CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 giugno 2020, n. 11623
Tributi – Accertamento – Titolare di quote o partecipazioni azionarie in più società – Atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio – Configurabilità di una “holding” di tipo personale – Natura del reddito conseguito
Fatti di causa
1. La Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva parzialmente l’appello proposto da G.B. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso, che aveva rigettato il ricorso presentato dal contribuente contro gli avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti per gli anni 2002, 2003, 2004, 2005 e 2006, per il 2005 con il metodo sintetico e per i restanti anni ai sensi dell’art. 32 d.P.R. 600/1973, per maggiori imposte ai fini Iva, Irap ed Irpef, non avendo il B. presentato la dichiarazione dei redditi per tali anni, pur essendo socio e legale rappresentante di varie società (B. Investimenti, A.M. e D. s.n.c.). In particolare, l’Agenzia delle entrate ricostruiva il reddito del contribuente, quale lavoratore autonomo (“altre attività professionali”), dotato di autonoma organizzazione, con attribuzione d’ufficio della partita Iva ed accertamento di redditi per un importo complessivo di € 16.499.594,00, poi ridotto in appello ad € 2.236.764,00. Il giudice di appello rigettava le eccezioni preliminari del contribuente, come pure l’appello incidentale dell’Ufficio, evidenziava che dalla documentazione bancaria non risultava la provenienza dei redditi da attività professionale o da impresa, con conseguente non assoggettabilità ad Iva ed Irap. L’effettiva entità dei redditi era determinata dalle risultanze della CTU espletata in prime cure, mentre il giudice di primo grado si era discostato dai risultati della CTU senza adeguata motivazione. Dovevano essere giustificati i movimenti in uscita supportati da assegni bancari nonché quelli documentati da fatture o altri documenti giustificativi, escludendo anche i movimenti finanziari, come pure le somme trasferite ai genitori o alle società di cui era socio. Le somme a lui corrisposte dai genitori erano erogazioni a titolo di liberalità. Non era applicabile l’agevolazione di cui all’art. 47 Tuir.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
3. Resiste con controricorso il contribuente, proponendo ricorso incidentale.
Ragioni della decisione
1. Anzitutto, devono essere rigettate le eccezioni preliminari sollevate dal contribuente tese alla dichiarazione di inammissibilità e di improcedibilità del ricorso per cassazione.
1.1. La prima eccezione, incentrata sulla asserita mancata esposizione sommaria dei fatti di causa, e violazione del principio di autosufficienza, è infondata, in quanto la ricorrente, seppure in modo molto conciso, ha provveduto alla esposizione sommaria dei fatti di causa ed ha articolato i sette motivi di impugnazione in modo specifico, con l’indicazione della regioni poste a fondamento degli stessi. La trascrizione di atti processuali e degli avvisi di accertamento è stata sempre preceduta da una sintesi della questione da trattate e seguita dalle conclusioni raggiunte.
1.2. E’ infondata anche la seconda eccezione preliminare, relativa alla prospettata violazione dell’art. 369, comma 2, nn. 2 e 4 c.p.c., non avendo l’Agenzia delle entrate indicato né allegato gli atti processuali ed i documenti si cui si fonda il ricorso, limitandosi ad allegare l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio.
1.3. Invero, quanto alla mancata indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui si fonda il ricorso, va evidenziato che per questa Corte, a sezioni unite, in tema di giudizio per cassazione, per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., ses.un., 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., sez. 5, 30 novembre 2017, n. 28695).
1.4. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce “art. 360 1 comma n. 3 ) c.p.c.: violazione e falsa applicazione dell’art. 6 comma 3 d.lgs. 218/97 in combinato disposto con l’art. 1324 e gli artt. 1362 e ss. c.c”, in quanto l’istanza di accertamento con adesione, volta ad instaurare il contraddittorio preventivo, costituisce un atto unilaterale che produce l’effetto della sospensione, per un periodo di novanta giorni, del termine per la presentazione del ricorso. Nella specie, il contribuente ha indirizzato all’Amministrazione un’istanza denominata “istanza di autotutela e di accertamento con adesione”, non esprimendo alcuna volontà di instaurare un contraddittorio preventivo, ma diretta unicamente a lucrare la sospensione dei termini per proporre il ricorso. La rappresentante del contribuente si è presentata solo all’incontro iniziale, ma poi non ha partecipato ad ulteriori incontri e non ha presentato alcuna proposta di definizione.
1.5. Tale motivo è infondato.
Invero, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui la sospensione del termine di impugnazione di cui al procedimento per adesione di cui al d.lgs. 218/1997 si verifica solo in caso di “formale ed irrevocabile rinuncia all’istanza di definizione con adesione” (Cass., 12 ottobre 2012, n. 17439), e non al mero “abbandono” del contraddittorio, con assenza alle successive convocazioni.
Neppure la mancata comparizione del contribuente alla data fissata per la definizione, in via amministrativa, della lite, sia essa giustificata o meno, interrompe la sospensione del termine di 90 giorni per l’impugnazione dell’avviso di accertamento, in quanto detto comportamento non è equiparabile alla formale rinuncia all’istanza né è idoneo a farne venir meno “ab origine” gli effetti (Cass., sez. 5, 24 ottobre 2019, n. 27274).
La Corte costituzionale, sul punto, ha affermato che il procedimento per l’accertamento con adesione ha la finalità di prevenire l’impugnazione dell’atto di accertamento tributario notificato, favorendo l’instaurazione di un contraddittorio con il contribuente per giungere ad una definizione concordata e preventiva della controversia, sicché non è irragionevole la previsione, a tal fine, di un “periodo fisso” di sospensione del termine d’impugnazione, idoneo a consentire un proficuo esercizio del contraddittorio in sede di adesione, durante il cui decorso il contribuente e l’ufficio hanno agio di valutare liberamente la situazione; ne è irragionevole che la disposizione preveda che solo il contribuente possa far cessare la sospensione del termine d’impugnazione proponendo ricorso avverso l’atto di accertamento oppure mediante una “formale” ed “irrevocabile rinuncia” a detta istanza (Corte costituzionale, 15 aprile 2011, n. 140).
Allo stesso modo, neppure la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del d.lgs. n. 218 del 1997, comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge (Cass., sez. 5, 11 gennaio 2018, n. 474; Cass., sez. 5, 17 febbraio 2010, n. 3676); anche la chiusura del procedimento di adesione al concordato prima del decorso del termine di novanta giorni previsto dall’art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218 non comporta la rinuncia del contribuente a giovarsi della sospensione dei termini di impugnazione concessa a coloro che si avvalgono della procedura in questione (Cass., sez. 5, 30 giugno 2006, n. 15170).
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “art. 360 , primo comma, n. 3, c.p.c.: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 comma 1 n. 2) d.p.r. 600/1973 anche in relazione all’art. 2697 c.c.” in quanto, da un lato, va evidenziato che il contribuente non ha depositato per gli anni di imposta alcuna dichiarazione dei redditi, sicché l’Agenzia delle entrate può anche avvalersi di presunzioni “supersemplici”, quindi prive dei requisiti della gravità della precisione e della concordanza, e dall’altro, che i movimenti bancari di cui all’art. 32 d.P.R. 600/1973, costituiscono una presunzione legale relativa, per la quale i prelevamenti si presumono ricavi o compensi, dunque somme idonee ad integrare il reddito imponibile, se il contribuente non indica il soggetto beneficiario. La prova contraria che deve fornire il contribuente, dunque, non può limitarsi alla indicazione delle generalità del soggetto beneficiario, ma occorre anche la prova del titolo giustificativo del versamento stesso. Il CTU, sul punto, ha aderito alla prima tesi, considerando giustificati i movimenti in uscita purché supportati dagli assegni bancari, anche in mancanza dei relativi documenti fiscali; sono pure giustificati per il CTU, e per la Commissione regionale che ha aderito alle sue conclusioni, anche le uscite per le quali non vi era la copia dell’assegno, ma vi erano documenti giustificativi come fatture, ricevute e proposte di commissione, purché vi fossero altri elementi per far ritenere con certezza un collegamento fra il beneficiario indicato nella documentazione e la movimentazione in uscita. In realtà, la prova contraria deve essere idonea a dimostrare che il prelevamento non può essere considerato quale compenso o ricavo, essendo, quindi, necessaria l’allegazione del titolo giustificativo. Deve essere data la dimostrazione, da parte del contribuente, che le somme prelevate sono state usate per finalità “estranee alle dinamiche imprenditoriali” e non per essere investite per conseguire ricavi “sconosciuti alla contabilità del Sig. B.”, “posto che questi rivestiva il ruolo di socio ovvero di amministratore unico di molte società”.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.” in quanto il giudice di appello si è limitato a condividere le conclusioni del CTU nominato in prime cure, in maniera riassuntiva, senza alcuna specificazione in ordine di singoli movimenti bancari. L’Agenzia delle entrate, invece, con memoria, ha contestato la relazione del consulente tecnico d’ufficio, nella parte in cui ha ritenuto adeguatamente giustificate 22 movimentazioni di denaro avvenute nel 2002. La Commissione regionale avrebbe dovuto, allora, indicare le ragioni per cui ciascuna movimentazione di denaro poteva ritenersi giustificata nonostante le opposizioni della Agenzia delle entrate.
4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “insufficiente motivazione in relazione ad un fatto decisivo e controverso per il giudizio”, in quanto il CTU nelle sue conclusioni, cui ha aderito il giudice di appello ha ritenuto che le somme ricevute dai genitori del contribuente, pur in assenza di accordi scritti, siano riferibili a liberalità elargite dagli stessi e, quindi, estranee ad imponibili dissimulati. La motivazione però è del tutto generica e contraddittoria, poiché il padre del contribuente, pur dichiarando un reddito annuo di € 4.458,99, ha effettuato una liberalità per € 34.086,00 in favore degli figlio, che pure non aveva necessità economiche.
5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 d.lgs. 1997 n. 446 e degli artt. 2 e 3 d.p.r. 633/1972 in combinato disposto con l’art. 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.” in quanto il contribuente non ha presentato le dichiarazioni dei redditi per vari anni e vi sono elementi indiziari molteplici per affermare che “solo chi svolga attività imprenditoriale, o, comunque, libero professionale è nelle condizioni di produrre simile entità reddituale”. Non risponde all’id quod plerumque accidit che un lavoratore dipendente sia in grado di produrre un reddito pari ad € 16 milioni in cinque anni di imposta. Pertanto, il giudice di appello è incorso in errore laddove ha affermato che non risulta in alcun modo la provenienza dei redditi da attività professionale o d’impresa, sicché deve essere esclusa l’assoggettabilità sia all’Iva che all’Irap, in assenza di autonoma organizzazione. V’è stata violazione anche degli artt. 2697 e 2729 c.c., in quanto sono presenti indizi che manifestano la sussistenza di una attività organizzata da parte del contribuente, come emerge dai seguenti elementi ¡partecipazione quale socio accomandatario della D. s.a.s. Di B.G. & C, senza che sia stata mai presentata la dichiarazione dei redditi; partecipazione quale unico socio alla B. Investimenti s.r.l., iniziata nel 2001 e messa in liquidazione nel 2005, con unica operazione consistita nell’acquisto di un terreno edificabile dal padre del contribuente per € 929.623,00, poi rivenduto dopo 4 giorni per € 3.356.969,00;tale società non ha presentato la dichiarazioni dei redditi per gli anni 2004 e 2005; ruolo di legale rappresentante della B. Investimenti sas di B. Ettore & C; partecipazione come unico socio alla A.M. s.r.l.; partecipazione come socio all’80 % della B. Giovanni & C s.n.c.. Tutte le società hanno effettuato versamenti in favore del contribuente nel corso degli anni. Il contribuente non risulta mai aver percepito compensi, quale amministratore, o utili, quale socio, da tali società. Deve, dunque, affermarsi che trattasi di una attività “organizzata” per la gestione di un patrimonio di rilevanti dimensioni relativo a varie società. Vi è, quindi, un “attivismo che può spiegarsi solamente con lo svolgimento di un’attività imprenditoriale o di lavoro libero professionale”. Ciò è dimostrato anche da “atti ” e contratti che lo hanno visto protagonista. Sono, allora, irragionevoli gli annullamenti delle riprese a tassazione ai fini Irap per € 690.986,00 ed ai fini Iva per € 3.251.699,00.
6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.: carente motivazione in relazione ad un fatto decisivo e controverso per il giudizio”, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto di tutti gli elementi in precedenza indicati, che, invece, dimostrano la sussistenza di una attività svolta con autonoma organizzazione tramite le numerose società amministrate ed attraverso la stipulazione di numerosi atti negoziali.
7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 16, 21 e 55 d.p.r. 633/1972”, in quanto il giudice di appello ha trascurato che il contribuente non ha presentato la dichiarazione annuale Iva, sicché era legittimo l’utilizzo dell’accertamento fondato su presunzioni anche prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, con ricostruzione induttiva, sicché spettava al contribuente dimostrare la tipologia delle operazioni effettuate per le quali poteva essere applicata una aliquota diversa.
8. I motivi secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.
8.1. Anzitutto, si rileva che l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, sia ai fini Irpef, che ai fini Irap ed Iva, consente all’Amministrazione finanziaria di utilizzare il metodo induttivo puro, quindi con accertamento basato anche su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Infatti, per questa Corte, nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente, la legge (art. 41 d.p.r. 600/1973 ai fini Irpef ed art. 55 d.p.r. 633/1072 ai fini Iva)* abilita l’Ufficio delle imposte a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo ed anche utilizzando, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, sul presupposto dell’inferenza probabilistica dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti, secondo un legame che non deve essere di necessarietà assoluta, essendo sufficiente che il fatto noto sia desumibile da quello ignoto sulla base di un giudizio di probabilità basato sull’<<Id quod plerumque accidit>> (Cass., sez. 5, 9 maggio 2017, n. 11368; Cass., sez. 5, 3 maggi 2002, n. 6340).
8.2. Inoltre, va considerato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, trattandosi di presunzione legale relativa (in tal senso anche Corte cost., 6 luglio 2000, n. 260; Corte cost., 8 giugno 2005, n. 225), determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass., 29 luglio 2016, n. 15857). Infatti, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, tutti i movimenti sui conti bancari del contribuente, siano essi accrediti che addebiti, si presumono, ai sensi dell’art. 32, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, riferiti all’attività economica del contribuente, i primi quali ricavi e i secondi quali corrispettivi versati per l’acquisto di beni e servizi reimpiegati nella produzione, spettando all’interessato fornire la prova contraria che i singoli movimenti non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass., 30 dicembre 2015, n. 26111).
8.3. Va, poi, osservato che, in tema di accertamenti bancari, ove il contribuente fornisca prova analitica della natura delle movimentazioni sui propri conti in modo da superare la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, il giudice è tenuto ad una valutazione altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato, non essendo a tal fine sufficiente una valutazione delle suddette movimentazioni per categorie o per gruppi (Cass., 28 novembre 2018, n. 30786; Cass., sez. 6-5, 3 maggio 2018, n. 10480).
8.4. Infatti, come detto, in materia di accertamenti bancari, all’onere probatorio gravante sul contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell’Erario – che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ. per le presunzioni semplici -, di fornire non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, v. Cass. 26111 del 2015 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata) idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014), corrisponde l’obbligo del giudice di merito, da un lato, di operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie – in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. n. 21800 del 2017) -, e, dall’altro, di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica.
Al riguardo si rileva che per questa Corte, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, il contribuente può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, dovendo in questo caso il giudice di merito “individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative” (Cass. n. 11102 del 2017).
8.5. Il giudice di appello, con la sua scarna motivazione, si è limitato ad aderire alle risultanze della CTU espletata in prime cure, senza analizzare analiticamente ciascuna movimentazione bancaria, per palesare il ragionamento posto alla base del suo convincimento. A fronte della contestazione mossa dalla Agenzia delle entrate e delle prove contrarie fornite dal contribuente, la Commissione regionale avrebbe dovuto sindacare analiticamente ogni singola operazione bancaria, dando conto del ragionamento seguito per giungere alla conclusione che tutti i “prelevamenti” non erano assoggettabili a tassazione. Al contrario, il giudice di appello, con una motivazione “sintetica” ha inglobato tutte le movimentazioni bancarie di prelievo in un’unica amplia categoria, venendo meno al suo obbligo di motivazione. In particolare, il giudice ha affermato, adagiandosi supinamente sulle conclusioni del CTU, che “debbano essere ritenuti giustificati, e quindi non fonte di redditi imponibili, i movimenti in uscita supportati da copia di assegno bancario dal quale emergano chiaramente le generalità del prenditore, nonché quelli documentati da fattura o da altro documento giustificativo”.
8.6. Analogo deficit motivazionale emerge dalla affermazione della Commissione regionale, per cui “anche le somme corrisposte al contribuente dai suoi genitori non possono essere qualificate come reddito imponibile, essendo ben identificati coloro che le hanno versate e potendosi presumere trattarsi di erogazioni a titolo di liberalità, atteso lo stretto vincolo familiare”. Tale motivazione è del tutto insufficiente, in quanto non tiene in alcun conto le circostanze pacifiche che il padre del contribuente percepiva € 4.458,00 annui, non avendo dunque disponibilità di somme, e che il contribuente aveva una enorme liquidità a propria disposizione.
8.7. E’ errata la decisione della Commissione regionale anche laddove ha escluso l’assoggettabilità dei redditi rinvenuti ad Irap e ad Iva, in quanto non sarebbe stata rinvenuta l’esistenza di una autonoma organizzazione in capo al contribuente, con impossibilità di effettuare una qualificazione reddituale delle somme introitate dal B.
Infatti, la ricorrente ha indicato tutta una serie di società in cui il contribuente era socio unico o di maggioranza, oppure socio accomandatario oppure amministratore. In particolare, la ricorrente ha elencato i fatti decisivi e controversi tra le parti che non sono stati in alcun modo esaminati dal giudice di appello: partecipazione quale socio accomandatario della D. s.a.s. Di B. Giovanni & C, senza che sia stata mai presentata la dichiarazione dei redditi; partecipazione quale unico socio alla B. Investimenti s.r.l., iniziata nel 2001 e messa in liquidazione nel 2005, con unica operazione consistita nell’acquisto di un terreno edificabile dal padre del contribuente per € 929.623.0, poi rivenduto dopo 4 giorni per € 3.356.969,00; tale società non ha presentato la dichiarazioni dei redditi per gli anni 2004 e 2005; ruolo di legale rappresentante della B. Investimenti sas di B. Ettore & C; partecipazione come unico socio alla A.M. s.r.l.; partecipazione come socio all’80 % della B.G. & C s.n.c.. Tutte le società hanno effettuato versamenti in favore del contribuente nel corso degli anni. Il contribuente non risulta mai aver percepito compensi, quale amministratore, o utili, quale socio, da tali società. Sono stati indicati, poi, dalla ricorrente tutta una serie di atti e di contratti che devono essere utilizzati per qualificare l’attività svolta dal contribuente (compravendita di fabbricato dichiarato di € 350.0. 00 del 5-4-2002; compravendita di terreno per € 87.797,67 del 1812-1996; compravendita di terreno per € 103.291,38 del 20-3-1997; compravendita di fabbricato del 4-9-1997; mutuo per € 550.000 del 15-72003; mutuo per € 2 milioni del 27-5-2004). Altri contratti sono, poi, emersi tramite l’anagrafe tributaria.
9. Va anche precisato che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, al lavoratore autonomo può essere applicata solo la presunzione di reddito imponibile dei “versamenti”, ma non quella dei “prelevamenti”.
Per questa Corte, dunque, la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali, essendo venuta meno, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, la modifica della citata disposizione, apportata dall’art. 1, comma 402, della legge n. 311 del 2004, sicché non è più sostenibile l’equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d’impresa e professionale per gli anni anteriori (Cass., sez. 5, 11 novembre 2015, n. 23041).
9.1. Inoltre, costituisce principio consolidato, cui si aderisce, quello per cui l’utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito quali prove presuntive di maggiori ricavi o operazioni imponibili, ai sensi degli artt. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo, atteso che, ove non sia contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo al contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti (Cass., sez. 5, 28 febbraio 2017, n. 5135; Cass., sez. 5, 23 aprile 2007, n. 9573; Cass., sez. 5, 13 ottobre 2011, n. 21132; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2001, n. 2435).
9.2. La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile, dunque, ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti (Cass., sez. 5, 16 novembre 2018, n. 29572; Cass., sez. 5, 30 marzo 2018, n. 7951; Cass., sez. 5, 26 settembre 2018, n. 22931).
9.3. Deve, quindi, tenersi conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 228 del 2014 intervenuta dopo lo svolgimento del processo di appello. Invero, per questa Corte il mutamento normativo prodotto da una pronuncia d’illegittimità costituzionale, configurandosi come “ius superveniens”, impone, anche nella fase di cassazione, la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta; con l’ulteriore conseguenza che, ove la nuova situazione di diritto obiettivo derivata dalla sentenza d’incostituzionalità (nella specie, n. 228 del 2014, in tema di presunzione legale del maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari ex art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 228 del 2014, riferite, quanto ai prelevamenti, ai soli titolari di reddito di impresa, e, quanto ai versamenti, a tutti i contribuenti) richieda accertamenti di fatto non necessari alla stregua della precedente disciplina, questi debbono essere compiuti in sede di merito, al qual fine, ove il processo si trovi nella fase di cassazione, deve disporsi il rinvio della causa al giudice di appello (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2019, n. 34209).
9.4. Quanto alla concreta rilevanza, nella fattispecie in esame, della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale, deve rilevarsi che non è affatto pacifico che l’attività svolta dal contribuente sia di lavoratore autonomo, in quanto la Commissione regionale ha ritenuto che dagli elementi in atti non era possibile qualificare la tipologia di reddito e che, anzi, poteva escludersi la sussistenza di una autonoma organizzazione, con mancato assoggettamento all’Iva ed all’Irap di tali redditi, ma con una motivazione che è stata confutata da questa Corte. Inoltre, la ricorrente ha più volte adombrato sia nei giudizi di merito che in sede di legittimità la possibilità di ravvisare nella attività del B. anche una attività imprenditoriale, quale gestore di più società, come vero e proprio holder. È, infatti, configurabile una “holding” di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta “holding” pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta “holding” operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti, altresì, obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima (Cass., sez. 1, 6 marzo 2017, n. 5520; Cass., sez. 1, 25 luglio 2016, n. 15346, che però ritiene non indispensabile la spendita del nome; Cass., sez. 1, 13 marzo 2003, n. 3724; Cass., sez. 1, 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., sez. 1, 26 febbraio 1990, n. 1439).
Il giudice del rinvio dovrà, quindi, accertare la tipologia di reddito del contribuente, valutando se trattasi di reddito da lavoro autonomo, da capitale o da attività di impresa, anche ai sensi dell’art. 2195 c.c. e dell’art. 55 d.p.r. 917/86, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata.
10. Con il primo motivo di ricorso incidentale il contribuente deduce la “illegittimità, ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c., della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 10 dello statuto del contribuente. Ristrettezza dei termini temporali concessi per produrre le giustificazioni sui movimenti bancari”, in quanto stante la ragguardevole mole di documenti da acquisire per giustificare tutte le movimentazioni bancarie di vari anni, l’Agenzia delle entrate, nel corso del contraddittorio preventivo, ha concesso termini ristretti per la relativa produzione.
Il contribuente, invece, aveva fatto affidamento, in buona fede, ad ottenere una proroga dei termini per esercitare appieno il suo diritto di difesa.
10.1. Tale motivo è infondato.
Invero, risulta dagli atti che il contribuente è stato messo in condizione di produrre la documentazione necessaria alla sua difesa, con successivi inviti menzionati nel ricorso per cassazione (cfr. pagina 69 del ricorso per cassazione).
Del resto, il difensore del contribuente ha partecipato anche all’incontro per addivenire all’eventuale accertamento con adesione.
11.1. Con il secondo motivo di ricorso incidentale il contribuente deduce la “illegittimità, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione delle norme procedimentali che impongono l’instaurazione del contraddittorio preventivo con il contribuente. Violazione del diritto di difesa”, in quanto i dati finanziari acquisiti dagli istituti di credito devono essere esaminati in contraddittorio preventivo con il contribuente.
11.1. Tale motivo è infondato.
Invero, per questa Corte, in tema di accertamento dell’IVA, l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare le risultanze dei conti correnti bancari e i dati derivanti da altri rapporti ed operazioni intercorsi tra la banca ed il contribuente, anche in assenza di preventivo interpello dello stesso, non imposto da alcuna norma e la cui mancanza non determina una lesione del diritto di difesa poiché il contribuente può non solo azionare un procedimento contenzioso, ma anche attivare la procedura di definizione con adesione, nell’ambito della quale, oltre a beneficiare della sospensione dei termini di impugnazione, di pagamento e di iscrizione a ruolo dell’imposta, ha la possibilità di fornire all’Amministrazione finanziaria dati ed informazioni per sollecitare un intervento in autotutela (Cass., sez. 5, 28 febbraio 2018, n. 4581).
12. Con il terzo motivo di ricorso incidentale il contribuente si duole della “illegittimità, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli articoli 32, primo comma, n. 2, del d.p.r. 600/1973, 51, primo comma, n. 2, del d.p.r. 633/1972 e dell’art. 2697 c.c.: inesistenza di presunzioni legali in ordine alle movimentazioni bancarie”.
12.1. Tale motivo è infondato.
Invero, per giurisprudenza consolidata di questa Corte le presunzioni di cui all’art. 32 primo comma n. 2 d.P.R. 600/1973 sono proprio presunzioni legali relative.
13. Con il quarto motivo di ricorso incidentale il contribuente deduce la “illegittimità, ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 4 c.p.c., della sentenza in epigrafe specificata per omessa pronuncia in merito all’illegittimità degli avvisi di accertamento per applicazione retroattiva della norma introdotta dalla legge n. 311 del 30-12-2004”.
Tale motivo è assorbito, stante l’accoglimento del ricorso principale.
14. Con il quinto motivo di ricorso incidentale il contribuente deduce la “illegittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., della sentenza di seconde cure per violazione dell’art. 47 , comma 1, Tuir”, in quanto il giudice di appello ha respinto la richiesta di limitare l’assoggettabilità degli utili da distribuire solo al 40 % ai sensi dell’art. 47 Tuir, non essendo possibile effettuare una qualificazione reddituale delle somme introitate in mancanza di elementi certi e precisi.
14.1. Tale motivo è assorbito, in conseguenza dell’accoglimento del ricorso principale.
15. Con il sesto motivo di ricorso incidentale il contribuente si duole della “illegittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, della sentenza in epigrafe specificata per violazione dell’art. 38, comma 4, del d.p.r. 600/1973, dell’art. 42 del d.p.r. 600/1973 e dell’art. 2697 c.c.”, in quanto il giudice di appello, per l’anno 2005, ha omesso di pronunciarsi sulla illegittimità dell’accertamento sintetico, non essendo stata dimostrata la non congruità del reddito accertato per due periodi di imposta.
15.1. tale motivo è infondato perché v’è stata pronuncia espressa da parte della Commissione regionale la quale ha affermato che “quanto all’accertamento per l’anno 2005 effettuato con metodo induttivo, in assenza di altri elementi utilizzabili l’Ufficio correttamente ha tenuto conto della accertata proprietà di beni indicatori di capacità contributiva, la cui manutenzione comportava necessariamente rilevanti spese”.
Tra l’altro, per tutti gli altri anni v’è stata omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
P.Q.M.
Accoglie i motivi secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo del ricorso principale; rigetta il primo motivo; rigetta i motivi primo, secondo, terzo e sesto di ricorso incidentale; dichiara assorbiti i motivi quarto e quinto di ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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