CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 novembre 2022, n. 33240
Rapporto di lavoro – Svolgimento di un’assemblea retribuita – Concessione dei locali aziendali – Negazione – Carattere antisindacale – Accertamento
Fatti di causa
1. Con ricorso ex art. 28 della Legge n. 300 del 1970 lo S. Regione Veneto chiese al Tribunale di Padova di accertare il carattere antisindacale della condotta tenuta da T.I. Spa che aveva negato la concessione dei locali per lo svolgimento di un’assemblea retribuita da tenere presso la sede di Mestre nei giorni 3 e 4 agosto 2011, su richiesta di una componente della RSU eletta nelle liste del sindacato istante.
La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza impugnata, ha confermato, sebbene con diversa motivazione, la decisione di primo grado che aveva respinto l’opposizione al decreto di rigetto del ricorso proposto dallo S..
2. La Corte territoriale ha premesso che, nelle more del giudizio, era intervenuta la sentenza delle Sezioni unite civili n. 13978 del 2017 dalla quale era evincibile il principio per cui, pur riconoscendosi il diritto di indire assemblee a ciascun componente della RSU, occorreva accertare che questi fosse eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, fosse, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2013.
Concesso termine “all’associazione appellante di dedurre e documentare sul fatto che S. avesse o meno partecipato alla negoziazione relativa ai contratti collettivi applicati da T. Spa”, all’esito la Corte veneziana ha accertato che non solo S. non aveva prodotto alcun contratto collettivo nazionale o aziendale nel quale tale sindacato fosse stato soggetto stipulante, ma non aveva “neppure dimostrato di avere in qualche modo partecipato alle trattative relative a un qualche contratto collettivo, se anche poi non sottoscritto”.
3. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l’organizzazione sindacale soccombente, affidando l’impugnazione a tre motivi; la società ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno comunicato memorie.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo di ricorso denuncia: “nullità della sentenza per la violazione degli artt. 324 c.p.c.e 2909 c.c., per il contrasto con il giudicato formatosi tra le parti (art. 360, n. 4, c.p.c.)”.
Si oppone il giudicato formatosi a seguito delle sentenze di questa Corte n. 17458 del 2014 e n. 25478 del 2017 nell’ambito di procedure per la repressione della condotta antisindacale che hanno riconosciuto il diritto di componenti della r.s.u. di S. di indire assemblee presso T. Spa a Messina e a Roma.
Il motivo è infondato perché il giudicato sostanziale in senso proprio presuppone, per espressa previsione dell’art. 2909 c.c., l’identità di elementi costitutivi della relativa azione e cioè i soggetti, la causa pretendi ed il petitum (tra le altre v. Cass. n. 5138 del 2019).
Nel caso di specie si tratta, invece, non solo di diverse federazioni territoriali, da ritenere parti processualmente e sostanzialmente diverse rispetto alla federazione territoriale veneta, ma anche di azioni aventi un non coincidente oggetto del contendere, avendo come petitum la cessazione di comportamenti materiali diversi, maturati in diversi contesti aziendali ed in differenti circostanze spazio-temporali.
2. Con il secondo motivo si denuncia: “violazione e falsa applicazione dell’art. 19 legge n. 300/70, dell’art. 4 A.I. 20.12.1992 e dell’art. 81 legge n. 148/2011, per avere affermato che l’assemblea può essere convocata da un singolo componente di RSU solo se è stato eletto nelle liste di un sindacato “rappresentativo” ai sensi dell’art. 19 legge n. 300/70, ignorando il diverso criterio di rappresentatività introdotto dalla contrattazione collettiva e recepito dalla legge (art. 360 n. 3 c.p.c.)”. Si sostiene, tra l’altro, che il principio affermato dalla Corte territoriale non sia ricavabile da Cass. SS.UU. n. 13978 del 2017, essendo piuttosto il frutto della massimazione dell’Ufficio del Massimario.
La censura è infondata perché denuncia un errore di diritto insussistente.
Il principio in base al quale il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 deve essere interpretato nel senso che il diritto d’indire assemblee, di cui all’art. 20 della legge n. 300 del 1970, rientra tra le prerogative attribuite non solo alla r.s.u. considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della r.s.u. stessa (sempre che questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970), quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013, è evincibile dalla motivazione della richiamata sentenza delle Sezioni unite n. 13978 del 2017. Esplicitamente nella pronuncia del Supremo Collegio si legge che si è voluto dare seguito all’orientamento espresso da Cass. n. 15437 del 2014 che, nel principio di diritto ivi sancito in sede cassatoria, riconosce sì il diritto di indire assemblee a ciascun componente della r.s.u. “purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 legge n. 300/1970, quale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013“.
Inoltre, Cass. n. 26011 del 2018 e Cass. n. 26210 del 2018 hanno esplicitamente applicato il principio così come ha fatto la sentenza qui impugnata, cassando e demandando al giudice del rinvio di accertare “il requisito della partecipazione alla negoziazione relativa agli accordi collettivi applicati nell’unità produttiva di riferimento, nei sensi di cui all’anzidetta pronuncia n. 231/2013“.
La medesima condizione – che riserva ai singoli componenti della r.s.u. il diritto di indire assemblee “purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 legge n. 300/1970, quale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013” – è stata anche richiesta da Cass. n. 2862 del 2020 (oltre che da successive conformi: Cass. n. 28165 del 2021; Cass. n. 28164 del 2021; Cass. n. 815 del 2021; Cass. n. 3067 del 2020) avuto riguardo al combinato disposto degli artt. 4 e 5 del successivo Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014.
Ciò posto, accertata l’infondatezza del motivo, il Collegio, nell’attuale quadro giurisprudenziale, non ravvisa ragioni per rimettere la questione alle Sezioni unite, come richiesto da parte ricorrente.
3. L’accertare in concreto se il singolo componente della r.s.u. che richiede l’assemblea sia stato o meno eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia dotato di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 legge n. 300/1970, come risultante dal vaglio della Corte costituzionale, è chiaramente, come sottolineato dai precedenti prima richiamati, una questione “di fatto”, in quanto tale devoluta al giudice del merito.
Invece, con il terzo motivo di ricorso si evoca il vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 legge n. 300/70, in relazione all’art. 81 legge n. 148/2011 ed agli accordi interconfederali 20.12.1993 e 28.6.2011, criticando come erronea la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui afferma: ” […] gli accordi sottoscritti dalle RSU non attestano quanto interessa, e cioè che l’organizzazione sindacale che ha espresso questi componenti della RSU sia dotata di rappresentatività almeno per aver partecipato alle trattative relative a contratti collettivi”; si lamenta che non potrebbe essere ritenuta “irrilevante ai fini dell’art. 19 la trattativa e firma di contratti aziendali da parte dei componenti S. delle RSU”.
Il motivo è inammissibile.
Come noto, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 22348 del 2007; Cass. n. 26307 del 2014); sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.
Sovente le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020).
Nella specie il motivo, lungi dall’individuare un errore di diritto, nella sostanza investe un accertamento di fatto che è quello tipicamente demandato al giudice del merito circa la partecipazione della sigla sindacale – in quella fattispecie concreta – alla negoziazione relativa agli accordi collettivi applicati nell’unità produttiva.
Tale censura passa attraverso la valutazione di documenti, di cui peraltro neanche si riporta il contenuto né si indica dove siano reperibili, che, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte territoriale, non provano il requisito della partecipazione alla negoziazione relativa agli accordi collettivi applicati nell’unità produttiva di riferimento; rispetto a tale valutazione è inibito a questa Corte un sindacato che esorbita dai poteri conferiti al giudice di legittimità.
Né può inficiare tale conclusione la circostanza che, in altre controversie, si sia giunti ad esiti favorevoli per l’organizzazione sindacale ricorrente, atteso che occorre ribadire come l’oggetto del giudizio di questa Corte non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al quale le parti litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti limiti delle critiche vincolate dall’art. 360 c.p.c. e così come prospettate dalla parte ricorrente, per cui contigue vicende possono dare luogo a diversi esiti processuali in Cassazione (tra le altre v. Cass. n. 28933 del 2018).
Opportuno, comunque, rilevare che i precedenti di questa Corte richiamati da parte ricorrente non hanno affatto affermato principi di diritto diversi da quelli qui ribaditi, ma, piuttosto, si sono limitati a respingere il ricorso per cassazione – in quei casi proposto dalla società – proprio perché sollecitava “un sindacato nel merito della causa non consentito in sede di legittimità” (cfr. Cass. n. 13863 e 13864 del 2019; v. pure Cass. n. 16745 del 2019).
4. In conclusione, conformemente alle conclusioni della Procura Generale, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% e accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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