CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 luglio 2021, n. 21799
Regolarizzazione contributiva del personale occupato con contratto di lavoro a progetto – Verbale di accertamento – Mancato assoggettamento a contribuzione – Pretesa contributiva – Prescrizione
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 23.4.2018, la Corte d’appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato prescritti i crediti di cui al verbale di accertamento con cui l’INPS aveva diffidato C.S.T.I. s.r.l. e C.S. s.r.l. alla regolarizzazione contributiva del personale occupato con contratto di lavoro a progetto, in relazione al mancato assoggettamento a contribuzione di talune indennità ad esso corrisposte.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, non potendosi riconoscere valore interruttivo della prescrizione alla memoria di costituzione dell’INPS in primo grado, siccome contenente soltanto la richiesta di rigettare l’azione di accertamento negativo dell’obbligo contributivo proposta dalle due imprese con il ricorso introduttivo del giudizio, la pretesa contributiva, in mancanza di ulteriori atti interruttivi, doveva reputarsi non dovuta per sopravvenuta prescrizione. Avverso tali statuizioni ha ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un motivo di censura. C.S.T.I. s.r.l. e C.S. s.r.l. hanno resistito con controricorso. La causa è stata rimessa alla pubblica udienza con ordinanza n. 21154 del 2020 della Sesta sezione civile di questa Corte.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2935, 2943 e 2945 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che le sue memorie di costituzione in primo grado non potessero avere valore interruttivo della prescrizione, dal momento che contenevano soltanto la richiesta di rigettare gli avversi ricorsi volti all’accertamento negativo del debito per contributi e non anche una pretesa o intimazione scritta di adempimento idonea a manifestare l’inequivocabile volontà di far valere il proprio diritto nei confronti delle odierne controricorrenti, con l’effetto sostanziale di costituirle in mora.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
Ricordato preliminarmente che, a norma dell’art. 2943, comma 2°, c.c., la prescrizione «è pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio» e che, secondo quanto previsto dal successivo art. 2945, comma 2°, c.c., ove l’interruzione sia avvenuta «mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’art. 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio», giova premettere che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità è ferma nel ritenere che un atto, per avere efficacia interruttiva della prescrizione, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, le quali, benché non richiedano l’uso di formule solenni, debbono essere idonee a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti dell’obbligato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (così, tra le più recenti, Cass. nn. 24656 del 2010, 17123 del 2015, 15174 del 2018, 18146 del 2020).
Del pari consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, è il principio secondo cui la valutazione dell’idoneità di un atto ad interrompere la prescrizione costituisce apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti dI cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (in tal senso, tra le numerose, Cass. nn. 9016 del 2002, 23821 del 2010, 4605 del 2015, 29609 del 2018). Sulla scorta di tali premesse, questa Corte ha, nel tempo, elaborato significativamente la nozione di “domanda proposta nel corso del giudizio”, di cui all’art. 2943, comma 2°, c.c.: benché letteralmente il testo normativo rimandi agli artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c., e dunque all’iniziativa processuale assunta dalla parte che è titolare dal lato attivo della situazione soggettiva dedotta in giudizio, è stata infatti progressivamente attribuita analoga efficacia interruttiva permanente a fattispecie connotate piuttosto dall’attività processuale di resistenza che il creditore abbia compiuto nel giudizio intentatogli dal debitore: così nel giudizio di opposizione a precetto (Cass. n. 7737 del 2007 e 19738 del 2014), nel giudizio di revocazione (Cass. n. 13438 del 2013), nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione (Cass. nn. 5369 del 2019, 1550 del 2018), con riguardo ai quali è stato espressamente affermato che l’effetto interruttivo permanente di cui al combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c. è da riportare anche alla circostanza che il convenuto creditore si sia costituito chiedendo il rigetto dell’azione promossa nei suoi confronti dal debitore. Naturalmente, si tratta di un principio che va combinato con l’altro, dianzi parimenti ricordato, secondo cui l’attribuzione di valenza interruttiva della prescrizione ad un determinato atto, anche processuale, è attività specificamente demandata al giudice di merito (così, in specie, Cass. n. 29609 del 2018, cit.): solo l’esame del contenuto dell’atto può infatti rivelare se in esso siano davvero contenuti quella chiara indicazione del soggetto obbligato e quell’esplicitazione della pretesa che possono testimoniare dell’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti dell’obbligato (ciò che, ad es., non potrebbe dirsi allorché la richiesta di rigetto dell’altrui azione avesse a fondamento fatti estranei all’obbligazione di cui è stato promosso l’accertamento giudiziale, come la domanda di accertamento di un altro credito oppure di un fatto di natura esclusivamente processuale volto a paralizzare l’azione altrui). Ma una volta che quell’esame abbia avuto esito positivo, vale il principio generale di cui le fattispecie dianzi esaminate costituiscono particolare applicazione, ossia che anche la mera richiesta di rigetto proposta in giudizio dal creditore rispetto ad un’azione di accertamento negativo introdotta dal presunto debitore ha effetto interruttivo della prescrizione ex art. 2943, comma 2°, c.c., con gli effetti permanenti di cui al successivo art. 2945, comma 2°, c.c. (così Cass. n. 5369 del 2019, cit., in motivazione).
È alla stregua di tali premesse che vanno riconsiderate le affermazioni di Cass. n. 12058 del 2014 (e della successiva Cass. n. 9589 del 2018), sulla scorta delle quali la sentenza impugnata è pervenuta a dichiarare la prescrizione dei crediti per cui è causa. Se, infatti, non può che convenirsi con la premessa secondo cui «l’art. 2943 nel prevedere l’efficacia interruttiva della prescrizione in relazione al compimento di atti giudiziali si riferisce soltanto ad atti tipici e specificamente enumerati» (così Cass. n. 12058 del 2014, cit., in motivazione), non può a priori concordarsi con l’ulteriore affermazione secondo cui «la richiesta di rigetto della domanda attrice (diretta all’accertamento negativo di un proprio debito), essendo volta funzionalmente ad esplicare un’attività difensiva di mera confutazione della domanda avversaria, non può svolgere efficacia interruttiva della prescrizione del diritto di credito vantato nei confronti del debitore […], non costituendo una chiara esplicitazione di una pretesa, vale a dire, un’inequivoca manifestazione della volontà, non solo di veder riconoscere ma anche di far valere il proprio diritto, e cioè un’intimazione o un’espressa richiesta formale di adempimento idonea, in quanto tale, a mettere in mora la parte debitrice» (ibid.): e ciò perché, così come chi agisce in mero accertamento negativo dell’altrui diritto intende contestare il vanto altrui circa l’esistenza di quel diritto, chi resiste ad un’azione siffatta, chiedendone la reiezione, esercita (rectius, può in concreto esercitare) un’azione di accertamento negativo dell’altrui negazione del proprio vanto, che è precisamente un’azione di accertamento (mero) affermativo della propria titolarità della situazione giuridica dedotta in giudizio, implicitamente contenuta nella richiesta di rigetto dell’altrui domanda. Parafrasando quanto sul punto ebbe a osservare antica e autorevole dottrina, si potrebbe dire che quest’azione di accertamento del convenuto può ben passare inosservata fintanto che l’attore insista nella sua domanda, ma basta pensare all’ipotesi che questi intenda abbandonare il giudizio o rinunciare agli atti perché subito essa si manifesti come diritto autonomo, come azione vera e propria, dal momento che all’estinzione del giudizio non può che pervenirsi sulla scorta dell’accettazione di chi, in quel giudizio, è stato chiamato a contraddire e si è costituito (art. 306, comma 1°, c.p.c.). E, pur essendo vero che tali rilievi vanno pur sempre coordinati con il principio della domanda (art. 99 c.p.c.), di talché il rigetto della domanda di accertamento negativo ben potrà implicare accertamento positivo del credito, ma – in assenza di apposita domanda riconvenzionale – giammai condanna dell’attore al pagamento del dovuto, non è meno vero che sono precisamente tali rilievi ad aver indotto la costante giurisprudenza di questa Corte ad escludere che, nei giudizi di opposizione all’esecuzione esattoriale, la ritenuta illegittimità del procedimento d’iscrizione a ruolo non esime il giudice dall’accertamento, nel merito, della fondatezza dell’obbligo di pagamento dei contributi e/o premi richiesti dagli enti previdenziali (così, tra le più recenti, Cass. nn. 12025 del 2019, 1558 del 2020): l’opposizione all’esecuzione, infatti, altro non è che un tipo di azione di accertamento negativo del credito (così, fra le tante, Cass. n. 12239 del 2007) e la sua idoneità a dar luogo ad un giudizio ordinario di cognizione sui diritti ed obblighi inerenti al rapporto previdenziale obbligatorio in tanto può prescindere dalla proposizione di una specifica domanda da parte dell’ente previdenziale (così come ritenuto da ult. da Cass. n. 1558 del 2020, cit.) in quanto si ammetta che tale “domanda” è implicitamente contenuta nella richiesta di rigetto dell’altrui azione di accertamento negativo: l’analogia con il processo per opposizione a decreto ingiuntivo, che pure spesso è richiamata a supporto dell’anzidetta conclusione, è più apparente che reale, dal momento che in quel caso c’è pur sempre la domanda monitoria a giustificare il principio secondo cui giudice dell’opposizione non può limitarsi ad accertare e dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo emesso in assenza delle condizioni di legge, ma deve pur sempre pronunciarsi sul fondamento della pretesa creditoria azionata (così Cass. n. 579 del 1967 e innumerevoli successive conformi), mentre nel caso dell’opposizione a cartella esattoriale, così come in quello dell’opposizione a ordinanza ingiunzione o, più in generale, a precetto, non vi è di norma alcun atto processuale che possa assurgere al rango di “domanda” (di accertamento) che non sia costituito dalla richiesta del convenuto creditore di rigettare l’opposizione proposta dal debitore.
Del resto, che il resistere all’altrui azione di accertamento negativo possa implicare una domanda di accertamento positivo del proprio diritto è quanto aveva già ammesso Cass. n. 4660 del 1976 per negare che l’esplicitazione di quest’ultima in grado d’appello costituisse domanda nuova, trattandosi viceversa di un’istanza diretta ad ottenere semplicemente un accertamento di contenuto contrario a quello già invocato dall’attore e dunque già virtualmente compreso nel thema decidendi; e pare al Collegio che, diversamente da quanto ritenuto da Cass. nn. 12058 del 2014 e 9589 del 2018, tale principio sia l’unico a poter conferire un concreto significato all’attività processuale di resistenza all’altrui azione di accertamento negativo del proprio diritto (e, prima ancora, alla stessa ammissibilità di un’azione di accertamento negativo dell’altrui diritto), che altrimenti si rivelerebbe affatto priva di utilità pratica.
Dovendo dunque affermarsi che la richiesta del convenuto di mero rigetto dell’altrui domanda di accertamento negativo di un debito può costituire domanda idonea a svolgere efficacia interruttiva della prescrizione del diritto vantato nei confronti del debitore, ex art. 2943 comma 2° c.c., in quanto, in concreto, sia volta a ribadire le ragioni del proprio credito e a chiederne giudizialmente l’accertamento, con i consequenziali effetti permanenti di cui all’art. 2945 comma 2° c.c., giova rilevare, nel caso di specie, che la Corte di merito, lungi dall’esaminare il complessivo contenuto delle memorie depositate dall’INPS in data 14.8.2012, al fine di comprendere se la richiesta di reiezione dei ricorsi delle odierne controricorrenti trovasse fondamento in un’affermazione positiva delle sue ragioni creditorie o in fatti e circostanze ad esse estranee, ha erroneamente attribuito rilievo decisivo al fatto che l’INPS non avesse esplicitato alcuna «pretesa o richiesta di adempimento» e si fosse limitato «a formulare conclusioni dirette alla reiezione dei ricorsi e all’assoluzione d[a]lle pretese delle società» (così la sentenza impugnata, pag. 11). E risultandone violati, per le anzidette ragioni, gli artt. 2943, comma 2°, e 2945, comma 2°, c.c., la sentenza va cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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