CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 febbraio 2019, n. 5560
Accertamento – Imposrtazione – Recupero di maggiori diritti di confine – Importazione di merce per valori e quantitativi superiori al valore di transazione dichiarato
Fatti di causa
La società contribuente, rappresentante indiretto di una società importatrice di calzature da Paesi extra UE (Cina), ha impugnato davanti alla CTP di Livorno un verbale di revisione dell’accertamento emesso dall’Ufficio delle Dogane di Livorno in data 24.03.2009 relativo a bollette di importazione del 13.09.2007, unitamente all’avviso di rettifica dell’accertamento definitivo per recupero di maggiori diritti di confine oltre accessori, conseguenti all’accertamento di importazione di merce per valori e quantitativi superiori al valore di transazione dichiarato.
La CTP di Livorno ha rigettato il ricorso della società contribuente. La CTR della Toscana ha invece accolto l’appello, ritenendo che la sottofatturazione fosse ascrivibile esclusivamente al comportamento penalmente rilevante posto in essere dall’importatore, rispetto al quale il rappresentante indiretto, benché dichiarante in dogana, era stato ritenuto estraneo. L’ipotesi delittuosa si sarebbe tradotta, secondo il giudice di appello, nella utilizzazione da parte dell’importatore, tramite artifizi e raggiri, di documentazione commerciale contraffatta relativa all’ingresso nel territorio dell’Unione di merce per valori e quantitativi inferiori al valore di transazione, con conseguente sottrazione di parte della stessa al dazio doganale. Ha ritenuto, pertanto, il giudice di appello che al caso di specie sarebbe applicabile l’art. 202 Regolamento (CEE) del 12 ottobre 1992, n. 2913 in luogo dell’art. 201 Reg. (CEE) cit., in quanto il riscontro della sottofatturazione ex post, a seguito di complesse indagini penali, sarebbe qualificabile come introduzione irregolare di merci da parte dell’importatore, rispetto alla quale il rappresentante indiretto (dichiarante in dogana), non ne era a conoscenza, né poteva esserne a conoscenza con l’ordinaria diligenza a lui consentita. Il giudice di appello ha, inoltre, escluso in concreto che il rappresentante indiretto potesse compiere una autonoma valutazione della veridicità dei valori esposti in bolletta, rilevando come nessun rilievo fosse stato mosso originariamente dai funzionari doganali in relazione a congruità e qualità dei beni, che pure avevano effettuato un riscontro fisico in dogana, nonché ai prezzi fatturati, posto che la fattispecie delittuosa era emersa a seguito di accesso (perquisizione) presso la sede dell’importatore.
Ha, infine, valorizzato il giudice impugnato la buona fede del dichiarante a termini dell’art. 220 Reg. (CEE) n. 2913/1992, cit.
Propone ricorso l’Agenzia delle Entrate con due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società contribuente, la quale ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1 – Con il primo motivo l’Ufficio ricorrente denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 201, 202 Regolamento (CEE) del 12 ottobre 1992, n. 2913 (codice doganale comunitario applicabile ratione temporis) e dell’art. 199 delle Disposizioni Attuative del medesimo Regolamento (Regolamento (CEE) del 2 luglio 1003, n. 2454/1993), che fissa talune disposizioni applicative. Ritiene il ricorrente che la CTR, nella sentenza impugnata, abbia fatto erroneamente applicazione dell’art. 202 CDC, rilevando come nel caso di specie dovrebbe applicarsi l’art. 201, comma 3, CDC con conseguente responsabilità del dichiarante e, quindi, del rappresentante indiretto a termini dell’art. 40 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Testo Unico Legislazione Doganale) e dell’art. 5 CDC (art. 56 TULD).
Ritiene il ricorrente che nel caso di specie la merce sia stata introdotta regolarmente sulla base di una formale dichiarazione doganale, laddove l’introduzione irregolare presuppone l’immissione della merce in libera pratica senza dichiarazione. Sostiene il ricorrente che anche nel caso di sottofatturazione (accertata ex post in seguito ad indagine penale) – nella quale si accerti che il mancato versamento dei dazi dovuti consegua alla presentazione di documenti ideologicamente falsi – ricorra la fattispecie della introduzione regolare a termini dell’art. 201 Reg. (CEE) n. 2913/1992 (CDC).
Ritiene, in ogni caso, che – ancorché dovesse astrattamente farsi applicazione dell’art. 202 CDC – il controricorrente, in quanto dichiarante e rappresentante indiretto, non potrebbe andare esente da responsabilità, essendo, da un lato, irrilevante l’estraneità al fatto delittuoso del dichiarante, stante la diversità della responsabilità tributaria rispetto a quella penale, dall’altro in quanto rileverebbe nel caso di specie la natura professionale della responsabilità del dichiarante (art. 1176, comma 2, cod. civ.), in forza della quale il rappresentante indiretto avrebbe potuto e dovuto accertare preventivamente l’irregolarità della documentazione a corredo della dichiarazione doganale, anziché potersi qualificare quale “vittima incolpevole”.
2 – Il primo motivo è fondato nei termini che seguono, dovendosi ritenere che la vicenda in esame resta disciplinata dall’art. 201 Reg. (CEE) n. 2913/1992 (CDC), per essere avvenuta l’importazione sulla base di una dichiarazione doganale, ancorché si verta nell’ipotesi di sottofatturazione accertata ex post in base ad indagine penale.
2.1 – L’art. 201, comma 1, lett. a) dispone che l’obbligazione doganale all’importazione sorge in seguito all’immissione in libera pratica di una merce soggetta a dazi all’importazione. Il secondo comma del medesimo articolo prevede che il sorgere dell’obbligazione doganale è legato all’accettazione della dichiarazione in dogana, la cui dichiarazione rende soggetto passivo dell’obbligazione doganale il dichiarante (art. 201, comma 3, Reg. cit.). La disposizione prevede, infine, una estensione dell’area della soggettività passiva in capo a coloro che, in caso di accertata mancata riscossione ex post di diritti di confine, hanno, da un lato, fornito gli elementi che hanno reso erronea la dichiarazione doganale che ha condotto alla mancata riscossione dei diritti di confine e, dall’altro, erano o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della loro erroneità.
In correlazione con l’immissione di merci in libera pratica per effetto della sequenza procedimentale prevista dagli artt. 38 e ss. CDC (trasporto delle stesse presso gli uffici doganali o zone franche e presentazione in dogana), l’obbligazione doganale sorge con la dichiarazione, quale effetto della indicazione di un determinato regime doganale contenuto nella dichiarazione e si lega soggettivamente all’autore della dichiarazione, indipendentemente dal rapporto che il dichiarante abbia con la merce. Analoga responsabilità grava sul rappresentante indiretto dell’importatore, il quale risponde in quanto dichiarante, laddove il rappresentante diretto rimane estraneo alla fattispecie impositiva (posto il dichiarante in questo caso è il rappresentato), a conferma che l’obbligazione doganale è legata al ruolo di dichiarante, ovvero di autore della dichiarazione doganale. La centralità della figura del dichiarante è, poi, confermata dall’art. 5, comma 4, Reg. (CEE) n. 2913/1992, secondo cui «la persona che non dichiari di agire a nome o per conto di un terzo o che dichiari di agire a nome o per conto di un terzo senza disporre del potere di rappresentanza è considerata agire a suo nome e per proprio conto». La mancanza di prova dei poteri di rappresentanza, la mancata risposta a una contestazione da parte dell’Ufficio o l’assenza di dichiarazione comporta la presunzione che il dichiarante abbia agito quale rappresentante indiretto e, come tale, quale dichiarante.
Diversa è, invece, l’ipotesi in cui l’obbligazione doganale sorga per effetto della inosservanza della normativa doganale, ossia in caso di introduzione irregolare (art. 202 CDC), di sottrazione al controllo doganale (art. 203 CDC) e delle altre ipotesi previste dal Regolamento (artt. 204, 205 CDC). In questo caso l’obbligazione doganale emerge non per effetto della presentazione di una dichiarazione, ma a causa del verificarsi di alcuni fatti (introduzione di merci senza dichiarazione doganale, sottrazione al controllo, inosservanza di obblighi previsti dalla normativa doganale per i regimi speciali etc.), che inducono una presunzione legale di immissione al consumo delle merci medesime. In dette ipotesi, il fatto generatore dell’imposta prescinde dalla esistenza di una valida dichiarazione doganale ed è legato al verificarsi di un fatto.
Solo in questo caso si configura una importazione di merci che prescinda dalla esistenza di una valida dichiarazione doganale, perché l’introduzione della merce non ha rispettato le fasi contemplate dall’art. 38, n. 1 e art. 40 CDC (Cass., Sez. V, 1° marzo 2013, n. 5159), ossia conduzione/trasporto all’ufficio doganale e presentazione in dogana (Conf. Cass. VI, 23 giugno 2017, n. 15777; Cass., Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 10033; Cass., Sez. VI, 30 marzo 2017, n. 8240).
2.2 – Nel caso di specie il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana, a sua volta fondata su una fattura rivelatasi ideologicamente falsa quanto a descrizione della quantità della merce e ai singoli valori di transazione. In questo caso non può operare l’ipotesi di cui all’art. 202 CDC (cd. Introduzione irregolare), in quanto vi è stata sia presentazione in dogana (art. 4, punto 19 CDC: comunicazione all’autorità doganale dell’avvenuto arrivo delle merci), sia dichiarazione doganale (art. 14, punto 17 CDC: atto con il quale una persona manifesta la volontà di vincolante una merce ad un determinato regime doganale), laddove l’introduzione irregolare è quella che prescinde del tutto dalla sussistenza di una dichiarazione doganale. Né può ritenersi rilevante il fatto che l’autorità doganale abbia proceduto a una verifica fisica dei prodotti, in quanto ciò che conta è la presentazione della merce in dogana.
Questa ricostruzione è coerente con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale distingue l’ipotesi della introduzione della merce con dichiarazione da quella oggetto di introduzione irregolare, facendo applicazione dell’art. 202 CDC nelle sole ipotesi in cui la dichiarazione mancava del tutto, ovvero non aveva alcun rapporto con la merce oggetto di introduzione. Si è ritenuta, ad esempio, applicabile la disciplina della introduzione irregolare di cui all’art. 202 CDC in un caso in cui la dichiarazione doganale non aveva alcun rapporto né con le merci importate (utensili da cucina anziché sigarette) né con il regime doganale dichiarato (transito anziché immissione in libera pratica: Corte di Giustizia, 3 marzo 2005, Papismedov, C-195/03), caso nel quale si è ritenuto che non sussisteva alcuna presentazione in dogana ex art. 4, punto 19 CDC. Analogamente si è fatta applicazione dell’art. 202 CDC nel caso di merce introdotta unitamente a merce oggetto di dichiarazione, ma occultata in un nascondiglio creato a tale scopo (Corte di Giustizia, 4 marzo 2004, Hauptzollamt Hamburg-Stadt, cause riunite C-238/02 e C-246/02).
In questi casi la Corte di Giustizia ha dato atto che la dichiarazione “non sussiste”, posto che la descrizione della merce dichiarata non ha alcuna relazione con la merce introdotta.
Diversamente, si è ritenuto che non sussiste introduzione irregolare ove la merce sia stata dichiarata, benché menzionata con una classificazione doganale erronea (Corte Giustizia, 8 settembre 2016, Schenker, C-409/14).
Nel caso di specie la merce dichiarata era proprio quella oggetto della dichiarazione, differendo i quantitativi e i valori di transazione, per cui non può ritenersi che la dichiarazione doganale non avesse alcuna attinenza con la merce introdotta.
Si versa, pertanto, nel caso dell’inserimento nella dichiarazione di dati relativi alla merce introdotta non rispondenti al vero, tali da comportare la erroneità della stessa in relazione ai valori di transazione applicabili. Nel qual caso, l’inserimento nella dichiarazione doganale di dati non corrispondenti al vero, comporta la erroneità della dichiarazione doganale, per la quale non viene meno l’applicazione del regime di cui all’art. 201 CDC, ma al più si rende si rende applicabile il terzo comma dell’art. 201 CDC che, ferma restando la responsabilità del dichiarante, estende la responsabilità tributaria anche alle persone che hanno fornito detti dati necessari alla stesura della dichiarazione e che erano o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della loro erroneità (Corte Giustizia, 19 ottobre 2017, C-522/16, punto 46).
Né può pensarsi che in questo caso si verta in tema di responsabilità oggettiva, sia in quanto il dichiarante può premunirsi contrattualmente nei confronti dell’importatore e, in ogni caso, può evitare di incorrere in responsabilità agendo quale rappresentante diretto dell’importatore.
Il primo motivo va, pertanto, accolto enunciandosi il principio di diritto secondo cui, in presenza di sottofatturazione, conseguente alla introduzione di merci con dichiarazione doganale redatta su dati rivelatisi falsi la quale, per effetto di indicazione di falsi quantitativi e falsi valori di transazione, abbia comportato la mancata riscossione anche solo parziale dei dati dovuti per legge, resta ferma la responsabilità del dichiarante a termini dell’art. 201, commi 2 e 3, CDC, essendo il fatto generatore dell’obbligazione doganale costituito dalla dichiarazione doganale accettata, laddove si rende applicabile l’art. 202 CDC nel solo caso in cui la merce importata non abbia alcuna relazione con quella oggetto della dichiarazione.
3 – Con il secondo motivo, l’Ufficio denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 220 comma 2, lett. b) Regolamento (CEE) n. 2913/1992 (CDC) e 2697 cod. civ., per avere ritenuto il giudice impugnato che il rappresentante indiretto fosse in buona fede, nonostante nel caso di specie non sia stato condotto alcun accertamento sulla buona fede del dichiarante come richiesto dalla suddetta disposizione, ossia l’errore imputabile all’Autorità doganale e la sussistenza di un errore tale da non poter essere riconosciuto da un operatore professionale determinato da comportamento della autorità.
Il motivo è fondato.
Va osservato al riguardo che le autorità doganali devono rinunciare alla contabilizzazione di tali dazi all’importazione, ai sensi dell’art. 220 comma 2, lett. b) CDC, nel momento in cui si verifichino cumulativamente i seguenti tre presupposti:
a) che i dazi in questione non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime;
b) che l’errore di cui si tratta sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore che versi in buona fede;
c) che il dichiarante abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana (Corte di Giustizia 18 ottobre 2007, Agrover, C-173/06, punto 35, Corte di Giustizia 15 dicembre 2011, Afasia Knits Deutschland, C-409/10, punto 47).
Se ne deve necessariamente inferire – come anche questa Corte ha più volte avuto modo di affermare – che lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art. 220, comma 2, lett. b) CDC, ai fini dell’esenzione dalla contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente in re ipsa, ma solo in quanto sia riconducibile ad una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato anche l’errore incolpevole, ossia non rilevabile dal debitore di buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza. E, tuttavia, tale errore, per assumere rilievo esimente, deve essere in ogni caso imputabile a comportamento attivo delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dello stesso operatore o di altri soggetti (Corte di Giustizia, 27 giugno 1991, Mecanarte, C- 348/89, punti 23, 24; Corte di Giustizia 18 ottobre 2007, Agrover, cit., punto 31; Corte di Giustizia 10 dicembre 2015, Veloserviss, C- 427/14 punti 43, 44).
Inoltre, poiché l’esimente comunitaria in esame presuppone la genuinità delle certificazioni poste a fondamento della richiesta di esenzione, ossia la loro correttezza formale e sostanziale, incombe, in ogni caso, all’importatore che voglia fruire di detta esenzione, dimostrare l’esistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dall’art. 220 CDC ai fini della prova della fattispecie esimente in oggetto, mentre all’autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di allegare e dimostrare la irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero dell’imposta a posteriori (Corte di Giustizia, 18 ottobre 2007, Agrover, loc. cit.; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2011, Afasia Knits, cit., punto 47; Corte di Giustizia, 26 ottobre 2017, Aqua Pro, C-407/16, punti 78, 79; Cass., sez. V, 27 marzo 2013, n. 7702).
Nella specie non vi è stato alcun accertamento circa la sussistenza dei presupposti per non esigere i diritti di confine in danno del dichiarante, con violazione del disposto dell’art. 220 CDC.
Il motivo va accolto enunciandosi il principio di diritto secondo cui, nel caso in cui l’autorità doganale abbia allegato e dimostrato la irregolarità delle certificazioni presentate e si proceda al recupero a posteriori di una imposta, spetta al dichiarante dimostrare l’esistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dall’art. 220 CDC, ossia che i dazi in questione non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime, che l’errore di cui si tratta sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore che versi in buona fede, che il dichiarante abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana.
La sentenza va, pertanto, cassata con rinvio alla CTR della Toscana in diversa composizione.
La liquidazione delle spese, anche del grado di legittimità, è rimessa al giudice del rinvio.
P.Q.M.
Accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.