CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 settembre 2018, n. 21968
Divaricazione tra soggetto formalmente titolare di un rapporto con un prestatore di attività lavorativa e soggetto effettivamente utilizzatore di una tale attività – Accertamento del rapporto di lavoro subordinato in capo all’utilizzatore – Impugnazione nei confronti dell’effettivo utilizzatore – Rispetto dei termini di decadenza ex art. 6 della L. n. 604/1966
Fatti di causa
Con sentenza in data 6 ottobre 2016, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto da M.P. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto le domande di previo accertamento del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con M.I. s.r.l. o in subordine con E.E. s.r.l. con decorrenza dal 7 marzo 2012 e di accertamento di nullità, inefficacia o illegittimità del recesso (qualificato dal primo licenziamento) comunicatogli dalla seconda società il 18 novembre 2013, con le conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria (anche per danno alla professionalità, alla salute, all’immagine e alla vita di relazione) di M.I. s.r.l. in via principale o di E.E. s.r.l. in via subordinata.
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva:
a) l’improcedibilità delle domande proposte dal reclamante nei confronti della prima società, ancorché formalmente obbligato verso la seconda in virtù di un contratto di agenzia, per intervenuta decadenza a norma dell’art. 32, terzo comma lett. a) e quarto comma, lett. d) I. 183/2010, in difetto (anche nei suoi confronti e non soltanto di E.E. s.r.l.) della doppia impugnazione dell’atto di recesso (stragiudiziale, nei sessanta giorni dalla comunicazione e giudiziale, nei successivi duecentosettanta giorni, poi ridotto il termine a centottanta giorni dalla legge 92/2012), applicabile ratione temporis, anche ai licenziamenti che presuppongano la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro e in ogni altro caso, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 d.lg. 276/2003, di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto;
b) la mancanza di prova, in esito a critico e argomentato esame delle risultanze istruttorie alla luce dei principi di diritto regolanti la materia, dell’esistenza di un rapporto di subordinazione nei confronti della preponente E.E. s.r.l.
Avverso tale sentenza M.P., con atto notificato il 5 dicembre 2016, ricorreva per cassazione con due motivi, cui resistevano le due società con distinti controricorsi; tutte le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 32, terzo comma, lett. a), quarto comma, lett. d) I. 183/2010, 6 I. 604/1966 in relazione all’art. 27, secondo comma d.lg. 276/2003, per erronea assunzione di decadenza dall’impugnazione del licenziamento nei confronti di M.I. s.r.l., per l’efficacia, anche nei suoi di effettiva “utilizzatrice” interponente, di quella tempestivamente proposta nei confronti di E.E. s.r.l. (preponente formale nel rapporto di agenzia instaurato con il ricorrente, in realtà soggetto interposto), tanto più per la deduzione (non già di uno pseudo – appalto, come in fattispecie richiamata come analoga dalla Corte territoriale, ma) di sussistenza di un unico soggetto giuridico e di un unico centro di imputazione.
2. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1742, primo comma, 2094, 2095 c.c., 4 CCNL Industria Chimica settore Farmaceutico, per erronea esclusione di un rapporto subordinato, avendo sempre ed esclusivamente svolto, non già un’attività di promozione o conclusione di affari per le società intimate quale agente, ma piuttosto di District Manager, ossia di coordinatore degli agenti ISF e degli agenti Farmacia, alla stregua di Quadro, Categoria A, Posizione Professionale 3 secondo la qualifica della norma collettiva denunciata, quale lavoratore subordinato.
3. Il primo motivo, relativo ad erronea assunzione di decadenza dall’impugnazione del licenziamento nei confronti di M.I. s.r.l., per l’effetto anche nei suoi di quella tempestivamente proposta nei confronti della (formale) preponente E.E. s.r.l., è infondato.
3.1. In base al combinato disposto degli artt. 32, terzo comma, lett. a) e quarto comma lett. d) I. 183/2010, in relazione all’art. 27, primo e secondo comma d.lg. 276/2003, si deve infatti ritenere la vigenza di un principio generale, per il quale, in ogni caso di divaricazione tra il soggetto formalmente titolare di un rapporto contrattuale con un prestatore di attività lavorativa ed il soggetto effettivamente utilizzatore di una tale attività, il prestatore dell’attività, che richieda l’accertamento della costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo al secondo, debba impugnare, nel rispetto dei termini di decadenza stabiliti dalla novellata disciplina dell’art. 6 I. 604/1966, il licenziamento, intimato dal soggetto formalmente titolare del rapporto, nei confronti dell’effettivo utilizzatore. E ciò perché al medesimo devono essere ricondotti gli effetti negoziali di tutti gli atti compiuti da quello, incluso l’atto di recesso (Cass. 13 settembre 2016, n. 17969).
3.2. Ora, nel caso di specie è stata accertata la mancanza di una tale impugnazione, tanto meno tempestiva, di M.P. nei confronti di M.I. s.r.l., sulla base dell’esatta applicazione dei principi di diritto sopra richiamati (illustrati dalla Corte territoriale ai p.ti da 2.1. a 2.5. a pgg. 4 e 5 della sentenza).
3.3. E’ poi irrilevante la deduzione, correttamente stigmatizzata dalla Corte territoriale (al primo periodo del p.to 2.5. di pg. 5 della sentenza), di un unico soggetto giuridico e di un unico centro di imputazione: tenuto conto, prima ancora che dell’assenza dal lavoratore di una domanda di accertamento dell’unicità di un centro di imputazione dell’attività (come rilevato da M.I. s.r.l. al terzultimo capoverso di pg. 21 del suo controricorso), dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un principio di estensione degli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una determinata impresa, ad altra: sia pure qualora si tratti di imprese gestite, per collegamento economico-funzionale, da società del medesimo gruppo.
E ciò per insufficienza di una tale circostanza di per sé sola, salvo che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro: ricorrente ogni qual volta vi sia simulazione o preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico – funzionale, con adeguato accertamento attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, così da rivelare l’esistenza dei requisiti di unicità della struttura organizzativa e produttiva; di integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; di coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; di utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori. Ed appare evidente come un tale apprezzamento integri valutazione di fatto rimessa al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione (Cass. 15 maggio 2006, n. 11107; Cass. 7 settembre 2007, n. 18843; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3482; Cass. 16 gennaio 2014, n. 798; Cass. 11 novembre 2014, n. 23995; Cass. 20 dicembre 2016, n. 26346; Cass. 7 giugno 2017, n. 14175).
Ma un tale accertamento nel caso di specie è completamente mancato.
4. Il secondo motivo, relativo ad erronea esclusione di un rapporto di subordinazione del ricorrente con le società intimate, è inammissibile.
4.1. Non sussiste la violazione di norme denunciata, in difetto dei requisiti di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038).
4.2. Il motivo consiste piuttosto nella contestazione dell’accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, esclusivamente riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità, avendone la Corte territoriale dato critico e argomentato conto (per le ragioni in fatto esposte al p.to 5, a pgg. da 8 a 11), in esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia (enunciati al p.to 4, a pgg. da 6 a 8 della sentenza): tanto meno censurabili alla luce del più rigoroso ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis.
5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna M.P. alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida per ciascuna in € 200,00 per esborsi e € 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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