello, mentre vanno compensate le spese del giudizio di legittimità attesa la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta gli altri, cassa senza rinvio, perché la domanda di condanna non è stata proposta, la sentenza impugnata, limitatamente alla pronuncia di condanna al pagamento di contributi e premi, e la conferma per il resto;

conferma la pronuncia sulle spese adottata dalle sentenze di primo e secondo grado; dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.