Corte di Cassazione, ordinanza n. 7600 depositata il 16 marzo 2023
ricorso in cassazione – dovere di chiarezza e sinteticità
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Chieti respingeva la domanda proposta da A.A. e A.L. volta alla reintegra nel possesso di un immobile sito in Chieti e dei beni mobili ivi contenuti a seguito di asserito spoglio posto in essere dalle parti convenute C.S., A.C. e O.A., quest’ultima in qualità di ufficiale giudiziario procedente per l’attuazione dell’ordine giudiziale di rilascio dell’immobile in forza di precetto su sentenza n. 35 del 2006 del medesimo Tribunale resa in favore di M.I. ed a carico di A.F. procuratore degli attori.
Il giudice di primo grado espletata l’istruttoria evidenziava che non vi era alcun elemento nuovo rispetto a quanto emerso nella fase sommaria in sede di reclamo rispetto alla condotta dei convenuti che non poteva dirsi realizzata nella consapevolezza dell’infondatezza e arbitrarietà della richiesta fondata sul titolo esecutivo.
2. A.A. e A.L. hanno proposto appello avverso la suddetta sentenza.
3. C.S. ha resistito al gravame. A seguito del decesso di quest’ultimo dichiarato dal procuratore costituito si costituivano volontariamente le eredi Letizia Sara Carpineto per sé e per Sarah Carpineto Di Meco e Silvana Carpineto.
4. Rispetto a tale costituzione gli appellanti eccepivano la nullità del processo per violazione dell’articolo 299 c.p.c.
5. La Corte d’Appello rigettava l’eccezione rilevando che non era mai stata dichiarata l’interruzione del processo per il decesso della parte appellata e che le eredi si erano costituite volontariamente e tempestivamente.
6. Ciò premesso la Corte d’Appello evidenziava l’inammissibilità del gravame per essere incomprensibile e non rispettoso dei requisiti di specificità di cui all’articolo 342 c.p.c.
Gli appellanti, infatti, avevano contestato diverse presunte violazione di legge con confuse disquisizioni prive di logica espositiva in ordine un elenco di errori ed omissioni della sentenza di primo grado oltre che delle ordinanze rese in fase cautelare di merito. Tali critiche meramente assertive rimanevano generiche tanto da non indicare un capo specifico della sentenza. Pertanto, anche alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale meno rigoroso, l’appello doveva dichiararsi inammissibile. Lo stesso doveva dirsi quanto alla nullità di tutte le fasi del procedimento ai sensi degli articoli 51 e seguenti c.p.c.
La Corte d’Appello rigettava anche il motivo relativo alla manifesta contraddittorietà dell’iter motivazionale con cui il primo giudice aveva ritenuto insussistente il dolo dei convenuti confermando quanto statuito dal giudice di primo grado circa l’irrilevanza della sentenza del Tribunale di Chieti n. 268 del 2013 di accoglimento dell’opposizione ex articolo 615 c.p.c. proposta in proprio da A.F., in quanto non dimostrava la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo. Tale sentenza non era riferibile ai convenuti e non era neanche passata in giudicato. Quanto alla prova del titolo di possesso e/o detenzione atto a legittimare l’esperita azione l’onere gravava sui ricorrenti/appellanti che non lo avevano assolto posto che tutta la documentazione prodotta non era significativa della loro solo asserita qualifica di socio dirigenti delle associazioni culturali di riferimento del partito Unione Democratica Cristiana la cui sezione locale avrebbe avuto supposta sede nell’immobile di cui è causa. Doveva respingersi, infine, l’ultimo profilo con il quale era eccepita l’apparenza della motivazione in ordine ai beni mobili contenuti nel locale oggetto del preteso spoglio ed alla loro restituzione giacché resa con riferimento al provvedimento assunto dal collegio nella fase di reclamo. La Corte d’Appello evidenziava da un lato la non impugnabilità delle ordinanze rese dal collegio in sede di reclamo e, dall’altro che non vi era alcun vizio di omessa pronuncia ma solo un richiamo per relationem al provvedimento di rigetto del reclamo possessorio.
7. A.L., in qualità di erede di A.A., e A.F. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.
8. Letizia Sara Carpineto ha resistito con controricorso. Le altre parti del giudizio di appello sono rimaste intimate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente deve evidenziarsi che il ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità.
In primo luogo, risultano fondate le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla difesa della parte controricorrente per tardività della notifica del ricorso e per violazione dell’art. 366 c.p.c.
1.1 La notifica del ricorso, infatti, è avvenuta una prima volta il 2 luglio alle ore 23 e 59 e successivamente il 3 luglio 2021 alle ore 1,19. In tale seconda notifica si riporta testualmente la seguente espressione: si rinotifica il file informatico del ricorso per Cassazione avverso la sentenza n. 762/20 della Corte d’Appello dell’Aquila corretto, dopo aver ricontrollato gli atti inviati informaticamente, prima, con precedente pec di cui sotto, con copia stampa errata e diversa da quella stampata ed inviata a mezzo posta, come sotto, col file che si rinvia (sottoscritto digitalmente) contenente manifesti errori di rimpaginazione, con cancellazione dei punti elenco, di numeri e lettere e dei motivi, con pezzo di copia incolla informatico della relata di notifica finale, senza l’eliminazione di quello usato e cancellato nell’altro file a seguito della trasformazione del file originario Word sottoscritto a mano in pdf poi sottoscritto digitalmente con l’invio pec.
Il messaggio sopra testualmente riportato è oggettivamente di difficile comprensione, tuttavia, al di là di ogni altra considerazione, emerge che la prima notifica del 2 luglio è inesistente e che la notifica del presente ricorso, avvenuta il 3 luglio 2021, è tardiva in quanto successiva allo scadere del termine per proporre l’impugnazione.
1.2 Infine, deve evidenziarsi che è fondata anche la seconda eccezione della controricorrente e che il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 366, primo comma, 3, 4, cod. proc. civ. (ratione temporis applicabili), che prescrive che l’atto sia redatto in forma sintetica, con una selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice, in un’ottica di economia processuale, che deve trovare riscontro nella formulazione, altrettanto concisa, dei motivi di ricorso.
Com’è noto, infatti, l’art. 366 cod. proc. civ., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma- contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso.
In proposito il collegio intende ribadire l’orientamento espresso più volte da questa Corte e da ultimo anche a Sezioni Unite con la pronuncia n. 37552 del 2021 secondo cui: «Il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.» (ex plurimis Sez. U, Ord. n. 37552 del 2021).
Nella specie, l’inosservanza del requisito di sinteticità e chiarezza pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (Sez. 5, Sent. n. 8425 del 2020).
Deve osservarsi, infatti, che la sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila – ha già ritenuto inammissibile l’appello proposto da Almo e A.L., con riferimento ai primi due motivi perché confusi privo di logica espositiva e incomprensibili tanto da non rispettare i requisiti di specificità di cui all’articolo 342 c.p.c. Quanto ai restanti motivi la Corte d’Appello li ha ritenuti manifestamente infondati.
Ebbene, alla relativa semplicità delle questioni giuridiche concernenti la controversia, congruamente illustrata nella sentenza impugnata, si contrappone un ricorso di 65 pagine che non rispetta i canoni redazionali della chiarezza e della sinteticità e, anzi, è ponderoso, ipertrofico, con una mescolanza di elementi di fatto ed elementi di diritto che rendono incomprensibile le ragioni delle doglianze, risultando palese la violazione dei principi di sinteticità e chiarezza sopra richiamati.
I motivi, infatti, sono formulati in maniera farraginosa, disordinata confusa, con una prosa involuta, difficilmente comprensibile, appesantita da continue e ridondanti ripetizioni e sovrapposizioni di elementi di fatto e di diritto, rendendo impossibile per il Collegio di discernere le critiche rivolte alla sentenza impugnata in vista del controllo di legittimità. Tale tecnica redazionale non è compatibile con i principi esposti che definiscono le modalità di introduzione del giudizio di legittimità sulla base del disposto dell’articolo 366 c.p.c. come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte.
Risulta pertanto palese la violazione dei principi di sinteticità e chiarezza del ricorso. In relazione a tali principi questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 17698/14, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma secondo, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui
Detta violazione, infatti, rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni assistite dalla sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 366 c.p.c.
Ciò è quanto appunto si verifica nel caso in esame, nel quale i fatti di causa non vengono sinteticamente esposti dal ricorrente, ma sono ricostruiti in modo del tutto disorganizzato demandando all’interprete di ricercarne gli elementi, se del caso ricostruendo una connessione logica tra i plurimi argomenti confusamente dedotti.
1.3 Il Collegio, sulla base delle considerazioni che precedono, intende dare continuità al seguente principio di diritto: In tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (ex plurimis 5, Ord. n. 8009 del 2019).
2. Per le ragioni esposte il ricorso va dichiarato inammissibile; con conseguente assorbimento degli altri profili di inammissibilità. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
3. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 2500, più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;