CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 585 depositata l’ 8 gennaio 2024
Lavoro – Pagamento differenze retributive – TFR – Carattere subordinato del rapporto di lavoro – Onere probatorio – Riparto spese del giudizio di legittimità – Criterio della soccombenza – Istanza di oscuramento – Rigetto
Rilevato che
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha accertato che tra G.B. e S.S. è intercorso un rapporto di lavoro subordinato dall’1.1.2000 alla cessazione del rapporto (2012) ed ha condannato il B. al pagamento, in via solidale con A.V., delle differenze retributive e del T.F.R. pari a complessivi euro 105.445,54, oltre accessori di legge.
2. La Corte territoriale ha ritenuto che il quadro probatorio raccolto dimostrasse il carattere subordinato del rapporto di lavoro svolto non solo tra la lavoratrice e le varie associazioni gestite dal B. ma anche direttamente con il B. che aveva utilizzato anche nel proprio interesse la prestazione lavorativa (dunque “in assenza di altro soggetto a cui imputare la prestazione”), con decorrenza quantomeno dal gennaio 2000 (e non, come accertato dal Tribunale, da giugno 1995); considerata la prevalente soccombenza del B., ha posto a suo carico le spese di lite.
3. Avverso tale sentenza il B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. La lavoratrice ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto provata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti tramite valorizzazione di elementi probatori assolutamente inconsistenti e manifestamente inidonei a concretare gli indici della subordinazione, indicando una data di decorrenza del rapporto (1.1.2000) priva di logico supporto probatorio.
2. Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 4, la violazione dell’art. 132 cod.proc.civ., avendo, la Corte territoriale, trascurato di spiegare perché le dichiarazioni dei testimoni D.C. e V. non erano idonee all’accertamento dell’esistenza del rapporto di lavoro fino al 31.12.1999 e lo diventavano per il periodo successivo.
3. Con il terzo motivo è dedotto travisamento della prova e motivazione contraddittoria, non sussistendo collegamento logico-giuridico nell’affermare che l’accertamento del rapporto subordinato tra la lavoratrice e l’A.V. era passato in giudicato e che il B. si determinava come diretto datore di lavoro, in assenza di altro soggetto a cui imputare la prestazione.
4. Con il quarto motivo è dedotta la violazione dell’art. 2082 cod.civ., ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, avendo, la Corte territoriale trascurato di spiegare quale era l’interesse personale del B. a ricondurre a sé il rapporto di lavoro.
5. Con il quinto motivo è dedotta la violazione degli artt. 91 e 92 cod.proc.civ., ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, avendo, la Corte territoriale, condannato il B. al pagamento delle spese di lite pur essendo parzialmente vittorioso (con riguardo alla data di inizio del rapporto di lavoro subordinato).
6. I motivi dal primo al quarto, che possono essere trattati congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
7. La violazione dell’art. 2697 cod.civ. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, interamente gravante su chi intendeva far accertare la sussistenza della natura subordinata di un rapporto di lavoro (Cass. n.1427 del 1997), con conseguente infondatezza del primo motivo di ricorso.
8. La valutazione della correttezza della motivazione rientra, poi, nel paradigma impugnatorio previsto nel n. 5, dell’art. 360 c.p.c. (come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134) a norma del quale è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014); questa Corte ha, inoltre, ribadito che in seguito alla suddetta novella normativa non è deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, pur se i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod.proc.civ. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ. (cfr. da ultimo Cass., ord., n. 22598 del 2018).
9. Nella specie, la Corte distrettuale ha motivato, in ordine sia alla definitività del giudizio con riguardo all’A.V. (soccombente in primo grado e rimasta contumace in grado di appello) sia al vincolo di subordinazione instaurato direttamente tra il B. (ossia anche “nel proprio interesse”) e la lavoratrice (a prescindere dai ruoli rivestiti dal B. nelle varie associazioni dallo stesso gestite) a partire dal gennaio 2000 con esplicazione di poteri organizzativi, direttivi, di indirizzo. Tale motivazione non può ritenersi meramente apparente, perché è del tutto idonea a consentire l’individuazione delle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato, con conseguente infondatezza del secondo motivo di ricorso.
10. Le altre censure sviluppate nei motivi dal secondo al quarto sono inammissibili nella parte in cui lamentano l’errata valutazione di alcune deposizioni testimoniali e l’omessa considerazione dell’interesse personale del B. all’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato atteso che l’art. 360 c.p.c., n. 5 riguarda l’omesso esame di un fatto storico-naturalistico, principale o secondario, nel quale paradigma non sono inquadrabili le censura concernenti la valutazione del materiale istruttorio da parte del giudice.
11. Il quinto motivo di ricorso non è fondato.
12. Questa Corte ha affermato che in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l’esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poiché tale condanna è consentita dall’ordinamento solo per l’ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa (Cass. n. 26918 del 2018); inoltre, più recentemente, le Sezioni Unite di questa Corte hanno puntualizzato che l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (sentenza n.32061 del 2022).
12.1. Nel caso di specie, le domande della lavoratrice (di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato e di condanna alle differenze retributive) sono state accolte – come ha correttamente sottolineato la Corte territoriale – in misura del tutto prevalente (essendo stato ridotto di qualche anno l’arco della durata del rapporto di lavoro e l’importo complessivo delle differenze retributive), con conseguente divieto di condanna alle spese di lite non del B. (soccombente in via prevalente) ma della lavoratrice vittoriosa; rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, correttamente la Corte territoriale ha provveduto alla liquidazione a totale carico della parte (prevalentemente) soccombente.
13. In conclusione, il ricorso va rigettato e il riparto delle spese del presente giudizio di legittimità segue il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
14. La domanda di oscuramento dei dati identificativi proposta dal ricorrente ex art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003 va respinta: le circostanze addotte come “motivi legittimi” e poste a base della invocata tutela di riservatezza (delle generalità e dei dati identificativi del ricorrente) “riguardano la delicatezza della vicenda oggetto del giudizio e la natura sensibile dei dati contenuti nella sentenza che, qualora diffusi, comporterebbero danni all’attività imprenditoriale del ricorrente” (cfr. istanza di oscuramento). Peraltro, dovendosi intendere “dati sensibili” (ai sensi del d.lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d) «i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale», va rilevato che tali dati non si rinvengono nella presente ordinanza. Quanto al diverso profilo della “delicatezza” della vicenda per cui è processo, alla luce della giurisprudenza di questa Corte (che ha osservato come «l’estrema latitudine del sostantivo» necessita «di essere riempita di contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi, di riverberare – come osserva lo stesso Garante – “negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato, ad esempio, in ambito familiare o lavorativo”, così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo), l’istanza contiene un riferimento del tutto generico al paventato danno imprenditoriale, insufficiente a circostanziare l’incidenza negativa del mancato oscuramento (in senso analogo, cfr. Cass. n. 4167 del 2022 ed ivi ampi riferimenti in tal senso).
15. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 5.500,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Rigetta l’istanza di oscuramento dei dati proposta dal ricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.