CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 maggio 2019, n. 11648
Tributi – Dividendi su titoli italiani detenuti da soggetti francesi – Convenzione contro le doppie imposizioni del 5 ottobre 1989 – Diritto al credito d’imposta – Istanza di rimborso – Onere di prova a carico del richiedente
Fatti di causa
Tra il 1996 e il 1999 la CIC E.D. (poi incorporata, per fusione nella C.I. et Commercial-Cc), presentò all’Amministrazione finanziaria 48 istanze di rimborso, per ottenere il pagamento di somme, corrispondenti al credito di imposta, che sarebbe spettato ad un residente, sui dividendi da essa riscossi in virtù delle partecipazioni detenute in società italiane, ai sensi dell’art. 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 7 novembre 1992 n. 20.
L’Agenzia delle Entrate riconobbe la spettanza solo di una parte dei crediti, provvedendo al rimborso, e, per il resto, emise provvedimento di diniego contestando, in sintesi, che l’Istituto di credito non fosse l’effettivo beneficiario dei dividendi ma che lo stesso aveva svolto un’attività di intermediazione a favore di altri operatori allo scopo di incassare per loro conto i dividendi e di consentire loro di fruire dei benefici della Convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni. In sostanza le operazioni contestate consistevano nel formale e temporaneo trasferimento dei titoli dagli operatori esteri alla CIC, all’immediata vigilia dell’incasso dei dividendi, e nell’immediato ritrasferimento agli stessi titoli agli stessi cedenti subito dopo l’incasso dei titoli.
Avverso il diniego la Società propose ricorso che venne rigettato dalla Commissione tributaria di prima istanza con decisione che, appellata dalla Società, è stata integralmente riformata, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo-Sezione distaccata di Pescara (d’ora in poi C.T.R.).
In particolare, il Giudice di appello, premesso che l’Ufficio aveva accolto una parte delle istanze di rimborso, ha ritenuto che, al fine di opporre un legittimo diniego, l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto fornire non una prova “generale”, secondo una ricostruzione astratta, ma provare gli elementi portati da questa tesi per ogni singola operazione. la C.T.R. riteneva, poi, che il prospettato intento elusivo delle operazioni contestate era stato smentito dalla documentazione offerta dalla Società la quale aveva provato che le società terze (con le quali erano state poste in essere le operazioni di stoch loan ovvero il temporaneo trasferimento della titolarità di titoli italiani al momento dello stacco dei dividendi con obbligo di restituzione) erano residenti esse stesse in Francia o nel Regno Unito (Paese con il quale vige analoga convenzione a quella stipulata con la Francia).
Per la cassazione della sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso affidato a quattro motivi .
La Società resiste con controricorso ulteriormente illustrato con il successivo deposito di memoria ex art. 378 cod.proc.civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo dì ricorso l’Agenzia delle entrate deduce la violazione di legge (artt. 2927 e ss cod.civ. e art. 62, co.1, d.lgs.n.546/1992) perpetrata dalla C.T.R. laddove aveva ritenuto il provvedimento di diniego illegittimo perché gli elementi portati dall’Amministrazione.., dovevano essere provati non in modo generale… ma in relazione a ciascuna delle singole operazioni specificamente contestate. In particolare, con il mezzo di impugnazione si censura il capo di sentenza con cui la C.T.R. aveva ritenuto che il metodo statistico-matematico adottato dall’Ufficio per determinare il rapporto percentuale dei titoli posseduto in conto proprio ed in conto altrui non costituisse un idoneo mezzo di prova così ignorando che nel diritto tributario tra le prove ammesse sono comprese anche le prove presuntive.
2. Con il secondo motivo sì deduce, ai sensi dell’art. 360, co 1, n.5 cod. proc.civ. l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare, l’Agenzia delle Entrate evidenzia come la C.T.R. abbia del tutto omesso l’esame di fatti decisivi a lei ritualmente prospettate ovvero, oltre alla circostanza che parte dei documenti attestanti la residenza di alcune società erano delle mere autocertificazioni in fotocopia, e in alcuni casi anche prive di sottoscrizione, il fatto che, in realtà, le principali operazioni erano intervenute con uffici londinesi di soggetti che, in origine, non avrebbero avuto diritto al suddetto credito di imposta perché meri soggetti intermediari.
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.10 della Convenzione tra Italia e Francia contro le doppie imposizioni. Secondo la prospettazione difensiva il fatto che le società con le quali la ricorrente aveva posto in essere le operazioni, in contestazione, avessero residenza in Francia o nel Regno Unito non era comunque sufficiente a fondare il diritto al rimborso, in quanto, in ogni caso, era necessario che il soggetto richiedente fosse “l’effettivo benificiario” dei dividendi.
4. Con il quarto motivo, infine, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600. La ricorrente evidenziava, in particolare, come la corretta ricostruzione della vicenda, invece, alterata dagli errori in diritto e dalle omissioni in cui erano incorsi i giudici di appello, consentisse di ritenere che la Società, attraverso l’attività di arbitraggio fiscale estero su estero secondo schemi d dividendi washing, prevalentemente a mezzo di operazioni di stock loan o securities lending intrattenute con operatori esteri, non legati all’Italia da una Convenzione che conceda un credito di imposta aveva posto in essere una condotta abusiva.
5. I primi tre motivi, concernenti sotto profili diversi la medesima questione, possono trattarsi congiuntamente e sono fondati, con conseguente assorbimento del quarto motivo.
5.1 Premesso che, in ordine al primo motivo di ricorso, va rilevato (come, peraltro, dato atto anche dalla controricorrente) che l’indicazione in rubrica dell’art. 2927 cod.civ., anzicchè dell’esatto art. 2729 cod. civ., è frutto di un mero errore dattilografico, emergendo, dalle argomentazioni svolte a sostegno del mezzo di impugnazione, che la norma violata fosse quella relativa al regime delle presunzioni, va, altresì, respinta l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata in controricorso, risultando che, con il mezzo, la ricorrente ha censurato l’errore in diritto, in cui era incorso il Giudice di appello, nel non ritenere legittima fonte di prova il metodo statistico matematico adottato dall’Ufficio, richiedendo invece una prova “piena” per ogni singola operazione.
5.2 In proposito, ritiene il Collegio, condividendolo, di dare seguito al principio già esposto da questa Corte, in vicenda processuale, analoga alla presente, traente origine, come l’odierna, da un diniego al chiesto rimborso del credito di imposta da dividendi fondato sulla medesima metodologia, seguita dall’Ufficio al fine di disconoscere la debenza del chiesto credito di imposta a seguito della stessa indagine compiuta dalla Guardia di finanza dalla quale è scaturita l’odierna controversia. In particolare, con la sentenza n. 18397 del 12 luglio 2018, questa Corte, sulla base del principio di carattere generale secondo cui grava sul contribuente che chiede il rimborso il relativo onere probatorio, ha statuito che: «in tema d’imposte sui dividendi azionari, ai sensi dell’art. 10, par. 5, della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con l. n. 329 del 1990), una società inglese che intende beneficiare del credito di imposta sulle cedole riscosse da una società residente in Italia ha l’onere di provare, su richiesta dell’autorità competente, di avere acquistato la partecipazione azionaria nell’ambito della sua normale attività e, pertanto, che l’operazione non aveva quale specifica finalità il conseguimento del detto credito di imposta».
5.3 Tale principio ribadisce l’orientamento giurisprudenziale di legittimità, già espresso con le sentenze n.ri 4164 del 20/02/2013, 18628 del 23/09/2016 e, con specifico riferimento alla Convenzione Italia Francia, da Cass. 27/12/2018 n.22407).
Si è, infatti, rilevato che «il diritto al credito di imposta sancito dall’art. 10, paragrafi 2 e 4, della Convenzione tra Italia e Regno Unito per evitare le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con legge 5 novembre 1990, n. 329), presuppone la duplice dimostrazione che la società del Regno Unito che riceve i dividendi ne sia “la effettiva beneficiaria” e che la società che “riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta nel Regno Unito”, gravandone il corrispondente onere probatorio – che investe gli elementi costitutivi del diritto del contribuente beneficiario dei dividendi a non subire una seconda tassazione della stessa ricchezza già tassata in capo alla società, e di conseguire il rimborso di quanto indebitamente pagato – sulla società che abbia percepito i predetti dividendi. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto non fornita dalla società inglese resistente siffatta dimostrazione ed ha configurato l’operazione dalla stessa posta in essere con una controllata italiana cioè la conversione del debito di quest’ultima verso la prima per i dividendi, in un mutuo fruttifero, con sostituzione dell’originaria obbligazione di distribuzione dei dividendi in una restituzione scaturente dal predetto mutuo come condotta abusiva, poiché elusiva della normativa fiscale inglese e, contemporaneamente, diretta a conseguire un indebito rimborso di imposta).
5.4 In particolare, poi, per quello che concerne più specificamente le questioni oggetto di ricorso, è stato condivisibilmente affermato, da un canto, che, in ipotesi di contenzioso sorto a seguito di diniego di rimborso, è il soggetto che chiede il rimborso a dovere dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti del diritto fatto valere e, dall’altra parte, l’Amministrazione finanziaria può difendersi «a tutto campo»; dall’altro, con argomentazione integralmente trasferibile alla fattispecie, che il giudice di appello, nel ritenere che “gli elementi offerti dall’Amministrazione andavano provati non in generale ma in relazione a ciascuna delle operazioni contestate” ha erroneamente trasferito in capo all’Erario un onere probatorio che, invece, ai sensi della stessa Convenzione invocata grava sulla società estera che intenda avvalersi del credito di imposta (cfr. Cass. n. 18397/2018 cit.).
5.5. Deve, ancora e con particolare riguardo alla questione sollevata con il terzo motivo di ricorso, (come dalla giurisprudenza di legittimità consolidata sopra richiamata) ritenersi pacifico che, al fine di ottenere il chiesto credito di imposta, costituisce requisito imprescindibile la dimostrazione di essere “l’effettivo beneficiario” dei dividendi (v. in tal senso, oltre le sentenze sopra citate, in applicazione della Convenzione Italia/Francia e con riferimento anche alla direttiva madre figlia 23 luglio 1990 n. 453790/CEE, Cass. n. 33407/2018 in motivazione).
5.6. Applicando tali principi alla fattispecie, emerge, pertanto, evidente, l’errore in diritto del Giudice di appello nel negare, a fronte dell’onere probatorio gravante sul richiedente il rimborso, ogni valenza probatoria agli elementi presuntivi forniti dall’Ufficio.
5.7. Altrettanto evidente è poi l’omesso esame, da parte della C.T.R., dei fatti decisivi portati al suo esame da parte dell’Agenzia delle entrate (come specificamente, riportati in ricorso ovvero l’irrilevanza delle autocertificazioni tendenti a dimostrare la residenza in Francia o nel Regno Unito di alcune società ed istituti di credito che avrebbero ordinato le transazioni oggetto di rilievo a fronte del fatto, contestato, che le principali transazioni erano avvenute con uffici londinesi di soggetti che in origine non avrebbero avuto diritto al credito di imposta e che, in definitiva, i soggetti residenti nel Regno Unito, in Francia o in Italia che avrebbero negoziato lo scambio dei titoli erano dei semplici intermediari ovvero dei brokers, agenti per conto di altre Banche di affari residenti in Paesi extraeuropei); elementi, tutti decisivi al fine dell’accertamento dell’effettività della qualità di beneficiario del richiedente il rimborso e che, ove, compiutamente valutati, avrebbero potuto condurre ad una diversa soluzione della controversia.
6 La fondatezza dei primi tre motivi, assorbe l’esame del quarto.
7 In conclusione, in accoglimento dei primi tre motivi, assorbito il quarto, la sentenza impugnata va cassata e va disposto il rinvio al Giudice di merito affinchè proceda al riesame adeguandosi ai superiori principi e fornendo congrua motivazione, e regoli le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i primi tre motivi di ricorso, assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
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