CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 gennaio 2019, n. 83
Licenziamento – Impugnazione – Reclamo ex Legge n. 92 del 2012 – Termine
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza pubblicata in data 28 gennaio 2016, ha dichiarato inammissibile il reclamo ex lege n. 92 del 2012 proposto da S. U. nei confronti della E. C. Spa avverso la sentenza n. 185/2015 del Tribunale di Como avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimato dalla società in data 3 maggio 2013.
2. La Corte ha ritenuto che il reclamo era stato depositato presso la cancelleria in data 8 luglio 2015, oltre il termine di 30 giorni previsto dall’art. 1, co. 58, l. n. 92 del 2012, decorrente dalla data della comunicazione del provvedimento decisorio inviata a mezzo PEC dalla cancelleria del Tribunale di Como il 29 maggio 2015 ai procuratori costituiti presso l’indirizzo risultante dall’Albo degli Avvocati di Como.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso S. U. con 4 motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso denuncia “falsa applicazione dell’art. 1 comma 58 l. n. 92/2012 con lettura combinata delle norme di cui agli artt. 285 c.p.c., 170 c.p.c. e 137 c.p.c.”, sostenendosi che la disposizione citata “non prevede alcun potere in capo alla cancelleria di un qualsivoglia Tribunale di comunicare e/o notificare sentenze tale da far decorrere il termine di 30 giorni per proporre appello” e che “la notificazione, per far decorrere il termine breve, poteva essere eseguita solo su istanza di parte ai sensi dell’art. 285 c.p.c. combinato con l’art. 170 c.p.c. e comunque nelle forme di cui all’art. 137 c.p.c.”.
Unitamente può essere esaminato per connessione il terzo mezzo di gravame con cui si denuncia “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. con riferimento art. 1, co. 58, l. n. 92/2012, combinato con il comma 1 d.l. n. 90/14 conv. in l. n. 114/14 che ha modificato l’art. 133 comma 2 c.p.c.” contestando ancora l’idoneità della comunicazione di cancelleria a far decorrere i termini per l’impugnazione ex art. 325 c.p.c.
I motivi sono privi di fondamento.
L’art. 1, co. 58, l. n. 92 del 2012, prevede espressamente che, contro la sentenza che decide sul ricorso in opposizione è ammesso reclamo davanti alla corte d’appello, “da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore”.
Non è mai stato posto in dubbio che la “comunicazione” menzionata nella disposizione è quella effettuata dalla cancelleria a mente dell’art. 133, co. 2, c.p.c. – rubricato pubblicazione e comunicazione della sentenza – “mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza” che può essere, ai sensi dell’art. 136, co. 2, c.p.c., “consegnato dal cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, ovvero trasmesso a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.
Tanto che questa Corte ha statuito che la modifica dell’art. 133 c.p.c., secondo cui “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325″, attiene al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria, sicché non può investire, neppure indirettamente, le previsioni speciali che appunto in via derogatoria, comportino la decorrenza di termini – anche perentori – dalla semplice comunicazione del provvedimento, e tale è certamente il caso previsto dall’art. 1, commi 58 e 62, l. n. 92 del 2012 (cfr. Cass. n. 6059 del 2018; Cass. n. 19177 del 2016; Cass. n. 23526 del 2014, avallata da Cass. SS.UU. n. 25208 del 2015).
Del tutto inappropriato il richiamo di parte ricorrente, a preteso sostegno delle sue tesi, a Cass. n. 23526 del 2014 che non solo individua, nel vigente ordinamento processuale, una serie di ipotesi in cui la previsione della decorrenza di termini perentori per impugnare è ancorata alla mera comunicazione del provvedimento che ne sarebbe oggetto, senza che possa applicarsi la modifica dell’art. 133 c.p.c. innanzi citata, ma afferma finanche che in tali casi resta “irrilevante che la comunicazione sia integrale o meno”.
2. Il secondo motivo di impugnazione denuncia “falsa applicazione della l. n. 92/2012 con lettura combinata del comma 1 dell’art. 125 c.p.c. come modificato dall’art. 45 bis, d.l. n. 90/2014”.
Si censura quella parte della sentenza impugnata che, per giustificare l’improcedibilità del reclamo, ha rilevato che “all’atto del deposito del ricorso in opposizione presso la cancelleria del Tribunale di Como, avvenuto il 24.11.2014, era già entrata in vigore l’ultima delle modifiche apportate al comma 1 dell’art. 125 c.p.c. dall’art. 45 bis d.l. n. 90/2014 (entrato in vigore tale articolo il 19 agosto 2014), con la conseguenza che l’indicazione dell’indirizzo PEC fatta dai difensori dell’odierno reclamante nel ricorso in opposizione era del tutto superflua, dovendo gli stessi indicare in tale atto il solo numero di fax. Deve, quindi, escludersi che gli stessi avessero la facoltà di indicare uno specifico indirizzo PEC ai fini delle comunicazioni di cancelleria .
Si sostiene “che le norme applicabili al procedimento sono quelle in vigore al momento dell’introduzione del ricorso (ndr. della fase sommaria introdotta con atto depositato il 12 novembre 2013) e non quelle entrate in vigore durante lo scorrere di tutte le fasi dettate dalla legge 92/2012 e comunque successive al ricorso introduttivo”, per cui “andava applicato l’art. 125 c.p.c. previgente che permetteva alla parte di indicare l’indirizzo di posta elettronica ai fini della comunicazione di cancelleria”.
Analoga censura è contenuta incidentalmente anche nel terzo motivo di ricorso in cui pure si lamenta che la notificazione a mezzo PEC della sentenza di primo grado non sia stata inviata all’indirizzo di posta elettronica indicato nell’atto difensivo di opposizione.
In memoria ex art. 378 c.p.c. si sostiene la tesi che detta indicazione prevarrebbe sulla “PEC risultante dai pubblici elenchi o da elenchi accessibili alla pubblica amministrazione”.
La critica è infondata perché la Corte territoriale ha correttamente osservato il principio del tempus regit actum applicando la regola processuale vigente al momento in cui la cancelleria ha effettuato la comunicazione della sentenza resa all’esito del giudizio di opposizione, peraltro introdotto con ricorso quando già l’ultima parte dell’art. 125 c.p.c. era stata modificata dall’art. 45 bis, co. 1, d.l. n. 90 del 2014, conv. con modificazioni nella l. n. 114 del 2014, nel senso che il difensore nell’atto deve indicare solo il numero di fax.
Inoltre l’art. 16-sexies (rubricato “Domicilio digitale”) del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, come introdotto dall’art. 52 del d.l. 25 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’articolo 366 del codice di procedura civile, quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all’articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.
Secondo le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 23620 del 2018) tale norma, dunque, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione), imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui all’art. 6-bis del d.lgs. n. 82 del 2005 (codice dell’amministrazione digitale) ovvero presso il ReGIndE, di cui al d.m. n. 44 del 2011, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato art. 6 bis del d. Igs. n. 82 del 2005, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE. Né può omettersi di considerare che l’art. 5 della legge n. 53 del 1994 espressamente prevede che l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.
La prescrizione dell’art. 16-sexies prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo PEC del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE, depotenziando “la portata dell’elezione di domicilio fisico” (così Cass. n. 30139 del 2017), sicché “l’indirizzo telematico per ricevere le comunicazioni a mezzo PEC dalla Cancelleria non è quello che può essere presente negli scritti difensivi” (in termini Cass. n. 25948 del 2018).
L’art. 16-sexies citato, entrato in vigore il 19 agosto 2014, trova immediata efficacia nei giudizi in corso per gli atti compiuti successivamente alla sua vigenza, in applicazione del principio (non derogato dalla citata legge n. 114 del 2014 attraverso l’indicazione di una diversa specifica decorrenza della citata norma processuale) del tempus regit actum (tra le tante, Cass. n. 17570 del 2013; Cass. n. 5925 del 2016; Cass. n. 1635 del 2017).
3. Con l’ultimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” in quanto “la Corte di Appello di Milano ha errato nel dichiarare che il reclamo è stato depositato presso la cancelleria di questa Corte di Appello in data 8.7.2015, oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art. 1, co. 58, l. n. 92/2012 decorrente nella presente controversia dalla data di comunicazione del provvedimento decisorio inviato in versione integrale a mezzo PEC dalla cancelleria del Tribunale di Como il 29.5.2015 o meglio nel dedurre che l’atto che si dice essere stato trasmesso fosse in forma integrale”.
Si eccepisce che non vi sarebbe prova che la comunicazione di cancelleria contenesse la sentenza di primo grado in versione integrale.
Anche tale motivo non può trovare accoglimento non solo perché denuncia ai sensi dei nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., esplicitamente richiamati, un preteso errore di attività del giudice che avrebbe dovuto essere censurato secondo i canoni propri del n. 4 dello stesso articolo, ma anche perché volto a criticare un accertamento di fatto compiuto dalla Corte del merito, senza neanche specificare quando e in quale modo sia stato contestato che la comunicazione della cancelleria non contenesse in allegato la versione integrale della sentenza impugnata, onde venisse sollecitato il contraddittorio sul punto.
Peraltro questa Corte ha già avuto modo di rilevare (cfr. Cass. n. 19177 del 2016 e n. 10017 del 2016) come la disciplina dettata dal codice di rito, all’art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c., come modificato dal d.l. 18.10.2012 n. 179, conv. in l. n. 221 del 2012, stabilisce che “il biglietto contiene in ogni caso ….il testo integrale del provvedimento comunicato”; necessità della comunicazione del testo integrale poi ribadita dal d.l. 24.6.2014 n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, che ha modificato l’art. 133 c.p.c., secondo cui, entro cinque giorni dal deposito della sentenza, il cancelliere, “mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti costituite”, sicché la comunicazione integrale del provvedimento, anche per le sue modalità telematiche, può ritenersi la regola di cui si presume l’osservanza e che può essere vinta dalla prova contraria.
4. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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