CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 30469 depositata il 2 novembre 2023
Lavoro – Rapporto di lavoro subordinato part time – Licenziamento disciplinare – Tutela reintegratoria c.d. attenuata – Inesistenza della condotta illecita – Lavoro straordinario – Presunzione di continuità della prestazione lavorativa dall’inizio del suo espletamento al termine della giornata lavorativa – Indennità di cassa – Rigetto
Rilevato che
1.- L.C. aveva lavorato con rapporto di lavoro subordinato part time alle dipendenze di U. srl fino al 19/01/2017, quando era stata licenziata per ragioni disciplinari (sulla base della contestazione disciplinare di essersi rivolta in modo scortese, alzando la voce e in presenza di altri clienti, nei confronti di una cliente che, mentre era intenta in una conversazione telefonica, si era introdotta nell’esercizio commerciale dopo l’orario di chiusura approfittando dell’apertura delle porte per l’uscita di altri clienti, noncurante delle segnalazioni effettuate dalla C. e da altra dipendente circa l’avvenuta chiusura del punto vendita).
Aveva altresì svolto lavoro supplementare e/o straordinario, maturando differenze retributive che non le erano state pagate.
2.- Il Tribunale di Pescara, adìto dalla C., dichiarava illegittimo il licenziamento, ordinava la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condannava la società al pagamento dell’indennità risarcitoria, nonché delle differenze retributive per lavoro supplementare e/o straordinario.
3.- La Corte d’Appello, con la sentenza in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da U. srl ed in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda relativa alle differenze retributive, ma confermava le statuizioni relative al licenziamento; rigettava altresì l’appello incidentale della C., volto ad ottenere la condanna della società al pagamento dell’indennità di cassa.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) trova applicazione la c.d. tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015 (visto che la lavoratrice è stata assunta in data 07/04/2015) per insussistenza del fatto materiale contestato;
b) la nozione di insussistenza del fatto materiale contestato ha suscitato ampio dibattito e in giurisprudenza (Cass. n. 20540/2015; Cass. n. 18418/2016; Cass. n. 13383/2017) si è affermato che tale nozione non può essere scevra da un nucleo insopprimibile di giuridicità, intesa nel senso di necessaria illiceità del comportamento addebitato al lavoratore e sul quale si fonda il licenziamento;
c) dunque non basta che la condotta si sia verificata in rerum natura, ma occorre che abbia assunto un compiuto carattere illecito;
d) in tal modo, senza sconfinare nel concetto di proporzionalità della sanzione, si è inteso evitare che licenziamenti con motivazioni pretestuose potessero essere esclusi dalla tutela reale, sia pure attenuata, che dunque trova applicazione al fatto materiale sussistente, ma privo del carattere di illiceità;
e) tali principi, affermato dalla Corte di Cassazione in relazione all’ambito applicativo della novella dell’art. 18 L. n. 300/1970 apportata dalla legge n. 92/2012, esprimono principi generali costituzionalmente orientati e quindi sono applicabili anche nella vigenza del d.lgs. n. 23/2015;
f) nel caso in esame la condotta, pur sussistente nella sua materialità, non presenta alcun profilo di illiceità, atteso che – come emerso dall’istruttoria – non è dimostrato che la lavoratrice si sia rivolta alla cliente con modalità ingiustificatamente scortesi o gratuitamente offensive;
g) anche a voler ipotizzare che la lavoratrice abbia ecceduto nei modi e nelle parole utilizzate, non può non tenersi conto della circostanza che trattasi dell’unico episodio in circa due anni di rapporto di lavoro, quindi isolata e verosimilmente destinata a non ripetersi qualora punita con congrua sanzione conservativa, poiché risulta non provata la violazione degli obblighi ex art. 220 ccnl che presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 225, co. 4, terzo alinea, ccnl terziario;
h) nessuna rilevanza può avere il rifiuto della lavoratrice di porgere le sue scuse alla cliente (che la società avrebbe caldeggiato per ragioni di convenienza commerciale), poiché di tale ulteriore condotta non vi è traccia nella contestazione disciplinare e visto il principio di immutabilità della contestazione;
i) il fatto che il secondo comma dell’art. 3 d.ls. n. 23/2015 prevede che l’insussistenza del fatto materiale debba essere “direttamente dimostrata in giudizio” non determina il superamento del principio generale secondo cui l’onere della prova incombe sul datore di lavoro (art. 5 L. n. 604/1966), atteso che il legislatore del 2015 non esclude affatto l’applicabilità della legge n. 604 cit., limitandosi solo a indicare alcune disposizioni di quella legge dichiarate non applicabili ai nuovi assunti, tra cui non è indicato anche l’art. 5; quindi è pur sempre il datore di lavoro a dover dimostrare la sussistenza del fatto contestato, giuridicamente qualificato in termini di illecito, sicché in difetto di tale prova il fatto è da ritenersi insussistente;
j) è invece fondato il (terzo) motivo di appello, relativo all’asserito lavoro supplementare e/o straordinario;
k) va premesso che l’onere della prova rigorosa del superamento dell’orario di lavoro incombe sul lavoratore;
l) nel caso di specie la C. aveva un rapporto di lavoro part time di trenta ore settimanali, mentre il CCNL prevede l’orario normale di lavoro (a tempo pieno) di quaranta ore settimanali;
m) quindi era onere della C. dimostrare il lavoro supplementare fra la 31^ e la 40^ ora e quello straordinario oltre la 40^ ora;
n) nel caso di specie tale prova non è stata data, né della mancata fruizione di riposi compensativi, né della mancata fruizione di congedi di conguaglio nei periodi di minore intensità produttiva, atteso che i testimoni escussi hanno fornito risposte generiche e lacunose;
o) neppure la documentazione prodotta è utile al riguardo, posto che la C. svolgeva mansioni di responsabile del punto vendita e quindi rivestiva una posizione apicale all’interno dell’esercizio commerciale, con possibilità di autodeterminare i propri tempi di lavoro;
p) quindi non può applicarsi la presunzione di continuità del lavoro per il periodo intermedio fra l’orario iniziale e quello finale, giacché tale presunzione potrebbe trovare applicazione solo nel caso in cui la prestazione sia svolta in ambito tale da consentire un costante controllo datoriale; invece non può operare quando sono possibili interruzioni e pause, attesa la relativa autonomia del lavoratore nella scelta dei tempi del proprio lavoro (Cass. n. 12913/2004);
q) neppure è dimostrato che comunque la durata e le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa fossero tali da compromettere il recupero delle sue energie psico-fisiche, considerata la genericità e la frammentarietà delle deposizioni testimoniali, che non consentono neppure una valutazione minimale;
r) l’appello incidentale della C. va respinto, in quanto nelle conclusioni del ricorso di primo grado non viene formulata alcuna domanda avente ad oggetto l’indennità di cassa.
4.- Avverso tale sentenza U. srl ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
5.- C. L. ha resistito con controricorso ed ha a sua volta proposto ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.
6.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che
A) RICORSO PRINCIPALE.
Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n.3), c.p.c. la società ricorrente lamenta la violazione “per falsa applicazione” dell’art. 3, d.lgs. n. 23/2015, per avere la Corte territoriale applicato tale norma nonostante il fatto materiale (l’alterco verbale con la cliente) fosse risultato sussistente. Precisa che la stessa Corte territoriale ha ammesso che la lavoratrice aveva ecceduto nei modi e nelle parole utilizzate verso la cliente.
Il motivo è infondato.
In primo luogo, contrariamente all’assunto della ricorrente, la Corte d’Appello ha fornito una doppia motivazione: la prima e principale, volta ad escludere la sussistenza del fatto inteso nel senso materiale unitamente alla sua illiceità; la seconda, solo ipotetica e quindi secondaria, volta ad escludere quella “gravità” della condotta addebitata tipizzata dal contratto collettivo ai fini della giusta causa di licenziamento.
Orbene, ciascuna di tale motivazione è da sola sufficiente a sostenere la decisione, per cui l’eventuale erroneità della seconda non inficia in alcun modo la correttezza della prima.
Con riguardo alla prima e principale motivazione, la Corte territoriale – con apprezzamento delle risultanze istruttorie insindacabile in sede di legittimità, laddove come nella specie adeguatamente motivato – ha affermato che la condotta della C. “pur esistente nella sua materialità, non presenta profili di illiceità, atteso che, come è emerso dall’istruttoria, non è dimostrato che la lavoratrice si sia rivolta alla cliente … con modalità ingiustificatamente scortesi e gratuitamente offensive” (cfr. sentenza impugnata, p. 7, penult. cpv.).
Dunque i giudici d’appello hanno fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati da questa Corte in relazione alla novella apportata dalla legge n. 92/2012 all’art. 18 L. n. 300/1970, applicabili tout court anche all’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015, secondo cui la tutela reintegratoria c.d. attenuata trova applicazione non solo nel caso in cui il fatto non sia dimostrato nella sua materialità, ma altresì nel caso in cui il fatto, pur sussistente nella sua materialità, sia privo di quella connotazione di illiceità, offensività o antigiuridicità tale e necessaria da renderne apprezzabile la rilevanza disciplinare (in termini Cass. n. 12174/2019).
B) RICORSO INCIDENTALE.
Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la lavoratrice lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti, che ha indotto la Corte territoriale a rigettare le domande relative sia alle differenze retributive per lavoro supplementare e/o straordinario, sia all’indennità di cassa.
Il motivo è inammissibile con riguardo a lavoro supplementare e/o straordinario.
Infatti, la censura – basata sull’assunto che l’istruttoria sia testimoniale, che documentale avrebbe dimostrato che ella iniziava il lavoro ogni mattina alle ore 08,30 (eccetto il giovedì, di riposo) e il mercoledì alle ore 07,30, per terminare sempre trenta minuti dopo l’orario di lavoro al fine di completare le operazioni di chiusura legate al ruolo che ricopriva – si traduce nell’addebito alla Corte territoriale di aver completamente trascurato tale risultanze istruttorie.
Orbene, contrariamente alla doglianza della ricorrente, il predetto assunto non è stato affatto contraddetto dalla Corte territoriale, la quale – diversamente – ha motivato la sua decisione sulla facoltà, riconosciuta alla C. in considerazione delle sue mansioni di responsabile del punto vendita, di autodeterminare i tempi di svolgimento della sua prestazione, nonché quelli di pause e di riposi. Pertanto – hanno concluso i giudici d’appello – non potrebbe operare la c.d. presunzione di continuità della prestazione lavorativa dall’inizio del suo espletamento al termine della giornata lavorativa.
Con riguardo a tale motivazione, la censura della C. non indica quale sarebbe il fatto “decisivo” di cui sarebbe stato omesso l’esame, ma riporta una molteplicità di argomentazioni a suo dire univocamente volte a dimostrare l’erroneità del convincimento dei giudici d’appello. In tal modo, però, la censura è volta a sollecitare a questa Corte un’inammissibile rilettura delle deposizioni testimoniali e delle altre risultanze istruttorie, attività che – come è noto – è riservata al giudice di merito.
In tale contesto, comunque, la ricorrente ha ammesso di essere la responsabile del punto vendita e si è limitata a negare di rientrare formalmente in alcuna delle categorie per le quali la disciplina legale dell’orario di lavoro (artt. 16 e 17 d.lgs. n. 66/2003) prevede l’esonero. Ma tale profilo non è pertinente rispetto alla motivazione addotta dai giudici d’appello, tutta fondata sulla facoltà in concreto di autodeterminazione dell’orario.
Con riguardo all’indennità di cassa, il fatto decisivo, di cui la Corte territoriale avrebbe omesso l’esame, sarebbe il contenuto delle conclusioni rassegnate nel ricorso di primo grado. La C. sostiene che tali conclusioni erano omnicomprensivamente riferite a tutte le differenze retributive di cui ai conteggi allegati e nei predetti conteggi (da lei prodotti come doc. 16) fra i vari titoli vi era specificamente indicata anche l’indennità di cassa per euro 1.767,77. Aggiunge che proprio per questa ragione l’istruttoria si era svolta anche sul maneggio denaro.
Il motivo è inammissibile anche a questo riguardo.
Il fatto ex art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c. è un fatto storico e non una domanda di cui il giudice omette l’esame. Quindi la C. avrebbe dovuto censurare l’omessa pronunzia.
Pertanto, poiché il vizio è complessivamente da ricondurre esattamente all’omessa pronunzia, ossia alla violazione dell’art. 112 c.p.c., sarebbe stato preciso onere della C. indicare esattamente quelle parti del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, in cui aveva dedotto i fatti costitutivi del diritto da lei vantato. Tale onere non è stato adempiuto, sicché il motivo è sotto questo profilo privo di specificità, quindi non autosufficiente e pertanto inammissibile.
Considerata la reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale; compensa le spese del giudizio di legittimità.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
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