Corte di Cassazione, sentenza n. 11029 depositata il 26 aprile 2023
rimessione in termini
FATTI DI CAUSA
1. La Commissione tributaria provinciale di Milano, con la sentenza 5433/2018, aveva dichiarato inammissibile, perché tardivo, il ricorso proposto dalla società L. Soc. Coop. per azioni, in data 19 marzo 2018, avverso l’atto di contestazione, emesso ai sensi dell’art. 1, comma 421, della legge n. 311/2004, notificato in data 12 ottobre 2017. La ricorrente aveva richiesto una remissione dei termini, adducendo la responsabilità della tardiva proposizione del ricorso al dott. N., consulente del contribuente.
2. La Commissione tributaria regionale, adita dalla società contribuente, ha rigettato l’appello affermando che:
-) la tardività del ricorso era del tutto evidente ed era stata ammessa dalla stessa parte;
-) la sentenza aveva ben motivato il fatto che non sussistevano motivi per la rimessione dei termini e, ritenendo assorbente la pregiudiziale dell’Ufficio, aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso;
-) la parte avrebbe dovuto eventualmente rivalersi nei confronti del professionista, per gli eventuali danni derivanti dal suo operato;
-) peraltro, dalla documentazione agli atti, i Giudici di primo grado avevano evidenziato che non vi era piena prova delle eventuali responsabilità del professionista.
3. La società L. Coop. per azioni ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi.
4. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
5. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1176, 1374 e 2697 civ., in relazione agli artt. 153 cod. proc. civ. e 1 del decreto legislativo n. 546 del 1992. La decisione della Commissione tributaria regionale era viziata nella misura in cui i Giudici nell’escludere la rimessione in termini non avevano considerato che i presupposti per la concessione dell’istituto in parola dovevano essere accertati alla stregua delle norme dell’ordinamento che disciplinavano il generale dovere di diligenza; non si poteva non osservare come, nel momento in cui la contribuente aveva ricevuto l’atto di recupero aveva quale unico «onere» quello di attivarsi prontamente nella ricerca del professionista cui affidare l’incarico di rappresentarla nella difesa delle proprie ragioni. La società contribuente aveva scelto di affidare l’incarico della cura dei propri interessi ad un dottore commercialista, il Dott. N., che appariva la migliore soluzione per tutelare le ragioni della contribuente. Il dovere di diligenza che si richiedeva alla L. si era concretizzato nell’attivarsi prontamente per la ricerca del soggetto che al meglio avrebbe potuto rappresentare e garantire i diritti di difesa della contribuente. La L., infatti, non era dotata delle conoscenze tecniche e professionali necessarie per la difesa, sia in fase stragiudiziale che in una fase giudiziale, della propria posizione fiscale. Né poteva ritenersi, come peraltro affermato dai giudici di primo grado, che la società contribuente avrebbe potuto avvedersi dello spirare dei termini di legge per la proposizione del ricorso indicati nell’atto di recupero, dato che, in mancanza di doverosa comunicazione da parte del professionista, la L. non poteva sapere che la presentazione dell’istanza di autotutela non determinava la sospensione dei termini per l’impugnazione giudiziale. I giudici della Commissione tributaria regionale, nel ponderare l’idoneità probatoria dei fatti allegati dalla L. a riprova della mancanza di una propria negligenza, avrebbero dovuto considerare che questa, ricoprendo la posizione di «mera» cliente e priva delle conoscenze tecniche necessarie ad avvedersi dello spirare dei termini di impugnazione, aveva fornito la prova della propria diligenza deducendo di avere chiesto consulenza al Dott. N. e dando a questo il mandato per la tutela della propria posizione instaurando un contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria. La stessa, inoltre, aveva prodotto copia della mail con cui il cennato professionista, pur essendo decorsi i termini per la proposizione del ricorso, assicurava alla parte la possibilità di impugnare in via giurisdizionale l’atto di recupero.
2. Con il secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 153 cod. proc. civ. e 1 del decreto legislativo n. 546 del 1992, in relazione agli artt. 1176, 1374 e 2697 cod. civ.. La società ricorrente censurava la pronuncia anche denunciandone la nullità, in quanto la violazione di norme processuali dava luogo a vizio di attività e a nullità del processo e della sentenza (error in procedendo). Nel caso di specie, la responsabilità del commercialista, il Dott. N., emergeva ictu oculi dalla circostanza che questi, a differenza della L., era dotato delle conoscenze tecniche e professionali all’uopo necessarie per avvedersi della decorrenza dei termini per l’impugnazione dell’atto di recupero e, in ragione del mandato che lo stesso aveva ricevuto dalla società, questi era tenuto a tutelare l’odierna esponente evitando che l’atto impositivo divenisse definitivo. Con comunicazione del 12 dicembre 2012, il Dott. N. aveva prospettato alla contribuente la possibilità di proporre impugnazione giudiziale avverso l’atto di recupero ancorché erano già decorsi i termini per la proposizione dell’azione. Detta circostanza, dedotta dalla parte nel giudizio precedente dimostrava come, nel caso di specie, si fosse verificata un’ipotesi di mancata diligenza da parte del commercialista ai sensi dell’art. 1176 cod. civ., diligenza che, in ipotesi di attività professionale, imponeva di agire come un buon professionista e non come uno «mediocre».
2.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
2.2 Deve premettersi che, a norma dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 546 del 1992, che recita che «i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile», anche il processo tributario è regolato, in tema di rimessione in termini, dall’art. 153, comma 2, cod. proc. civ. (l’art. 184 bis cod. proc. civ. è stato abrogato dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009), che prevede che «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per cause ad essa non imputabili può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini». A sua volta, l’art. 294, comma 2, cod. proc. civ. prevede che «Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell’impedimento, e quindi provvede sulla rimessione in termini delle parti».
Questa Corte, anche di recente, ha affermato l’applicabilità dell’istituto della rimessione nei termini pure nel processo tributario (Cass. Sez. U., 6 settembre 2022, n. 26283, in motivazione; Cass., 5 gennaio 2022, n. 268; Cass., 17 giugno 2021, n. 17237).
E’ stato, inoltre, specificato che, in tema di contenzioso tributario, l’istituto della rimessione in termini, opera sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali «interni» al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l’impugnazione dei provvedimenti sostanziali (Cass., 1 ottobre 2018, n. 23793; Cass., 1 marzo 2019, n. 6102) e che la rimessione in termini presuppone che la parte incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile si attivi con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della durata ragionevole del processo (Cass., 11 novembre 2020, n. 25289; Cass., 5 agosto 2021, n. 22342; Cass., 13 ottobre 2022, n. 29919).
Ancor più specificamente le Sezioni Unite di questa Corte, in tema, hanno affermato che l’istituto della rimessione in termini presuppone la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza, e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione (Cass., Sez. U., 4 dicembre 2020, n. 2773; Cass., 6 febbraio 2019, n. 3482; Cass., 23 novembre 2018, n. 30512; Cass., 4 aprile 2013, n. 8216).
Con particolare riferimento alla questione in esame, questa Corte ha, pure, affermato che la rimessione in termini, che richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà, non può essere riferita ad un evento esterno al processo, impeditivo della costituzione della parte, quale la circostanza dell’infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo, giacché attinente esclusivamente alla patologia del rapporto intercorrente tra la parte sostanziale e il professionista incaricato ai sensi dell’art. 83 cod. proc. civ., che può assumere rilevanza soltanto ai fini di un’azione di responsabilità promossa contro quest’ultimo, e non già, quindi, spiegare effetti restitutori al fine del compimento di attività precluse alla parte dichiarata contumace, o, addirittura, comportare la revoca, in grado d’appello, di tale dichiarazione (Cass., 7 luglio 2022, n. 21649; Cass., 10 febbraio 2021, n. 3340; Cass., 24 aprile 2019, n. 11229; Cass., 6 luglio 2018, n. 17729; Cass., 17 novembre 2016, n. 23430; Cass., 28 settembre 2011, n. 19836). Inoltre, non sono state ravvisate le condizioni per la rimessione in termini nella mancata comunicazione, ad opera del domiciliatario, dell’avvenuta notificazione del provvedimento, trattandosi di impedimento riconducibile esclusivamente alla patologia del rapporto intercorso con il professionista incaricato della domiciliazione (Cass., Sez. U., 4 dicembre 2020, n. 2773); nell’intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo (Cass., 9 novembre 2021, n. 32827); nella chiusura dell’ufficio postale nell’ultimo giorno utile per effettuare la notifica, a causa dello sciopero del personale (Cass., 5 gennaio 2022, n. 268).
2.3 Una parte della dottrina più autorevole ha, poi, individuato i presupposti che, ai fini della operatività dell’istituto della rimessione in termini, devono essere sottoposti al vaglio del giudice: 1) aver tenuto un comportamento processuale diligente; 2) l’effettiva formazione di un decadenza che precluda l’esercizio di un potere difensivo legittimamente conferito dalle norme processuali; l’attribuibilità di tale preclusione a una causa «non imputabile» alla stessa condotta della parte; l’inesistenza di altri mezzi processuali utili al superamento della preclusione sopravvenuta; e con specifico riferimento alla «non imputabilità della causa», nozione definita volutamente elastica e comprensiva di fattispecie eterogenee, ha ricondotto la stessa sotto il comune denominatore della irriconducibilità dell’evento (cagionante la preclusione) ad una condotta colposa o, finanche, dolosa della parte che invoca la rimessione in termini, ritenendo, poi, in ultimo, che il concetto di «causa non imputabile», assorba il cosiddetto «caso fortuito» ed anche le «cause di forza maggiore», la prima caratterizzata da una particolare inevitabilità e comprensiva anche di fatti umani quali i provvedimenti delle autorità.
2.4 In conclusione, la rimessione in termini di cui all’art. 153, comma 2, cod. proc. civ., istituto certamente finalizzato all’attuazione ai principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo e, nel contempo, collegato al sistema delle preclusioni, mirando ad evitare le decadenze ad esse collegate ogni qualvolta queste si verifichino senza colpa della parte, richiede la verifica della ricorrenza di due elementi e, cioè, dell’esistenza di un fatto ostativo esterno alla volontà della parte, non governabile da quest’ultima e dell’immediatezza della reazione al palesarsi della necessità di svolgere un’attività processuale ormai preclusa; a fronte di ciò, sussiste l’esigenza, anche in ragione dei caratteri di celerità ed immediatezza, che contraddistinguono il processo tributario, che la «rimessione in termini» e specificamente la «scusabilità» dell’errore siano sottoposti a un vaglio particolarmente severo, da parte del giudice tributario di merito, non potendo assurgere al ruolo di espediente processuale per rimediare alla pura inosservanza di un termine di decadenza espressamente contemplato dalla legge.
2.5 Va precisato, in ultimo, che, l’apprezzamento circa la non imputabilità alla parte del fatto ostativo che ha preclude l’attività processuale, nel caso concreto, è accertamento affidato al giudice del merito, la cui decisione, se congruamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità (Cass., 7 dicembre 2022, 35959; Cass., 18 ottobre 2022, n. 30514).
2.6 Nella vicenda in esame, la Commissione tributaria regionale, laddove ha affermato, richiamando la sentenza di primo grado, che la stessa aveva ben motivato il fatto che non sussistevano motivi per la rimessione dei termini e che la parte avrebbe dovuto eventualmente rivalersi nei confronti del professionista, per gli eventuali danni derivanti dal suo operato, ha fatto buon governo dei principi suesposti, nella sostanza confermando, nella specie, la carenza del requisito della causalità, oltre che della assolutezza dell’impedimento. In tal guisa a nulla rileva, l’ulteriore profilo, pure precisato, della mancata prova delle eventuali responsabilità del professionista, in quanto la società ricorrente invoca una fattispecie che non consente di ritenere che la decadenza sia dipesa da causa ad essa non imputabile perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà; in particolare, non rilevano, al fine sperato, eventuali violazioni, commesse da parte del professionista al quale la stessa si era rivolta per la cura dei propri interessi e la violazione commessa dallo stesso professionista degli obblighi informativi caratteristici del rapporto di mandato, trattandosi di profili attinenti esclusivamente ad una patologia del rapporto di mandato e come tali destinati ad assumere rilevanza esclusivamente nei confini, come già precisato, di una eventuale azione di responsabilità da promuovere nei confronti del professionista ed esclusivamente in tale ambito; la società ricorrente, inoltre, laddove assume la propria diligenza e il soddisfacimento del relativo dovere, consistito nell’attivarsi prontamente per la ricerca del soggetto che al meglio avrebbe potuto rappresentare e garantire i diritti di difesa alla società, dimentica e svuota di effetti la consapevolezza della scelta del professionista incaricato, certamente riconducibili nell’alveo soggettivo della società contribuente ed esclusivamente ad essa riferibile; ed invero, il chiaro dettato normativo dell’art. 153, comma 2, cod. proc. civ., nel prevedere che il giudice rimetta in termini la parte nelle ipotesi di causa non imputabile, impone che il beneficio dell’errore scusabile sia riconosciuto solo in esito a un rigoroso accertamento dei presupposti che lo legittimano a fronte di obiettive incertezze normative o in presenza di gravi impedimenti di fatto, non imputabili alla parte; quanto alla pretesa violazione del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost., questa Corte, occupandosi dell’istituto della rimessione in termine, ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 297 del 2008, ritenendo estensibile il principio statuito sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 327, comma primo, cod. proc. civ., censurato, in riferimento all’art. 24 Cost. (nella parte in cui, prevedendo la decorrenza del termine annuale per l’impugnazione dalla pubblicazione della sentenza, anziché dalla sua comunicazione a cura della cancelleria, non garantiva alle parti il diritto di difesa costituzionalmente garantito, per non essere alle stesse assicurato il godimento per intero del termine per impugnare), e ha precisato che la norma censurata operava «un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa, ovvero l’ampiezza del termine annuale consente al soccombente di informarsi tempestivamente della decisione che lo riguarda, facendo uso della diligenza dovuta in rebus suis» (cfr. Cass. 4 aprile 2013, n. 8216, in motivazione).
3. In conclusione, il ricorso va rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 13.000,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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