Corte di Cassazione, ordinanza n. 6325 depositata il 2 marzo 2023

accertamento – onere della prova – art. 53, d.P.R. n. 633/1972 – presunzione di cessione

considerato che:

dall’esposizione in fatto della sentenza censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società L. s.r.l. un avviso di accertamento con il quale aveva recuperato maggiori imposte Irpeg, Irap e Iva per l’anno 2003; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Palermo; avverso la sentenza del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Sicilia ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’amministrazione finanziaria non aveva assolto al proprio onere di prova, non avendo depositato la copia integrale del processo verbale di constatazione con i relativi allegati; circa la pretesa basata sulla presunzione di cessione di cui all’art. 53, d.P.R. n. 633/1972, la società aveva dimostrato l’ordinario utilizzo dei magazzini di proprietà di altra società per lo stoccaggio delle merci, avendo prodotto fatture e DDT nei quali risultava indicato che i suddetti magazzini erano stati adibiti a luogo di consegna delle merci, sicchè non poteva ritenersi che le merci non rinvenute nei locali commerciali della società fossero stati ceduti, poiché erano stati stoccati nel deposito non dichiarato ma, comunque, non estraneo alla sua attività. l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso;

ritenuto che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 2697, cod. civ., dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1972, dell’art. 54, d.P.R. n. 633/1972;

deduce parte ricorrente che l’avviso di accertamento conteneva, oltre al rinvio al processo verbale di constatazione, un’ampia motivazione che dava conto delle ragioni poste alla base della rettifica del reddito della società e che attenevano alle irregolarità riscontrate nella tenuta della contabilità, alla esistenza di documentazione extracontabile e di altri elementi presuntivi che legittimavano la rettifica induttiva del reddito, sicchè tale circostanza avrebbe dovuto comportare lo spostamento a carico della società dell’onere della prova;

evidenzia, quindi, l’erroneità della pronuncia per avere ritenuto che l’amministrazione finanziaria non aveva assolto al proprio onere di prova;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 7, legge n. 212/2000 e dell’art. 42, d.P.R. n. 600/1973, per avere erroneamente ritenuto che la mancata produzione della copia integrale del processo verbale di constatazione e dei relativi allegati derivasse il mancato assolvimento dell’onere della prova, atteso che, invece, l’avviso di accertamento era congruamente motivato, tanto più che la società aveva avuto conoscenza del suddetto processo verbale di constatazione per averne ricevuto copia;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 7, d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 115, cod. proc. civ., per non avere attivato il potere istruttorio di acquisizione d’ufficio degli elementi di prova, in particolare chiedendone l’esibizione alle parti;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono inammissibili e comunque infondati;

in realtà, parte ricorrente non coglie, con le ragioni di censura prospettate, la ratio decidendi della pronuncia censurata che, in realtà, non è basata sulla valutazione del difetto di motivazione dell’atto impositivo, ma sul diverso versante della mancanza degli elementi di prova a supporto della prospettazione fatta valere con la suddetta pretesa;

quel che, in realtà, il giudice del gravame ha evidenziato è il fatto che la mancata completa allegazione del processo verbale di constatazione e degli allegati non ha consentito alla ricorrente di esercitare adeguatamente il proprio onere di prova, cioè di supportare con adeguati elementi di prova le prospettazioni contenute nell’atto impositivo;

sotto tale profilo, il fatto che l’accertamento sia stato basato sugli elementi del processo verbale di constatazione e che questo sia stato precedentemente reso noto al contribuente, circostanza valorizzata dalla ricorrente, vale a renderlo “perfetto” sotto il profilo della sua motivazione, ma non è sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che “non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione” (Cass. civ., 30 dicembre 2020, n. 29878);

la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, diverse ed entrambe essenziali essendo le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere;

invero, la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 7, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicchè il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative;

invece, la prova attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso, sicchè in definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costituivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo;

pertanto, si è precisato, “è irrilevante che il processo verbale di constatazione sia stato a suo tempo notificato alla società contribuente, dal momento che, a seguito dell’impugnazione giudiziale del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di accertamento dell’imposta, ci si muove in un ambito strettamente processuale, in cui anche, e soprattutto, il giudice, oltre che le parti, deve essere messo in grado di conoscere – e per intero – tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione, fra cui riveste un ruolo primario quello richiamato per relationem nella motivazione del provvedimento impugnato, di guisa che le affermazioni dell’ufficio appellante… non potevano ritenersi acquisite e provate indipendentemente da qualsiasi analisi e/o vaglio critico ed in assenza persino, appunto, del processo verbale che avrebbe dovuto contenere o, quanto meno, indicare, le prove di quanto affermato dai verificatori” (Cass. 5903/2019 e Cass. 5904/2019;  sull’indispensabilità  della  produzione  in  giudizio  del processo verbale di constatazione, tra le altre, v. anche Cass. 3978/2017 e Cass. 21509/2010);

d’altro lato, non è corretta la ragione di censura che attiene all’omessa attivazione dei poteri officiosi di cui all’art. 7, d.lgs. n. 546 del 1992, poiché, secondo questa Corte, la suddetta previsione attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi. (In applicazione di detto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice tributario non potesse esercitare il potere di acquisizione d’ufficio di un processo verbale di constatazione richiamato nell’avviso di rettifica (Cass. 955/2016, Cass. 10401/2018 e Cass. 25563/2017); con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 1, d.P.R. n. 441/1997 in tema di presunzione di cessione dei beni non ritrovati presso il magazzino;

evidenzia parte ricorrente che il legislatore ha specificamente disciplinato le modalità con le quali il contribuente può dare prova del fatto che i beni si trovino presso altri luoghi purchè nella sua disponibilità, sicchè sarebbe erronea la pronuncia per avere ritenuto che la prova poteva essere fornita anche mediante le fatture ed i DDT nei quali era stato indicato quale luogo di consegna delle merci il deposito alternativo, ma senza essere stati debitamente annotati nella contabilità aziendale;

il motivo è fondato;

l’art. 1, comma 3, d.P.R. n. 441/1997, prevede che la disponibilità delle sedi secondarie, filiali o succursali, nonché delle dipendenze, degli stabilimenti, dei negozi, dei depositi, degli altri locali e dei mezzi di trasporto che non emerga dalla iscrizione al registro delle imprese, alla camera di commercio o da altro pubblico registro, può risultare dalla dichiarazione di cui all’articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, se effettuata anteriormente al passaggio dei beni, nonché da altro documento dal quale risulti la destinazione dei beni esistenti presso i luoghi su indicati, annotato in uno dei registri in uso, tenuto ai sensi dell’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972;

è dunque possibile che, a prescindere dalla specifica indicazione del luogo di disponibilità delle ulteriori sedi emergenti dalla iscrizione al registro delle imprese o dalla dichiarazione di cui all’art. 35, cit., la suddetta disponibilità sia provata anche mediante altro documento da cui risulti la destinazione delle merci presso altri luoghi, ma è comunque necessario che tali documenti risultino annotati in uno dei registri in uso;

sotto tale profilo, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto idonee le fatture e i DDT nei quali veniva indicato quale luogo di consegna delle merci il deposito alternativo della società, in quanto, ai fini dell’assolvimento della prova contraria, la società avrebbe dovuto documentare e provare la suddetta annotazione;

con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia in relazione alla questione della inapplicabilità dell’obbligo della tenuta del libro degli inventari a carico della società;

il motivo è assorbito dall’accoglimento del quarto motivo di ricorso;

in conclusione, è fondato il quarto motivo, infondati il primo, secondo e terzo e assorbito il quinto, con conseguente accoglimento del ricorso per il motivo accolto e cassazione della sentenza con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il quarto motivo, infondati il primo, secondo e terzo e inammissibile il quinto, cassa la sentenza censurata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio