CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 giugno 2018, n. 15029
Licenziamento – Procedura di mobilità – Accordo sindacale – Violazione – Proposta di incentivazione all’esodo – Esperimento di tentativi di ricollocazione per personale in esubero
Fatti di causa
1. Con sentenza del 9.2.2016, la Corte di appello di Milano confermava la pronunzia resa dal locale Tribunale che aveva respinto l’opposizione di B.A. e V.A. avverso l’ordinanza di rigetto dell’impugnativa di licenziamento loro intimato da F.P.T. s.p.a. all’esito di procedura di mobilità aperta con missiva del 24.9.2013.
2. La Corte rilevava che correttamente il primo giudice aveva escluso ogni violazione da parte della società degli impegni assunti con l’accordo sindacale del 6.4.2011 e con quello del 24.11.2011, che si esprimeva in analoghi termini, sicchè, essendo pacifica l’assenza di opportunità nei sensi indicati in tali accordi ed essendo stata effettuata ai reclamanti proposta di incentivazione all’esodo, non poteva riscontrarsi violazione alcuna, a prescindere dal fatto gli appellanti erano estranei agli accori suddetti, per non esserne stati parte nè direttamente, né tramite l’organizzazione sindacale di appartenenza.
3. Ai fini dell’operatività dell’art. 1411 c.c. invocata dai ricorrenti, doveva essere sussistente un vero e proprio diritto soggettivo, nella specie non riscontrabile, non essendo sufficiente il mero vantaggio economico che il terzo potesse riceverne.
4. Il giudice del gravame aggiungeva che la reclamata aveva, poi, documentato l’esperimento di tentativi di ricollocazione per personale in esubero e, con riguardo alle altre doglianze, osservava che doveva essere disattesa la tesi della unitarietà del centro di imputazione del rapporto di lavoro, per essere F.P.T. una componente produttiva di F.A., successivamente resa formalmente autonoma e poi interessata da ulteriori vicende che non ne avevano mai comportato l’integrazione nella struttura organizzativa di F.A. Né vi era stata violazione dell’art. 2112 c.c., essendo lo stabilimento di Arese presso cui operavano i reclamanti, escluso dal ramo di azienda oggetto di cessione e non essendo stato il diritto degli stessi ad essere compresi nel ramo ceduto oggetto di impugnativa stragiudiziale, né di alcuna domanda giudiziale, il che comprovava la maturata decadenza di cui all’art. 32 I. 183/10.
5. Evidenziava, infine, che la cessione aveva costituito oggetto di esame congiunto in sede sindacale e, quanto alle altre censure, ed in modo dirimente, che l’attività produttiva nel sito di Arese era cessata e che detta cessazione aveva costituito il presupposto per l’ottenimento della CIGS, all’esito della quale tutti i dipendenti erano stati licenziati.
6. Di tale decisione domandano la cassazione l’A.B. e l’ A.V., affidando l’impugnazione a sei motivi, cui resiste, con controricorso, la società.
7. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, viene denunziata violazione degli artt. 1175, 1366, 1375 e 1411 c.c., sostenendosi che la società era stata inadempiente rispetto agli obblighi occupazionali assunti in relazione al sito di Arese con la sottoscrizione da parte di F.A. di accordi di programma, convenzioni e protocolli con enti locali ed altre società collegate o partecipate, con il risultato sostanziale di licenziare progressivamente quasi tutti i 20000 dipendenti in servizio all’A.R. dopo essersi impossessata del marchio, del know how, delle aree e degli stabilimenti posti in posizione strategica, oltre che della professionalità dei lavoratori, per poi disfarsene al raggiungimento, da parte degli stessi, di un’avanzata età lavorativa. Si assume che, nonostante gli impegni al mantenimento dei posti di lavoro, si era proceduto alla cessione del ramo d’azienda a F. G.A. s.p.a. unitamente a tutti i propri dipendenti, con la sola eccezione di quelli assegnati all’area di Arese, ai quali si era riservato il licenziamento per cui è causa. Tale comportamento, secondo i ricorrenti, mostrava innegabile violazione dei principi di buona fede, con la conseguenza che doveva ritenersi l’illegittimità dei licenziamenti operati in violazione anche degli impegni assunti con gli accordi del 6.4.2011 e del 24.11.2011 di ricollocazione degli esuberi, essendo la corrispondenza intercorsa tra le parti del tutto inidonea a provare l’assolvimento, da parte della società convenuta, degli obblighi assunti con i citati accordi, cui non era stata data esecuzione e di cui i lavoratori dovevano essere ritenuti beneficiari al di là del loro valore precettivo diretto ed immediato, ai sensi dell’art. 1411 c.c.
2. Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 115 e 416 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., assumendosi che la Corte non abbia tenuto conto della particolarità del gruppo cui si faceva riferimento, né della complessità degli intrecci societari, specialmente con riguardo alla questione dell’onere probatorio ed al principio della vicinanza della prova, a prescindere dal rilievo che, all’atto di cessione del ramo d’azienda, tutti i dipendenti di F.P.T. erano stati inglobati in F.A. s.p.a., ad eccezione dei soli ricorrenti. Si aggiunge che nel rito del lavoro l’art. 421, secondo comma, c.p.c. consente al giudice di disporre in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova anche al di fuori dai limiti stabiliti dal codice civile.
3. Violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 32 l. 183/10 e dell’art. 2112 c.c. è dedotta con il terzo motivo, con il quale si contesta quanto affermato in sentenza, rilevandosi che tutta l’attività svolta da F.P., compresa quella effettuata dagli opponenti presso il sito di Arese, aveva costituito oggetto della cessione, con ciò dovendo configurarsi un trasferimento di azienda e non di ramo e che anche i ricorrenti dovevano essere trasferiti presso F.G.A., sicchè la loro esclusione integrava un indiscutibile atteggiamento discriminatorio.
4. Il quarto motivo ascrive alla decisione impugnata violazione degli artt. 115, 416 c.p.c. e 2697 c.c., sul rilievo che spettava al datore di lavoro la prova dell’avvenuta cessazione dell’attività aziendale, posto che l’asserzione secondo cui la società era ancora attiva non era stata mai contestata da controparte.
5. Con il quinto, ci si duole della violazione degli artt. 4 e 5 I. 223/91, della Direttiva 2002/14/CE e della direttiva 98/59/CE, sull’assunto che gli obblighi di informazione nella fattispecie non risultano essere stati adeguatamente soddisfatti. Il punto oggetto di critica è la incompletezza delle comunicazioni preventive e successive in relazione al fatto che il licenziamento aveva interessato solo dodici lavoratori, a fronte dei sedici operai interessati dalla procedura di mobilità.
6. L’ultimo motivo si fonda sull’asserita violazione dell’art. 92 c.p.c., sul rilievo che la complessità ed il grado di controvertibilità delle questioni trattate, unitamente alla posizione di soggetto più debole della parte soccombente, dovevano indurre alla compensazione delle spese di lite.
7. Preliminarmente, ritiene il Collegio che ogni questione sollevata nella memoria depositata da F.C.A. Italy Holdings s.p.a (già F.P.T. s.p.a) con riguardo alla posizione di A.V. già interessato da precedente licenziamento, ritenuto in sede giudiziale legittimo (v. Cass. 4.5.2017 n. 10847, allegata alla memoria), rimane assorbita dal presente giudizio.
8. Quanto al primo motivo, si osserva che il comportamento della società è stato dalla Corte del merito ritenuto coerente con il contenuto dell’accordo del 6.4.2011, quale riportato in atti, per non avere quest’ultimo previsto alcuno specifico obbligo di ricollocazione dei lavoratori, ma unicamente l’impegno della società a “favorire” trasferimenti individuali per coloro che ne avessero manifestato la disponibilità, a “coltivare” iniziative di incentivazione economica all’esodo, a valutare “le eventuali esigenze provenienti da altri Enti/Stabilimenti e Società del Gruppo F. o di altri soggetti ai fini della ricollocazione dei lavoratori” e per non avere formato la ricollocazione, all’evidenza, oggetto di un impegno preciso e vincolante, bensì di una mera “valutazione” di possibili esigenze di terzi, qualora manifestate. Analoga coerenza è stata ravvisata sulla base di uguali valutazioni anche con riguardo all’accordo del 24.11.2011, che si esprimeva in termini sovrapponibili, sicchè, a fronte di una tale interpretazione, non può prospettarsi unicamente una questione di differente valutazione di accordo aziendale, essendo preclusa un’interpretazione diretta dello stesso, che non rientra tra i contratti richiamati dall’art. 360, n. 3, c.p.c. così come riformulato dall’art. 2 del D. lgs. n. 40 del 2006 (ex plurimis, cfr. Cass. 4.2.2010 n. 2625). Non è, poi, sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne sia discostato. In definitiva, non è sufficiente una semplice critica, come quella qui prospettata, della decisione sfavorevole rispetto a quella adottata dal giudicante (cfr, tra le tante, Cass. 4.2.2010 n. 2625, Cass. 8.2.2010 n. 2742, Cass. 10.2.2015 n. 2465 ed in motivazione, Cass. 18.3.2016 n. 5461).
La censura svolta deve considerarsi per quanto detto generica, e come tale inammissibile alla stregua della funzione del giudizio di legittimità, limitata, quanto agli accordi del tipo di quello in esame, al controllo della motivazione (lacune argomentative, illogicità rispetto all’attribuzione alle espressioni utilizzate di un significato estraneo al senso comune, mancanza di coerenza logica delle argomentazioni connotata da assoluta irrazionalità sempre che i vizi correttamente enunciati emergano dal ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza).
9. Il secondo ed il quarto motivo, relativi il primo alla questione degli intrecci societari e l’altro al profilo della cessazione dell’attività aziendale, oltre a riguardare censure nella sostanza attinenti alla ricostruzione in fatto operata dal giudice del merito, scontano la mancanza di ogni precisa individuazione delle violazioni di legge dedotte. Ed invero, una violazione o falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, non può dipendere o essere in qualche modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale probatorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: – abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; – abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici; – abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; – abbia invertito gli oneri probatori. E poiché, in realtà, nessuna di tali situazioni è rappresentata nei motivi anzi detti, le relative doglianze sono mal poste. Nella specie, la violazione delle norme denunciate è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito. Di tal che la stessa – ad onta dei richiami normativi in essi contenuti – si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.
10. Il terzo motivo, senza considerare anche la novità della deduzione relativa al carattere discriminatorio della mancata inclusione dei ricorrenti nel compendio di lavoratori trasferiti presso F.G.A., prospetta in rubrica formalmente una violazione di legge riferita al combinato disposto dell’art. 32 I. 183/10 e dell’art. 2112 c.c.. Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., tra le tante, Cass. 11.1.206 n. 195, Cass. 16.7.2010 n. 16698). Il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. Cass., 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063; Cass., 2 agosto 2005, n. 16132).
Nella specie ricorre proprio tale ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa, la cui censura non è prospettabile sotto il diverso profilo del vizio di violazione di legge.
11.Quanto al quinto motivo, è sufficiente osservare che la Corte di Milano ha motivato ritenendo inutile, in particolare, l’indicazione dei criteri di scelta, avendo riguardato il licenziamento tutti i lavoratori. Al cospetto di un tale impianto ricostruttivo ed argomentativo i ricorrenti omettono di trascrivere, in dispregio dei canoni di autosufficienza e specificità di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., il contenuto della lettera di avvio della procedura e delle comunicazioni successive e prospettano una censura in diritto laddove contestano nuovamente la valutazione in fatto effettuata dal giudice del gravame, che aveva osservato come nessun dipendente fosse rimasto in servizio e che quattro dei dipendenti interessati dal licenziamento collettivo avevano deciso di beneficiare di diverse opzioni offerte dalla società prima del completamento della procedura collettiva.
12. In conclusione, il ricorso, quanto alle censure esaminate, si rivela generico, sorretto da motivi privi di specificità che attengono a profili valutativi espressi dalla Corte del merito ed riguardanti per lo più aspetti fattuali la cui valutazione non è sindacabile nella presente sede.
13. Anche la doglianza relativa alla regolamentazione delle spese è infondata, essendo stata fatta corretta applicazione del principio della soccombenza; posto, poi, che l’art. 45, co. 11, della legge 18.6.2009 n. 69, in vigore dal 4.7.2009 ed applicabile ai giudizi instaurati dopo tale data (ex art. 58 c. 1, I. 69/2009) – e, quindi, ratione temporis, al presente procedimento introdotto con ricorso del 4.7.2014 – prevede la possibilità di compensare le spese di lite “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”, non potevano le ragioni enunciate dai ricorrenti integrare le ipotesi indicate.
14. Per tutte le esposte considerazione il ricorso va complessivamente respinto.
15. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza dei ricorrenti e sono liquidate in dispositivo.
16. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3800,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma ibis, del citato D.P.R.
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