CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 ottobre 2022, n. 30829
Rapporto di lavoro subordinato – Sostituto d’imposta – Adesione al condono fiscale – Quote IRPEF non versate – Obbligo di restituzione dell’indebito
Fatti di causa
1. C.G., dipendente della F.S. s.r.l. (in Amministrazione straordinaria), sostituto d’imposta per le quote IRPEF relative al periodo ottobre 1990 – dicembre 1992, trattenute e non versate in forza della sospensione temporanea disposta in seguito al sisma di Siracusa del 1990 e successivamente versate, in adesione al condono fiscale previsto dalla legge n. 289/2002, nella misura del 10%, aveva chiesto il rimborso della quota residua a suo tempo trattenuta e non versata.
2. Il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 32/2014 del 23 dicembre 2013, aveva ritenuto che il sostituto d’imposta, una volta adempiuto il condono ed estinta l’obbligazione nei confronti dell’Erario, anche nei confronti del sostituto condebitore solidale e quindi anche ex art. 1301 cod. civ., non poteva trattenere le somme non versate ed era obbligato a restituire l’indebito ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., riconoscendo la minor somma derivante dai conteggi effettuati dalla procedura, non contestati, pari ad € 4.705,00 oltre rivalutazione monetaria dalla data delle singole trattenute sino alla definitività dello stato passivo e gli interessi legali dalla data del deposito del ricorso fino al saldo.
3. La Corte di appello di Bologna in parziale riforma della sentenza impugnata dalla società F.S. s.r.I., ha modificato il termine finale degli interessi legali che sono stati riconosciuti fino alla liquidazione delle attività mobiliari (e non fino al saldo) rigettando invece, e per quanto qui interessa, il motivo di gravame sull’insussistenza del diritto del lavoratore alla ripetizione del 90% dell’ammontare delle ritenute non versate in ragione dell’adesione al condono, affermando che il rapporto fra sostituto, sostituito ed il fisco si configurava come una obbligazione solidale passiva nei confronti del fisco, all’interno del quale il sostituito, quale percettore di reddito, doveva considerarsi direttamente obbligato nei confronti dell’amministrazione finanziaria, con conseguente applicazione dei principi sulle obbligazioni solidali e che l’estinzione dell’obbligazione tributaria per l’adesione al condono derivava da una remissione parziale del debito tributario, ai sensi dell’art. 1301 cod. civ., che, per la natura solidale delle obbligazioni, aveva effetti non solo a favore del sostituto, ma anche a favore del sostituito. Inoltre, i giudici di secondo grado hanno affermato che la rivalutazione monetaria decorreva dal momento in cui erano state effettuate le trattenute indebite, a nulla rilevando l’adesione al condono, considerata la natura di credito da lavoro a cui si applicava l’art. 429 cod. proc. civ.; pertanto il termine che rilevava era quello del giorno di maturazione del diritto; Quanto al motivo di gravame sulle spese legali lo ha ritenuto inammissibile per la sua genericità.
4. La F.S. s.r.I., in Amministrazione Straordinaria, ricorre in Cassazione con atto affidato a tre motivi cui resiste con controricorso C.G. con tempestivo controricorso. Il Procuratore generale ha precisato le sue conclusioni ai sensi dell’art. 23 comma 8 bis del d.l. 28.10.2020 n. 137 conv. in legge 18.12.2020 n. 176 ed ha chiesto la reiezione del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Ragioni della decisione
5. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 9, comma 17, della legge n. 289/2002 e degli artt. 1294, 1301, 2033 cod. civ. e del principio lex posterior derogat priori in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., poiché la Corte d’appello, ritenendo che la remissione del debito tributario conseguente all’adesione al condono aveva spiegato effetto anche nei confronti del lavoratore sostituito, con conseguente diritto alla restituzione della somma non versata, aveva omesso di considerare che l’art. 9, comma 17, della legge n. 289/2002, aveva previsto il beneficio della definizione agevolata a esclusivo favore del sostituto d’imposta e non anche del sostituito.
5.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte, già con l’ordinanza del 28 maggio 2019, n. 14502, vertente su identica fattispecie, aveva osservato quanto segue: «2.1. la sentenza impugnata si basa su una condivisa interpretazione della normativa speciale di riferimento e dei principi generali in materia di retribuzioni, in base alla quale il lavoratore ha diritto a ricevere l’intero importo retributivo che va decurtato delle trattenute fiscali e previdenziali dovute per legge, il cui versamento sia stato effettivamente adempiuto dal datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta;
2.2. l’eventuale accertamento di insussistenza del debito fiscale comporta, dunque, l’obbligo del datore di lavoro alla restituzione della quota di retribuzione trattenuta e non versata al Fisco, come già affermato da questa Corte in relazione alle somme trattenute sulla retribuzione, a titolo di contribuzione previdenziale, per le quali sia successivamente accertata l’inesistenza del debito contributivo (Cass. nr. 8026 del 2003);
2.3. a tale riguardo, è solo il caso di evidenziare che il datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta, svolge sostanzialmente funzioni di esattore dell’amministrazione finanziaria versando direttamente a questa ultima gli acconti d’imposta per conto del contribuente sostituito, nel caso di specie del lavoratore subordinato; provvede, cioè – sia pure in adempimento di un preciso obbligo di legge (e non in esecuzione di un mandato negoziale o come gestione di affari altrui) – ad adempiere ad un’obbligazione altrui, quella appunto del sostituito nei confronti dell’amministrazione finanziaria;
infatti, alla fine dell’esercizio fiscale, in occasione della compilazione della dichiarazione dei redditi, è il sostituito a dover conteggiare quanto ancora dovuto, scalando dall’importo dell’imposta lorda, oltre alle detrazioni di imposta, gli acconti già versati o da lui direttamente oppure per suo conto dal sostituto d’imposta (oppure anche, eventualmente, da una pluralità di sostituti d’imposta);
2.4. l’obbligato principale nei confronti del Fisco resta, dunque, sempre il percettore del reddito, indipendentemente dal fatto che l’esazione del tributo avvenga (in tutto o in parte) mediante il sistema della ritenuta alla fonte;
2.5. coerentemente, ove intervengano meccanismi di definizione agevolata della posizione fiscale, da un lato, è il sostituito (id est: il lavoratore) il principale benefíciario della stessa, come peraltro espressamente riconosciuto da questa Corte proprio in relazione alla specifica normativa qui in discussione (ex plurimis, Cass. 17472 e 17473 del 2017; Cass. nr. 7509 del 2018; Cass. nr. 3641 del 2019), dall’altro, il sostituto (id est: il datore di lavoro), non più tenuto a versare al Fisco, in ragione del medesimo meccanismo di definizione agevolata, le somme trattenute, deve restituirle al lavoratore, non avendo più idoneo e valido titolo giuridico per trattenere il residuo)».
5.2. Successivamente, poi, con le ordinanze del 19 aprile 2021, nn. 10258 e 10259 questa Corte ha precisato che: «Varrà rammentare che gli elementi identificativi della figura del sostituto d’imposta sono contenuti nell’articolo 64, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui è sostituto: «Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto»; ciò con l’ulteriore previsione secondo cui il sostituto «deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso». Il tratto caratterizzante del meccanismo di sostituzione di imposta sta dunque in ciò, che l’obbligazione di pagamento del tributo incombe sul sostituto «in luogo di altri», «per fatti o situazioni» a questi riferibili, e cioè, detto in altri termini, in relazione ad un obbligo contributivo sostanzialmente riferibile a tali altri. La figura del sostituto è stata nel tempo ricostruita, sul piano teorico, secondo una pluralità di schemi: in termini di pignoramento presso terzi, di sostituto quale intermediario nella riscossione, o di organo di riscossione, ovvero di successore nel debito d’imposta, o di rappresentante ex lege; si sono ritenuti, inoltre, applicabili gli schemi della surrogazione o della cessione legale del credito o della delegazione passiva di pagamento. Al riguardo, non occorre certo approfondire qui, essendo sufficiente, per i fini di questa decisione, richiamare il recente responso delle Sezioni Unite di questa Corte le quali, nell’escludere la solidarietà tra sostituto e sostituito qualora il sostituto abbia operato le ritenute, hanno osservato che: «L’art. 64, comma 2, d.p.r. 600 … dimostra che il soggetto passivo della stessa rimane il sostituito, atteso che al sostituto è soltanto riconosciuta una eccezionale facoltà di intervenire nel processo; di qui la fondamentale illazione per cui il dovere di versamento della ritenuta d’acconto costituisce un’obbligazione autonoma, rispetto all’imposta; un’obbligazione che la legge ha posto solamente a carico del sostituto, a mezzo degli artt. 23 ss. d.p.r. n. 600 cit.; e che trova la sua causa nel corrispondente obbligo di rivalsa stabilito dall’art. 64» (Cass., Sez. Un., 12 aprile 2019, n. 10378). Insomma, non è revocabile in dubbio che l’obbligazione tributaria grava sul sostituto, perché così stabilisce l’articolo 64, ma «il soggetto passivo della stessa rimane il sostituito», con il cui denaro il tributo è soddisfatto dal sostituto: nel qual senso può del resto richiamarsi la giurisprudenza della sezione tributaria secondo cui: «In tema di condono fiscale, l’art. 9, comma 17, della l. n. 289 del 2002, che consente al contribuente delle province siciliane coinvolte nel sisma del 1990 di recuperare il 90 per cento di quanto dovuto e versato a titolo d’imposte, in deroga al principio per cui la sanatoria non consente di ottenere rimborsi dallo Stato, risponde ad una logica particolare e diversa dagli altri provvedimenti di sanatoria, in quanto tesa ad indennizzare i soggetti coinvolti in eventi calamitosi, sicché la legittimazione spetta al solo soggetto passivo d’imposta in senso sostanziale e non anche al sostituto d’imposta» (Cass. 26 settembre 2016, n. 18905)».
5.3. A tali principi deve essere data continuità atteso che non può trovare accoglimento la tesi che il legislatore, in ipotesi di sostituzione di imposta, abbia previsto il beneficio della definizione agevolata a esclusivo favore del sostituto d’imposta e non invece del sostituito. Come già affermato dall’ordinanza da ultimo richiamata, il sostituto, di regola, trattiene il denaro del contribuente direttamente dalle sue fonti di reddito e lo versa al creditore. I fondi con cui il sostituto soddisfa l’obbligazione tributaria sono di regola prelevati alla fonte dalla retribuzione del sostituito, con la conseguenza che, ritenendo diversamente l’invocato articolo 9, comma 17, della legge n. 289/2002 prevederebbe «un eccentrico spostamento patrimoniale, per di più coatto — spostamento invero non facile a qualificarsi in termini di consueti istituti civilistici —, dal sostituito al sostituto: giacché il sostituto avrebbe in buona sostanza trattenuto, ossia non versato, il tributo dovuto dal sostituito, coi suoi denari, in relazione all’arco temporale previsto dalla norma, e, grazie, alla norma medesima, potrebbe poi trattenere il 90% di quanto non versato, ossia della relativa quota-parte di retribuzione del lavoratore» (cfr. Cass. 19/04/2021 nn. 10258 e 10259 in motivazione).
5.4. Deve ribadirsi allora che l’interpretazione letterale dell’art. 9, comma 17, della legge n. 289/2002 è nel senso che il legislatore non ha voluto operare alcun spostamento patrimoniale dall’uno all’altro soggetto del rapporto di sostituzione di imposta e che la norma in esame non impedisce al lavoratore sostituito di ottenere il pagamento della somma ammessa al passivo all’esito del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata.
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 429, comma 3, cod. proc. civ., dell’art. 2033 cod. civ. e dell’art. 9, comma 17, della legge n. 289/2002, per avere la Corte d’appello erroneamente riconosciuto la rivalutazione monetaria a far tempo dell’effettuazione delle ritenute senza considerare che il credito restitutorio, ex art. 2033 cod. civ., era sorto per effetto della definizione agevolata e, quindi, a far tempo dal perfezionamento della medesima, collocato dall’art. 9, comma 17, della legge n. 289/2002 al momento del versamento della prima rata.
6.1. Anche tale censura è infondata. Correttamente la Corte d’appello ha affermato che le somme da restituire al lavoratore per l’accertata inesistenza del debito fiscale hanno mera natura retributiva e la natura retributiva del credito al rimborso comporta che ad esso non può che essere applicata l’intera disciplina afferente al rapporto di lavoro e, quindi anche le disposizioni di cui all’art. 429 cod. proc. civ. in tema di interessi e rivalutazione, costituendo dette voci una componente essenziale del credito medesimo (cfr. Cass., 12 luglio 2001, n. 9470; Cass., 16 giugno 2001, n. 8175; Cass. 21 dicembre 1998, n.12758, in motivazione).
6.2. L’obbligo di corrispondere gli interessi e la rivalutazione su quote di retribuzione corrisposte in ritardo al lavoratore (quali sono quelle derivanti dalla sopravvenuta insussistenza del debito fiscale, per effetto del meccanismo di agevolazione prevista dalla legge n. 289/2002) prescinde dall’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, poiché i suddetti accessori consistono in una qualità del credito ad esso automaticamente ed inscindibilmente connessa; nel sistema configurato dall’art. 429 cod. proc. civ. Il credito lavorativo, maggiorato di rivalutazione ed interessi legali rappresenta, nel tempo, l’originario credito nel suo reale valore man mano aggiornato, sicché, ai fini della determinazione del rimborso ai lavoratori, nessuna rilevanza può avere la circostanza che la società, al momento della trattenuta, sia obbligata a tanto per legge e che il versamento sia stato sospeso prima della normativa di definizione agevolata (cfr. in termini recentemente Cass. 23/02/2022 n. 5973).
7. Il terzo motivo con il quale la società lamenta l’omessa pronuncia, l’extrapetizione ovvero l’ omessa o insufficiente motivazione, per avere la Corte di merito omesso di pronunciare sul motivo di gravame in punto di spese legali, inerente unicamente l’attribuzione della maggiorazione del 12,5% sui compensi liquidati, avendo pronunciato su un rilievo (la contestazione del quantum dei compensi liquidati) in nessun modo svolto dalla Procedura, è inammissibile sotto vari profili.
7.1. Per difetto di autosufficienza, in quanto a fronte di quanto affermato dai giudici di merito a pag. 3 della sentenza impugnata («sempre in subordine, erronea liquidazione delle spese legali in base alla normativa non più in vigore al momento della precisazione delle conclusioni (udienza del 14 febbraio 2013), mentre era vigente il d.m. 140/2012, in base ai recenti pronunciamenti della Cassazione (S.U. del 12/10/2012 n. 17406)» era necessario riportare l’intero contenuto del motivo di gravame formulato nell’atto di appello, mentre la società ricorrente ha trascritto, a pag. 13 del ricorso per cassazione, l’atto di appello mancante di alcune parti.
7.2. Inoltre la censura non si confronta con l’iter argomentativo della Corte territoriale che ha affermato la carenza dell’interesse ad agire, dato che il difensore non aveva messo a confronto la liquidazione spettante in base alle diverse tariffe; con quella effettuata dal giudice di primo grado, applicando le tariffe non più in vigore. Questa affermazione integra un’autonoma rado decidendi idonea a sorreggere di per sé sola la decisione sul punto e non è stata fatta oggetto di alcuna contestazione.
Ne deriva che la società ricorrente non ha interesse a dolersi del profilo qui impugnato, poiché, quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base all’affermazione non censurata (Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431; Cass., Sez, U., 8 agosto 2005, n. 16602 e specificatamente Cass. n. 5973 del 2022 cit.).
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese liquidate in dispositivo devono essere poste a carico della parte soccombente. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in € 1.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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