CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 luglio 2019, n. 20721
Licenziamento disciplinare – Reati di turbativa d’asta e corruzione – Violazione del principio di terzietà o del diritto di difesa – Invalidità del procedimento sanzionatorio
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di L’Aquila ha rigettato il gravame proposto da S. T., già istruttore del settore lavori pubblici preso il Comune di Montesilvano, avverso la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato nei confronti del predetto a seguito della sentenza penale di patteggiamento per i reati di turbativa d’asta e corruzione pronunciata sempre dal Tribunale di Pescara, in sede penale.
La Corte d’Appello, per quanto qui ancora interessa, riteneva infondata una prima censura mossa dal ricorrente rispetto alla composizione dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (U.P.D.), in quanto la nomina quale componente del vicesegretario generale, era stata determinata dal fatto che la figura del segretario generale e del dirigente del personale, che a norma di regolamento dovevano comporre l’Ufficio, erano concentrate nella medesima persona del segretario generale e quindi si era reso necessario ricorrere alla disciplina delle sostituzioni stabilita dallo stesso Regolamento di Disciplina del Comune.
La Corte riteneva infondata anche la censura con cui il T. lamentava che l’atto di riattivazione del procedimento disciplinare, precedentemente sospeso in attesa degli esiti penali, fosse stato sottoscritto dall’avv. M. De M. in qualità di vicesegretario generale e dunque senza spendita da parte di quest’ultima della propria veste di Presidente facente-funzioni dell’U.P.D., stante l’assenza dal servizio in quel giorno del Segretario Generale e presidente dell’U.P.D. La Corte, sul presupposto che non fosse in contestazione la legittimazione dell’avv. De M. a sottoscrivere quell’atto, ma solo il fatto che ciò fosse stato fatto senza spendere, da parte della firmataria, la posizione da essa rivestita nell’ambito dell’U.P.D. in quel frangente affermava che la doglianza era priva di fondamento, in quanto non era stata denunciata con essa alcuna compromissione della posizione di terzietà dell’organo disciplinare o del diritto di difesa.
Ancora la Corte d’Appello riteneva che non fosse da accogliere la contestazione mossa dal T. per il fatto che il Segretario Generale era stato ad un certo punto sostituito, quale membro dell’U.P.D., per essere sopravvenuta la sua nomina a Responsabile comunale della prevenzione della corruzione, in quanto tale situazione era stata indicata in generale come possibile fonte di conflitti di interesse dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri e con parere A.N.A.C.; dunque la scelta del Comune era da ritenersi fondata su sussistenti ragioni di opportunità, non rilevando, come sosteneva il ricorrente, il fatto che l’addebito disciplinare fosse precedente alla nomina predetta.
Sempre sotto il medesimo profilo il giudice di secondo grado sosteneva che non poteva dirsi fondata la censura relativa alla sostituzione, all’interno dell’U.P.D., del Dirigente del settore cui era addetto il dipendente, per il determinarsi di ragioni d: incompatibilità o opportunità riconnesse al fatto che il medesimo era stato oggetto di dichiarazioni dello stesso lavoratore, ritenute dal predetto dirigente non veritiere, ma comunque tali da coinvolgerlo potenzialmente nel procedimento penale. La Corte riteneva che l’ipotesi, integrando il caso di gravi ragioni di convenienza, potesse essere riportata a quella, richiamata dal Regolamento di Disciplina, di cui agli obblighi di astensione del giudice nel processo civile.
In via generale, rispondendo ad ulteriore argomentazione del ricorrente, la Corte sottolineava come nell’ordinamento non esistesse un principio di immutabilità del giudice disciplinare e che peraltro non era stato neppure allegato che le sostituzioni dei membri dell’U.P.D. verificatesi avessero comportato il venir meno della terzietà dell’organo disciplinare o avessero leso in qualche modo i diritti di difesa.
La Corte territoriale rigettava inoltre il secondo motivo di appello, ritenendo di aderire all’orientamento secondo cui la sentenza di patteggiamento avrebbe avuto valore di giudicato sull’accertamento del fatto, la sua illiceità penale e sull’avvenuta commissione da parte dell’imputato, nonché all’ulteriore orientamento per cui, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, la contrattazione collettiva poteva essere intesa come tale da riguardare anche la sentenza di patteggiamento.
In ogni caso, aggiungeva la Corte, il valore indiziario che comunque andava semmai attribuito a tale sentenza non risultava nel caso di specie superato dalle inconsistenf1 allegazioni e prove dedotte dal lavoratore.
La sentenza è stata impugnata dal T. sulla base di sei motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del Comune.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo adduce, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 55-bis, co. 4, d. Igs. 165/2001, in relazione all’art. 3 del Regolamento di disciplina del Comune di Montesilvano, sostenendo che quest’ultima norma consentisse il subentro, all’interno dell’U.P.D., del vicesegretario comunale, al Segretario Generale o al Dirigente del personale (che lo componevano insieme al Dirigente del settore in cui operava l’incolpato), mentre nel caso di specie l’incarico al vicesegretario era stato motivato dal fatto che Segretario Generale e Dirigente del Personale erano la stessa persona, ipotesi non prevista dal Regolamento e per ovviare alla quale sarebbe stato necessario un apposito atto deliberativo.
Con il secondo motivo è affermata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 55-bis, co. 4, d. Igs. 165/2001, sottolineandosi come il vicesegretario generale, nell’emettere l’atto di rinnovazione della contestazione disciplinare in esito al processo penale, pur operando nel frangente come Presidente facente funzioni dell’U.P.D., non avesse speso tale veste, ma soltanto il titolo appunto di vicesegretario, il che non avrebbe consentito di ricondurre l’atto all’esercizio della funzione disciplinare, in violazione del diritto del dipendente ad essere sottoposto a procedimento disciplinare da parte dell’organo – l’U.P.D. – cui la legge attribuisce la relativa inderogabile competenza.
Anche il terzo motivo adduce la violazione dell’art. 55-bis, co. 4, cit., sostenendo che la sostituzione del Segretario Generale, quale Presidente dell’U.P.D., con altro componente, per avere il Segretario Generale assunto le funzioni di Responsabile della prevenzione della corruzione, fosse ingiustificata, in quanto il conflitto di interessi che si voleva evitare avrebbe potuto riguardare solo le ipotesi in cui per lo stesso fatto il Responsabile della prevenzione corruzione avesse dapprima valutato un certo fatto in funzione preventiva e poi fosse stato chiamato a giudicarlo in sede di disciplinare, il che non poteva essere nel caso di specie, perché l’incarico nella prevenzione era stato assunto successivamente all’illecito disciplinare perseguito.
Un’ulteriore ragione di violazione, denunciata sempre ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 55-bis, co. 4, cit., è individuata dal ricorrente nel fatto che fosse stata ritenuta legittima la sostituzione, nell’U.P.D., del Dirigente del settore cui era preposto il ricorrente con Dirigente di altro settore, disposta a fronte dell’istanza di astensione del primo per esservi state dichiarazioni del T., pur ritenute non veritiere, che sarebbero state tali da coinvolgere il predetto nel procedimento penale. Il ricorrente sosteneva che il richiamo della Corte territoriale alle norme del Regolamento di Disciplina le quali, per le cause di astensione obbligatoria, rinviavano alle norme del vigente c.p.c., era errato. Infatti il Regolamento di disciplina faceva riferimento ai casi che determinavano l’obbligo e non già la facoltà di astensione, tra cui, secondo il disposto dell’art. 51 c.p.c., non rientrava l’ipotesi delle “gravi ragioni di convenienza”, alla quale aveva fatto riferimento la Corte territoriale.
Infine il quinto motivo era riferito ancora alla violazione dell’art. 55-bis cit., per avere la Corte aquilana ritenuto che, in linea generale, non sussistesse comunque un principio di immutabilità del giudice disciplinare e che comunque non vi era stata alcuna allegazione da parte dell’appellante in ordine al venir meno della terzietà dell’organo disciplinare o una qualche lesione dei diritti di difesa. Il ricorrente richiamava in proposito il primo comma della disposizione citata, che, a suo dire, qualificando come imperative le norme del medesimo articolo e quelle seguenti fino all’art. 55-octies, era da considerarsi come tale da prevedere una vera e propria nullità testuale che non permetteva alcuna valutazione in concreto della compromissione del diritto di difesa.
2. I predetti motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati.
3. La Corte territoriale, rispetto alle questioni sollevate con il primo, terzo e quarto motivo ed attinenti tutte a sostituzioni di membri dell’U.P.D., oltre a ritenere che le singole censure mosse all’operato della P.A. fossero infondate ha, con la motivazione interessata dal quinto motivo, ritenuto che comunque mancassero ragioni che comportassero il venir meno della necessaria terzietà dell’U.P.D. o lesioni dei diritto di difesa, sicché, anche in relazione all’insussistenza di un principio di immutabilità del giudice disciplinare, le censure erano da disattendere, anche ove valutate nel loro insieme.
3.1 Quella appena espressa costituisce ratio decidendi dei tutto autonoma, idonea in sé a sorreggere la decisione per quanto attiene alle questioni relativa alla composizione nel tempo dell’U.P.D. e del tutto fondata.
3.2 Questa Corte ha già evidenziato, attraverso considerazioni qui condivise, come l’art. 55, primo comma, d.lgs. n. 165 del 2001, nel prevedere che le disposizioni contemplate dal medesimo articolo e da quelli seguenti, fino all’art. 55-octies, «costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, secondo comma, c.c.», ha avuto l’effetto «di non consentire l’ulteriore applicazione delle previsioni contrattuali difformi, ossia quelle che dettano regole diverse da quelle ricavabili in via diretta dalle previsioni legali». Al contempo si è precisato che «dal combinato disposto del primo comma dell’art. 55 e del quarto comma dell’art. 55-bis si desume il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, ma è rimessa a ciascuna Pubblica Amministrazione, secondo le proprie peculiarità, l’individuazione dell’organo legittimato ad esercitare il potere disciplinare», sicché «il carattere imperativo riguarda, dunque, la non derogabilità della disciplina legale ad opera dell’autonomia negoziale (come è noto uno degli obiettivi della riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009 è la riaffermazione della centralità della Legge in materia disciplinare)», il che «certo non attribuisce natura imperativa “riflessa” al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.P.D.» (Cass. 25 ottobre 2017 n. 25379 e, poi Cass. 6 febbraio 2019, n. 3467).
Anche perché «l’interpretazione dell’art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici» (Cass. 3467/2019, cit.), laddove ai fini della legittimità della sanzione rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, il che «postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente» (Cass. 2 marzo 2017 n. 5317).
3.3 Tali principi escludono in radice che possano avere rilievo alcuno le modalità con cui il Comune ha sopperito al coincidere nella stessa persona di due dei componenti dell’U.P.D. a termini di regolamento (primo motivo) o il fatto che sia stato ritenuto un conflitto di interessi, asserito nel ricorso per cassazione come inesistente, al fine di procedere alla sostituzione di un membro dell’U.P.D. (terzo motivo) o infine (quarto motivo) che sia stata accolta per ragioni in ipotesi insufficienti a giustificarla, l’istanza di astensione di un altro membro sempre dell’U.P.D.
Quello che conta è che sia stata assicurata la terzietà dell’U.P.D., rispetto alla quale lo scrupolo serbato nel procedere a sostituzioni anche solo sul sospetto di possibili conflitti di interesse è semmai garanzia ulteriore per l’incolpato, e che non vi siano state concrete violazioni del diritto di difesa, profili entrambi sui quali, come rilevato espressamente dalla Corte territoriale, in realtà non vi è questione.
3.4 Va dunque ribadito il seguente principio, integrato alla luce dei profili emersi nel caso di specie: «Il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dall’art. 55 co. 1 e 55-bis co. 4 (ora co. 2) d. Igs. 165/2001 va riferito al principio di terzietà ivi espresso e postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.P.D.
Pertanto, qualora non sia dimostrata la violazione del predetto principio di terzietà o del diritto di difesa, non sono comunque ragione di nullità della sanzione le modalità attraverso cui, nel corso del procedimento disciplinare, si sia proceduto a sostituzione di taluno dei componenti dell’ufficio stesso».
4. Analogamente infondato è il secondo motivo.
4.1 Come detto, con esso il ricorrente, sostiene che sarebbe causa di invalidità del procedimento sanzionatorio, e quindi del licenziamento infine irrogato, il fatto che la riattivazione di esso all’esito del processo penale, mediante rinnovazione della contestazione, fosse stata sottoscritta dall’avv. De M. con la dizione “Vice Segretario Generale”, sicché, per quanto non fosse in contestazione la legittimazione del predetto a procedere in tal senso quale Presidente facente funzioni, l’atto non sarebbe riferibile all’U.P.D,
4.2 Si deve premettere intanto che, in relazione all’attività degli organi collegiali, la formazione della volontà resta distinta dalla manifestazione di essa, sicché mentre la prima si deve formare all’interno dell’organo secondo le regole che ne presiedono il funzionamento, all’esterno l’organo agisce in persona del soggetto che lo rappresenta e dunque gli atti ben possono essere sottoscritti solo da quest’ultimo (Cass. 6 febbraio 2019, n. 3467).
4.3 Ciò posto, una volta certa la legittimazione a tale manifestazione di volontà esterna in capo a chi ha sottoscritto l’atto, è del tutto irrilevante che la qualità del medesimo sia stata indicata in riferimento alla veste ricoperta all’interno dell’ente e non rispetto all’U.P.D., anche perché non vi è questione alcuna rispetto al fatto che si trattasse di atto disciplinare, la cui pertinenza all’U.P.D. va presunta, né può essere smentita dalla sola vicenda attinente alle sole indicazioni formali riguardanti la qualifica del firmatario.
5. Con l’ultimo motivo di ricorso, destinato dal ricorrente a profili diversi da quelli finora esaminati, è affermata (art. 360 n. 3 c.p.c.) la violazione e falsa applicazione dell’art. 445, co. 1 -bis, c.p.c., in relazione agli artt. 5 L. 604/1966 e 3 C.C.N.L. del personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali, nonché dell’art. 1362 c.c..
La Corte distrettuale ha ritenuto, sulla base di un più recente orientamento giurisprudenziale da essa richiamato, che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti avesse efficacia di giudicato, nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alla pubblica autorità, quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale ed alla affermazione che l’imputato lo ha commesso, ritenendo altresì che l’art. 3 del C.C.N.L. di settore, secondo cui era causa di licenziamento la condanna passata in giudicato per gravi delitti commessi in servizio, andasse inteso nel senso che per sentenza di condanna, per comune sentire, dovessero intendersi anche le sentenze di patteggiamento.
Il ricorrente, oltre a contestare la tesi in ordine alla summenzionata efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento, sottolinea come l’affermazione di un rilievo indiziario della pronuncia, con relevatio ab onere probandi della P.A., si ponesse in frontale contrasto con la disciplina della confessione, per l’impossibilità di ravvisare, nel consenso all’applicazione della pena su richiesta delle parti, un animus confitendi.
Apodittica, oltre che meramente possibilistica e come tale inidonea dal punto di vista interpretativo, era poi, secondo il T., l’affermazione della Corte aquilana in ordine al fatto che la sentenza di patteggiamento fosse per “comune sentire” da associare ad una sentenza di condanna e che dunque in tal senso dovesse ad essa estendersi la norma del C.C.N.L. che prevedeva, appunto a fronte di una sentenza di condanna, il licenziamento: dovendosi viceversa procedere ad un’interpretazione della norma nel contesto contrattuale e della volontà quale obiettivata nel testo collettivo.
Meramente di stile – proseguiva il motivo – era infine da considerare la motivazione con cui la Corte affermava che le prove testimoniali e le allegazioni del ricorrente sarebbero state del tutto inidonee a scalfire il quadro indiziario emergente dagli atti del procedimento penale, finendosi così per onerare indebitamente il lavoratore della prova dell’insussistenza della giusta causa.
5.1 La Corte territoriale ha sviluppato, sul punto della responsabilità del ricorrente, una duplice motivazione, di cui la prima incentrata sul valore di giudicato da attribuire alla sentenza di c.d. patteggiamento e la seconda attribuendo alla pronuncia penale valore indiziario, ritenuto non superato dalle contrari allegazioni del lavoratore.
5.2 La questione sul giudicato è in realtà decisiva ed assorbente.
L’assetto normativo è del tutto chiaro nello stabilire che, rispetto ai giudizi disciplinari presso le pubbliche autorità, la sentenza penale di condanna abbia efficacia di giudicato «quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso» (art. 653, co. 1-bis, c.p.p.).
Il riferimento generico della norma ad una «sentenza di condanna» ed il fatto che l’art. 445, co. 1-bis, c.p.p. stabilisca che «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna», rende testualmente ineludibile il riconoscimento del predetto effetto di giudicato.
A fronte di tale chiaro orientamento normativo non vi è ragione di trasporre, sul piano disciplinare, distinguo e varianti fondate sulle caratteristiche intrinseche della sentenza di c.d. patteggiamento che sono proprie dell’ambito penale inteso in senso stretto.
Infatti, nulla esclude che, a fini diversi da quelli penali in senso stretto, sia dato rilievo di giudicato all’applicazione della pena su richiesta.
Va quindi ribadito il principio già espresso da Cass., S.U., 31 ottobre 2012, n. 18701 e poi confermato da Cass. 20 luglio 2016, n. 14949 e Cass. 2 marzo 2017, n. 5313.
5.3 Quanto alla proporzionalità della sanzione espulsiva, la Corte territoriale ha ritenuto di desumerla dalla norma del C.C.N.L. che appunto la prevede rispetto ai casi di «sentenza passata in giudicato (…) per gravi delitti commessi in servizio».
La Corte ha fatto in proposito riferimento alla pregressa giurisprudenza di questa Corte secondo cui nell’interpretare il riferimento della contrattazione alla sentenza di condanna penale, si poteva ritenere che le parti collettive si fossero ispirate al comune sentire che a questa associa la sentenza di patteggiamento.
In realtà, va detto che, stante il disposto attuale dell’art. 445, co. 1 -bis, ultima parte, secondo cui «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna», qualora, come nel caso di specie, la contrattazione collettiva successiva all’introduzione del co. 1 -bis cit. rinvii alla sentenza di condanna penale, deve presumersi che essa comprenda in tale dizione anche l’ipotesi dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, non potendosi ipotizzare che la contrattazione collettiva, di regola e salvo espresse affermazioni contrarie, utilizzi la terminologia giuridica secondo significati diversi da quelli che secondo legge le sono propri.
Ciò, consolidando in punto di diritto il ragionamento già svolto dalla Corte territoriale, supera ogni questione sollecitata con il ricorso per cassazione, nel quale non risulta indicata, se non sulla base di una lettura diametralmente opposta a quella fornita dalla Corte territoriale rispetto al “comune sentire”, una qualche ragione idonea ad inficiare non solo la diversa e non implausibile valutazione sul punto da parte del giudice del merito, ma anche il sostegno giuridico che essa trova nella regola interpretativa sopra delineata.
5.4 Da quanto sopra risulta assorbito ogni altro aspetto sollecitato con il motivo in esame.
5.5 Va dunque ribadito e stabilito che «a norma degli artt. 445 e 653 cod. proc. pen., come modificati dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato – nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano i dipendenti della P.A. – quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso» ed altresì che «allorquando la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi fatti, di sentenza di condanna penale, quest’ultima, in ragione del disposto dell’art. 653 c.p.p., come modificato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p.».
6. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore delle controparti delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13.
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