CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 luglio 2018, n. 20014
Licenziamento – Contestazione disciplinare – Genericità della comunicazione – Inidoneità della contestazione ad individuare i fatti disciplinarmente rilevanti
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 12.1.2016 la Corte di appello di Napoli, in riforma della pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato – nell’ambito della procedura di cui all’art. 1, comma 58, legge n. 92 del 2012 – l’illegittimità del licenziamento intimato dalla T.I.I.T. s.r.l. a R.L. in data 23.11.2012 per aver mendacemente dichiarato, in data 30.7.2012, al medico del 118 “di essere stato aggredito” all’interno dei locali sociali e, in sede di dimissioni ospedaliera, di essere “solo caduto in seguito ad un maldestro tentativo di trattenerlo”, ed ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna al pagamento di un’indennità pari a otto mensilità di retribuzione globale di fatto ai sensi del comma quattro del novellato art. 18 della legge n. 300 del 1970.
2. La Corte, per quel che interessa, ha ritenuto generica la contestazione disciplinare comunicata al lavoratore in considerazione della difficoltà di individuare con chiarezza i fatti storici a cui ricollegare il disvalore sociale e giuridico prospettato dalla società, fatti contraddetti dalle risultanze documentali e privi, comunque, di uno specifico riferimento al soggetto ingiustamente accusato dal lavoratore, riferiti, inoltre, ad una condotta al più meramente colposa e non certo ad un reato o ad altro comportamento illecitamente doloso, con conseguente applicazione, a fronte dell’inidoneità della contestazione ad individuare i fatti disciplinarmente rilevanti, della tutela reintegratoria dettata dal comma 4 del novellato art. 18 della legge n. 300 del 1970; esaminate, altresì, le risultanze istruttorie, la Corte ha ritenuto assente “alcuna persuasiva prova a sostegno dell’esistenza dei fatti, pur fumosamente contestati al L.”, non essendo emerse dichiarazioni del lavoratore coscientemente e volontariamente finalizzate ad accusare uno specifico soggetto e, in particolare, i suoi colleghi di lavoro di aggressioni fisiche o verbali nei suoi confronti e, conseguentemente, insussistenti i fatti ascritti.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre la società affidandosi a due motivi di ricorso, illustrati da memoria. Resiste il L. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 cod.proc.civ., 2697 e 2699 cod.civ. nonché vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, ritenuto insussistenti i fatti contestati nonostante la documentazione prodotta (riportata in copia nel ricorso) e la deposizione testimoniale (trascritta per esteso) del collega S. confermassero che il L., in data 30.7.2012, aveva reso chiarazioni contrastanti al medico del 118 e in sede di dimissioni ospedaliere.
2. Con il secondo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 cod.proc.civ., 7 della legge n. 300 del 1970, 2 della legge n. 604 del 1966 e 2119 cod.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) nonché vizio di motivazione avendo, la Corte distrettuale, ritenuto generica la contestazione dei fatti addebitati al lavoratore nonostante specifica trascrizione delle dichiarazioni rilasciate dal L. (e contestuale indicazione del documento ove erano rintracciabili), dichiarazioni irrispettose dei basilari principi di correttezza e buona fede, adottate dolosamente nei confronti dei due colleghi presenti in ufficio e tali da integrare la giusta causa di licenziamento.
3. I motivi di ricorso appaiono inammissibilmente formulati, per avere ricondotto sotto l’archetipo della violazione di legge censure che, invece, attengono al gravame contro la decisione di merito mediante una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale. Né può rinvenirsi un vizio di falsa applicazione di legge, non lamentando, il ricorrente, un errore di sussunzione del singolo caso in una norma che non gli si addice.
E’ principio più volte espresso da questa Corte (per tutte Cass. n. 16698/2010) quello secondo cui: “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra ¡’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa”.
Invero, le norme (artt. 2697 ss. c.c.) poste dal Libro VI, Titolo II, del codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere, profili che non sono censurati; la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, è, viceversa, disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’erroneità su tali profili ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (ex multis, Cass. 2707/2004).
L’illustrazione delle doglianze sull’apprezzamento della documentazione acquisita agli atti e delle risultanze testimoniali si risolve, dunque, nella proposizione di un mezzo d’impugnazione, ex art. 360 n. 5, cod.proc.civ.
In ordine alla lamentata incongruità della motivazione della sentenza impugnata, è stato più volte ribadito che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (cfr. Cass. SS.UU. n. 24148/2013, Cass. n. 8008/2014). Secondo il novellato testo dell’art. 360 n. 5 (come interpretato dalle Sezioni Unite n. 8053/2014), tale sindacato è configurabile soltanto qualora manchi del tutto la motivazione oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla”.
Il ricorrente lamenta l’erronea applicazione delle disposizioni di legge dettate in materia di distribuzione dell’onere della prova (con riguardo alla valutazione effettuata dalla Corte della documentazione rilasciata da aziende ospedaliere), di procedimento disciplinare (con riguardo alla specificità della lettera di contestazione), di giusta causa del licenziamento ed illustra la carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta effettuata dalla Corte territoriale, procedendo a contestare la valutazione delle risultanze di causa. Il ricorrente, pertanto, non ha contestato al giudice di merito di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia bensì di aver erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi di una determinata fattispecie. Tale censura comporta un giudizio non già di diritto, bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione.
Sotto questo ultimo aspetto – come già detto da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ. (che lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo, cfr. sul punto Cass. sez. un. 22 aprile 2014, n. 19881, riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. sez.un. 7 aprile 2014, n. 8053) – la sentenza si presenta comunque immune da vizi logico- formali, essendosi dato ampiamente ed esaustivamente conto sia del contenuto della lettera di contestazione disciplinare, sia dell’annotazione dell’ufficio prevenzione generale della Questura di Napoli del 30.7.2012, sia del referto medico del 30.7.2012 delle ore 19.40, sia del cedolino di dimissioni dell’ospedale Cardarelli, sia della denuncia di infortunio del 31.7.2012 ed essendo pervenuta, la Corte, ad una ricostruzione del fatto, con particolare riguardo all’elemento soggettivo della condotta, di insussistenza di dichiarazioni del L. “coscientemente e volontariamente finalizzate ad accusare uno specifico soggetto e, in particolare, i suoi colleghi di lavoro di aggressioni fisiche o verbali nei suoi confronti”. Sotto tale profilo il ricorso è, pertanto, infondato.
In ordine alla specificità della contestazione disciplinare, se pur deve, da una parte, rilevarsi che secondo il costante insegnamento di questa Corte, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati (cfr. da ultimo Cass. n. 29240 del 2017; Cass. n. 20319 del 2015; Cass. n. 10662 del 2014) nonché, dall’altra parte, sottolinearsi che la lettera di contestazione disciplinare comunicata al L. descrive analiticamente i comportamenti addebitati al lavoratore, la disamina della censura appare ultronea, avendo, la Corte territoriale, fondato la pronuncia di illegittimità del licenziamento su una pluralità di ragioni, ossia non solo sulla genericità della lettera di contestazione ma anche sulla mancata ricorrenza di una giusta causa di recesso.
4. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarre.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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