CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2018, n. 31495
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Lettera di recesso – Mancanza di una chiara indicazione della firma del sottoscrittore – Ricollocazione – Prova
Fatti di causa
Con sentenza in data 6 ottobre 2016, la Corte d’appello di Milano rigettava l’appello proposto da F.G. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione della sua impugnazione di illegittimità del licenziamento intimatogli il 3 maggio 2011 da I.S. s.p.a. per giustificato motivo oggettivo e delle conseguenti domande di condanna reintegratoria e risarcitoria, sul previo accertamento dell’imputabilità del rapporto di lavoro alla capogruppo I.S. Holding s.p.a.
Preliminarmente esclusa l’illegittimità del licenziamento per mancanza di una chiara indicazione della firma del sottoscrittore della lettera di recesso e dei relativi poteri, la Corte territoriale riteneva, anche in esito all’istruzione orale disposta, l’effettiva sussistenza della riorganizzazione aziendale a giustificazione del provvedimento, che aveva comportato anche la soppressione dell’area Nielse 1 (comprendente Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), per il settore vini, diretta da F.G., per una criticità del mercato nazionale produttiva di un documentato calo delle vendite.
Essa escludeva poi la violazione dell’obbligo datoriale di repechage, per la prova della mancanza di aree alternative per una possibile (ri)collocazione del predetto, al momento del suo licenziamento; neppure potendogli essere offerte mansioni inferiori, per le quali la società datrice aveva assunto personale a tempo determinato, in quanto relative ad attività (di supporto alle vendite verso i grossisti a diretto riporto dell’Area Manager o del Responsabile Training e Sviluppo Centrale Ingrosso Wine & Spirits) oggettivamente non rientranti nel suo bagaglio professionale.
Infine, neppure ricorreva, secondo l’accertamento della Corte milanese, il presupposto per la rivendicata precedenza nella riassunzione, ai sensi dell’art. 15 I. 264/1949, in assenza di nuove assunzioni.
Avverso tale sentenza il lavoratore, con atto notificato il 5 (10) aprile 2017, ricorreva per cassazione con tre motivi, cui resistevano le due società con unico controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 276, 420, 437 c.p.c. quale error in procedendo, per inosservanza del principio di immutabilità del collegio decidente, variato nella composizione rispetto a quello di fronte al quale era stata discussa integralmente la causa ad un’udienza, al cui esito tuttavia, anziché la pronuncia del dispositivo (inizialmente riservata al relativo verbale di udienza 17 dicembre 2012, poi corretto manualmente), ne era stato operato un rinvio ad una successiva (22 marzo 2016) per l’escussione di un ultimo teste, finalmente seguita da quella di decisione (14 settembre 2016) ma a cura di un diverso collegio, dopo una discussione per giunta limitata, su espresso invito della Corte, ai soli profili di rilievo emersi dall’ultima deposizione, senza presentazione di nuove conclusioni.
2. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 5 I. 604/1966, 1375 e 2697 c.c., per la deliberata inosservanza dell’obbligo datoriale di repechage, per la pretestuosa modulazione dell’impossibilità di collocazione del lavoratore al momento del suo licenziamento (3 maggio 2011) in mansioni equivalenti, nonostante la conoscenza della loro disponibilità (per le dimissioni di due capi area comunicate con lettere ricevute da I.S. s.p.a. il 20 aprile 2011) ancorchè non immediata ma prossima (per la fissazione della loro decorrenza dal 31 maggio 2011), per la cui copertura erano compiute poco tempo dopo due nuove assunzioni, per la prima volta alle dipendenze, anziché (come sempre per il personale dell’area commerciale) di I.S. s.p.a., formalmente di S. s.p.a. (appartenente allo stesso gruppo diretto da I.S. Holding s.p.a., pressocchè totalitariamente partecipante le due prime società, nella titolarità della medesima famiglia e avente la diretta gestione del personale), dopo una lettera di insoddisfazione per la nuova organizzazione (il 20 giugno 2011, a meno di due settimane dalla sua comunicazione dalla holding: il 7 giugno 2011), a giustificazione della propria determinazione di sperimentazione di un contatto diretto con la clientela. Né la società datrice aveva, in subordine, neppure offerto al lavoratore mansioni inferiori, per le quali erano state effettuate numerose assunzioni a tempo determinato, ma di cui la Corte territoriale aveva escluso la pertinenza ad attività oggettivamente rientranti nel suo bagaglio professionale, senza alcuna allegazione (né tanto meno prova) di ciò da parte datoriale.
3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 15 I. 264/1949, per il mancato riconoscimento del diritto di precedenza spettante al lavoratore nei sei mesi successivi al licenziamento in caso di nuove assunzioni (indubitabilmente effettuate per i due capi area suindicati), con diritto al risarcimento del danno richiesto.
4. Il primo motivo, relativo a nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 276, 420, 437 c.p.c. quale error in procedendo per inosservanza del principio di immutabilità del collegio decidente, è infondato.
4.1. Risulta, infatti, che sia stato rispettato il principio di immutabilità del giudice in riferimento all’inizio della discussione, sicché, anche nel rito del lavoro, ciò che rileva è la sola diversità di composizione tra il collegio che abbia assistito alla stessa e quello che abbia deciso (Cass. 10 agosto 2006, n. 18156; Cass. 15 settembre 2016, n. 18126). E nel caso di specie, il collegio decidente ha identica composizione di quello davanti al quale è avvenuta la discussione finale: essendo poi irrilevante che essa sia stata inizialmente avviata in un’udienza precedente davanti a collegio in diversa composizione; posto che al suo esito è stato disposto un supplemento istruttorio esperito in altra udienza, precedente quella di discussione (davvero) finale, evidentemente in alcun modo menomata dall’invito della Corte alla sua focalizzazione su un punto particolare indicato ai difensori delle parti.
5. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 5 I. 604/1966, 1375 e 2697 c.c. per la deliberata inosservanza dell’obbligo datoriale di repechage per la pretestuosa modulazione dell’impossibilità di collocazione, al momento del suo licenziamento, del lavoratore cui neppure offerte mansioni inferiori nonostante numerose assunzioni per esse, è invece fondato.
5.1. Giova premettere la corretta denuncia del vizio di violazione di legge, sotto il profilo dell’erronea sussunzione della fattispecie nella previsione normativa, di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sindacabile dal giudice anche nelle ragioni, qualora esse risultino pretestuose: e non soltanto in relazione alla riorganizzazione aziendale comportante soppressione di posizioni lavorative (Cass. 30 novembre 2010, n. 24235), ma anche in relazione alla possibilità di repechage del lavoratore licenziando. Pure esso integra, infatti, elemento costitutivo della fattispecie (come ancora recentemente ha ricordato questa Corte, in particolare riferimento alla verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18, settimo comma I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012: Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), che deve essere esercitato in attuazione del principio di buona fede (Cass. 8 marzo 2016, n. 4509), trovando giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, non condizionabile da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882).
5.2. Sicchè, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato (Cass. 22 agosto 2003, n. 12367; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112).
5.3. Ebbene, l’errore di diritto commesso dalla Corte territoriale (e appropriatamente censurato dal lavoratore ricorrente, per le ragioni dette) consiste proprio nella valutazione, per così dire, “istantanea” della possibilità di collocazione del predetto, anziché in riferimento ad un congruo arco temporale successivo, nel quale non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato, rilevante quale presunzione semplice di effettiva impossibilità di utile (re)impiego del lavoratore (Cass. 20 maggio 2009, n. 11720; Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112; Cass. 24 giugno 2015, n. 13116) e che trova anche eloquente riscontro normativo nel diritto di precedenza riconosciuto dall’art. 15 I. 264/1949.
5.4. Nel caso di specie addirittura, indipendentemente dalla natura reale (Cass. 23 luglio 2004, n. 13883) ovvero obbligatoria (Cass. 21 maggio 2007, n. 11740; Cass. 11 giugno 2008, n. 15495; Cass. 5 ottobre 2009, n. 21216; Cass. 4 novembre 2010, n. 22443) del preavviso del lavoratore che si dimetta (nell’esercizio di un negozio unilaterale recettizio, ritenuto idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui l’atto venga a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla sua volontà di accettazione: Cass. 4 ottobre 2007, n. 20787; Cass. 7 gennaio 2009, n. 57; Cass. 29 aprile 2011, n. 9575), la Corte territoriale ha accertato che la società datrice fosse a conoscenza, al momento del licenziamento, della disponibilità (se non, volendo, già attuale, quanto meno) imminente di due posizioni di capo area dimissionari (così al penultimo capoverso di pg. 8 della sentenza), comportanti mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore nella posizione soppressa. Ed essa ha parimenti accertato, senza peraltro coglierne le esatte implicazioni, la loro copertura poco tempo dopo con due nuove assunzioni: per giunta, alle dipendenze per la prima volta, anziché (come sempre per il personale dell’area commerciale) di I.S. s.p.a., formalmente di S. s.p.a. (appartenente allo stesso gruppo diretto da I.S. Holding s.p.a., pressocchè totalitariamente partecipante le due prime società, nella titolarità della medesima famiglia e avente la diretta gestione del personale): singolarmente giustificata da un’insoddisfazione per la nuova organizzazione (comunicata dalla holding il 7 giugno 2011) immediatamente maturata e manifestata con una lettera di neppure due settimane successiva (del 20 giugno 2011), recante la decisione appunto di sperimentazione per le aree del Sud Italia di un contatto diretto con la clientela (così primo capoverso di pg. 9 al quinto di pg. 10 della sentenza).
5.5. Appare allora evidente come sia sostanzialmente irrilevante ogni riferimento in senso proprio alla “codatorialità”, ovvero alla sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, che imponga la valutazione di assolvimento dell’obbligo di repechage in relazione a tutte le società del gruppo, nell’insufficienza, ai fini di tale estensione, della mera deduzione dell’esistenza di un gruppo di imprese (Cass. 31 maggio 2017, n. 13809; Cass. 9 maggio 2018, n. 11166).
Il riferimento al complessivo quadro di rapporti di gruppo tra I.S. s.p.a., S. s.p.a. e I.S. Holding s.p.a. rileva piuttosto alla stregua di elemento indiziario da apprezzare nell’ambito di una valutazione globale (insieme con la conoscenza datoriale, al momento del licenziamento, di posizioni lavorative comportanti mansioni equivalenti e con le assunzioni avvenute in epoca immediatamente successiva proprio a loro copertura) della corretta applicazione del principio di buona fede nell’assoluzione dell’obbligo datoriale di repechage, in coerenza con i suenunciati principi di diritto: non già in funzione di un nuovo apprezzamento di merito né di una ricostruzione del fatto, che è stato compiutamente accertato, palesemente insindacabili in sede di legittimità.
6. Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 15 I. 264/1949, per il mancato riconoscimento del diritto di precedenza spettante al lavoratore, è infine assorbito.
7. Dalle superiori argomentazioni discende coerente l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo ed assorbito il terzo, con la cassazione della sentenza e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo ed assorbito il terzo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.
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