CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 settembre 2018, n. 22380
Licenziamento disciplinare – Formulazione dell’addebito – Mancata custodia del fondo cassa nella cassetta assegnata al dipendente – Valutazione della gravità dell’inadempimento e della conseguente proporzionalità tra inadempimento e irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva – Mera dimenticanza quale mancanza, disciplinarmente rilevante, ma che non integrava neppure il notevole inadempimento – Valutazione dei connotati oggettivi e soggettivi del fatto – Danno arrecato, intensità del dolo o del grado della colpa, precedenti disciplinari
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Brescia ha respinto il reclamo proposto dalla società A. s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Brescia che, in sede di opposizione ai sensi dell’art. 1 comma 58 della legge n. 92 del 2012, pur negando la natura discriminatoria del licenziamento intimato dalla società alla lavoratrice F.Q. in data 1 ottobre 2014, ne aveva però accertato l’illegittimità condannando la società a reintegrare la dipendente ed a corrisponderle un’indennità risarcitoria quantificata in sette mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
2. La Corte territoriale ha preso atto del fatto che tra le parti non era più in discussione la natura discriminatoria del licenziamento. Ha riepilogato i fatti come erano risultati incontestatamente accertati nella loro materialità. Ha preso atto delle diverse interpretazioni proposte dalle parti ed ha ritenuto che fosse onere della datrice di lavoro provare, con un affidabile grado di certezza, che la condotta non era riferibile ad una mera negligenza ma, piuttosto, imputabile ad una volontaria intenzione della ricorrente di sottrarre le somme del fondo cassa appropriandosene. Ha rammentato che era onere della società datrice dare la prova della dolosità della condotta contestata e che tale prova non era stata raggiunta atteso che gli elementi di prova da cui presuntivamente desumere la volontà di sottrarre le somme non erano sufficientemente convergenti in tal senso e la condotta colposa, questa sì accertata, seppur grave non era tuttavia tale da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia che deve sorreggere il rapporto di lavoro. Ha poi evidenziato che la norma collettiva applicabile sanziona la negligente esecuzione del rapporto con un provvedimento conservativo mentre il licenziamento è irrogato, oltre che per una serie di specifici inadempimenti elencati, anche nel caso di recidiva in condotte sanzionate con un provvedimento conservativo tra le quali, tuttavia non è inclusa quella a cui astrattamente poteva essere riportato il comportamento della Q.. Pertanto, accertata la sproporzione della sanzione irrogata in applicazione dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970, nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012, potendo, la condotta contestata, essere punita solo con una sanzione conservativa ha confermato la sentenza anche con riguardo alla reintegrazione nel posto di lavoro.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre la società A. s.p.a. ed articola due motivi ulteriormente illustrati da memoria, depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.. La Q., pur ritualmente evocata in giudizio, è rimasta intimata.
Ragioni della decisione
4. I motivi di ricorso.
4.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, degli artt. 138 e 192 del c.c.n.l. Turismo e dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 nel testo riformato dalla legge n. 92 del 2012.
Sostiene la società ricorrente che il comportamento contestato alla lavoratrice (l’aver trattenuto la somma di € 1500,00 prelevandola dal fondo di cui era in possesso, tacendone con la direttrice del locale e poi anche con gli ispettori, riponendola nel suo armadietto e solo successivamente consegnandola agli ispettori) presentava i caratteri della volontarietà e non era riferibile, come ritenuto dalla Corte di appello, ad una mera dimenticanza e negligenza restando irrilevante ai fini della valutazione della gravità della condotta la mancanza di un danno economico ed invece decisiva la circostanza che solo una volta scoperta aveva confessato il fatto e consegnato il danaro. Quanto alla reintegrazione osserva la società ricorrente che la condotta accertata non è sussumibile in alcuna di quelle punite dal contratto collettivo con una sanzione conservativa. Ha poi osservato che il fatto materiale è risultato accertato, si tratta di condotta grave ed idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che, comunque, integra un notevole inadempimento che giustificherebbe il licenziamento quanto meno per giustificato motivo soggettivo e precluderebbe in ogni caso la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso la società censura la sentenza per essere incorsa, con riferimento all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ., nella violazione e falsa applicazione dell’art. 2897 cod. civ. (rectius 2697 cod. civ.) e dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966. Sostiene la società di aver offerto la prova della volontarietà della condotta e della sua gravità sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo e che pertanto era la lavoratrice che doveva provare che l’addebito non era a lei imputabile.
5. Le censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, sono infondate.
5.1. La Corte territoriale, con valutazione di merito a lei riservata e sulla base del materiale probatorio acquisito, ha accertato che le due ricostruzioni della condotta proposte dalle parti erano entrambe compatibili con i fatti accertati e che avevano portato alla formulazione dell’addebito disciplinare (mancata custodia del fondo cassa nella cassetta assegnata alla dipendente) e da cui era scaturito il licenziamento.
Dando atto che la lavoratrice, che a cagione delle mansioni svolte da anni aveva in affidamento il fondo cassa personale di cui faceva parte la somma che era stata rinvenuta nel suo armadietto, ben sapeva che tali somme non potevano essere portate all’esterno dei locali aziendali e dovevano essere riposte nella cassetta di sicurezza di cui lei sola aveva la chiave ha evidenziato che effettivamente la ricorrente non aveva segnalato agli ispettori di aver trattenuto nei giorni di recupero le somme del fondo cassa ma si era limitata a riporle nel suo armadietto, non essendole stato consentito di accedere alla cassetta di sicurezza. In sostanza pur ritenendo non contestati nella loro materialità i fatti la Corte ha osservato che questi risultavano compatibili con la versione datane da entrambe le parti. La lavoratrice aveva dichiarato di aver dimenticato il danaro nella tasca del grembiule e di essersene accorta solo quando, rientrata al lavoro dopo due giorni di riposo, aveva nuovamente indossato la divisa. Aveva poi evidenziato una volta avvedutasi della dimenticanza non aveva potuto accedere alla cassetta di sicurezza e, perciò, aveva riposti provvisoriamente il denaro nel suo armadietto. La società datrice ha invece affermato che la mera dimenticanza era poco credibile e che invece era verosimile che la somma fosse stata trattenuta per farne un uso personale salvo poi riportarla quando aveva avuto sentore dell’ispezione interna. In esito a tale accertamento di fatto, in questa sede non censurabile, il giudice di appello non è incorso nella violazione denunciata. Correttamente ha osservato che la giusta causa di licenziamento deve essere provata dal datore di lavoro che lo ha irrogato ed ha accertato che la prova offerta in giudizio non era convincente nel senso di dimostrare che la lavoratrice aveva volontariamente sottratto le somme del fondo cassa. Così facendo la Corte non è incorsa in un vizio di sussunzione della fattispecie nella previsione astratta della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. Nella valutazione della gravità dell’inadempimento ascritto al lavoratore, e della conseguente proporzionalità tra inadempimento e irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento, una volta esclusa l’intenzionalità della condotta ed in particolare la volontà di sottrarre il denaro restato in cassa a fine giornata, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che la mera dimenticanza di riporlo nella cassetta del fondo cassa valutata nel contesto della condotta successivamente tenuta costituiva una mancanza che, pur disciplinarmente rilevante, non integrava neppure il notevole inadempimento che poteva giustificare il licenziamento seppure con preavviso.
5.2. Va in proposito rammentato che secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui la Corte territoriale si è attenuta, il giudice di merito deve valutare se vi è proporzione tra l’infrazione commessa dal lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta e di tutti gli altri elementi idonei a verificare se il disposto dell’art. 2119 c.c. – richiamato dall’art. 1 della legge n. 604/66 – sia adeguato alla fattispecie concreta (cfr. Cass. 17/02/2017 n. 4268 ed anche n. 8456/2011, n. 736/2002 e n. 1144/2000). In altre parole, il giudice investito della domanda con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve controllare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di recesso (ossia che costituisca notevole inadempimento degli obblighi del dipendente) e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità della condotta. Infatti, è pur sempre necessario che essa rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e sia idonea a ledere irrimediabilmente l’affidamento circa la futura correttezza nell’eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico (cfr. Cass. n. 15058/2015, n. 2013/2012, n. 2906/2005, n. 16260/2004 e n. 5633/2001). A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza di questa Corte, bisogna tener conto dei connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari etc. In breve, la proporzionalità della condotta va indagata sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo) sia in concreto (in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno caratterizzata), cosa che l’impugnata sentenza non ha trascurato di fare nel momento in cui ha motivatamente posto l’accento sull’assenza di danno e sulla mancata prova della intenzionalità, con valutazioni in punto di fatto e perciò non sindacabili in sede di legittimità.
5.3. Quanto poi alla scelta di applicare l’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 la decisione è conforme ai principi affermati da questa Corte che ha ritenuto che l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 dello Statuto, come modificato dall’art. 1, comma 42, della I. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (cfr. Cass. 20/09/2016 n. 18418 e già 13/10/2015 n. 20540).
5.4. Nello specifico peraltro la Corte ha verificato che la condotta accertata in tutte le sue componenti poteva integrare semmai quella che, tipizzata dall’art. 138 lett. c) o f) del c.c.n.l. di settore, è punibile con una sanzione conservativa, sicché la tutela applicabile è, per legge, proprio quella reintegratoria.
6. In conclusione, per le ragioni sopra esposte il ricorso deve essere rigettato. La mancata costituzione della lavoratrice rimasta intimata esime il Collegio dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità. Va poi dato atto che, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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