Corte di Cassazione sentenza n. 17275 depositata il 27 giugno 2019
Società – Vendita di box auto – Dichiarazione nell’atto che i beni sono pertinenza di immobili a uso abitativo – Applicazione dell’Iva agevolata – Esclusione Obbligo di dichiarare che i box costituiscono pertinenza di appartamenti adibiti a prima casa – Necessità
Rilevato che:
1. P. Srl, con sede legale in Roma, esercente l’attività di vendita di parcheggi, impugnò innanzi alla CTP di quella città l’avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRES, IRAP e IVA, per l’anno d’imposta 2005, costi indeducibili, perché non documentati, e maggiore IVA dovuta (per euro 371.066,00), quale conseguenza dell’inesatta applicazione dell’aliquota IVA agevolata del 4%, anziché di quella ordinaria del 10%, sulla vendita di 41 box auto, in quanto i relativi contratti di trasferimento contenevano solo la dichiarazione del rapporto di pertinenza con un immobile abitativo, ma non quella che si trattava della “prima casa”;
la CTP, con sentenza n. 175/60/2011, accolse parzialmente il ricorso, riconoscendo legittima l’applicazione dell’IVA agevolata sul presupposto che i box auto fossero annessi ad abitazioni, e lo respinse con riferimento al recupero a tassazione dei costi in quanto la società non aveva fornito la prova di avere pagato le fatture 525, 526, 527, 528/2005;
2. contro tale sentenza hanno interposto appello sia l’Agenzia delle entrate, per quanto attiene all’IVA agevolata, che la contribuente, per quanto attiene ai costi indeducibili, e la CTR, con la sentenza in epigrafe, ha accolto l’appello (principale) dell’Agenzia e ha rigettato quello (incidentale) della contribuente, rilevando, dal primo punto di vista (gravame dell’Agenzia), che la società non aveva provato, ai fini dell’applicazione dell’IVA ridotta, che i box auto ceduti fossero pertinenza di “prima casa”; dal secondo punto di vista (gravame della contribuente), che il giudice di primo grado aveva correttamente disconosciuto la deducibilità dei costi, in difetto di prova dell’effettiva esecuzione dei lavori e del pagamento delle fatture, “al di là del documento cartaceo” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata);
3. la contribuente ricorre, con quattro motivi, per la cassazione di questa sentenza della CTR; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso; il Procuratore generale S.D.M. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso;
4. il ricorso è stato trattato all’odierna udienza camerale a seguito d’avviso notificato con invio telematico a mezzo PEC.
Considerato che:
1. con il primo motivo del ricorso, denunciando: «1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 132, c. 4 c.p.c., art. 36 D.Lgs. 546/92, art. 118 Disposizione attuazione c.p.c., artt. 6 e 7 L. 241/90, art. 109 D.P.R. 917/86, art. 6 D.P.R. 633/72, art. 9-11 L. 212/00, art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. Nullità della sentenza e difetto di motivazione su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti», la ricorrente censura l’estrema sinteticità” della decisione impugnata e la “frettolosa illustrazione dei termini della questione o della ratio decidendi a scapito della comprensione” e “la mancata trattazione di una o più questioni prospettate” (cfr. pagg. 12 e 13 del ricorso per cassazione);
rimarca, altresì, l’omesso esame e l’omessa motivazione in relazione a fatto decisivo e controverso, quale la correttezza dell’iscrizione, nel bilancio 2004, delle fatture nn. 225 e 227/2005, in virtù del principio di competenza, a prescindere dal fatto che esse erano state emesse nel 2005;
in conclusione, formula identica censura con riguardo alla riduzione dell’IVA, prospettando che la CTR avrebbe “sostenuto tautologicamente che la riduzione non è dovuta perché non è stata fatta la deduzione di “prima casa”. Ed invece, ai sensi delle norme della L. 122/89, D.P.R. 131/86 e 633/72 ed art. 2697 c.c., tale dichiarazione non è effettivamente dovuta.” (cfr. pag. 15 del ricorso per cassazione);
1.1. il motivo è inammissibile;
esso contiene, in modo non consentito, un’indistinta unificazione e sovrapposizione delle ragioni di ricorso per cassazione – riconducibili al vizio di violazione di legge e al vizio della motivazione – e demanda, impropriamente, alla Corte di sostituirsi alla contribuente nell’enucleare, dall’insieme delle critiche congiuntamente proposte, autonomi profili di censura (Cass. 18/04/2018, n. 9486);
2. con il secondo motivo, denunciando: «2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 109 c. 1 e 2 lett. b D.P.R. 917/86, art. 6 D.P.R. 633/72, art. 2423 bis c. 1 c.c., in relazione all’art. 360 n. 5 per omesso esame circa un atto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Violazione delle norme sull’imputazione di costi al bilancio per competenza e non per cassa», la ricorrente assume che la sentenza della CTP non aveva riconosciuto costi per euro 462.085,17 perché non era stata fornita prova documentale del pagamento, nel 2005, di euro 777.933,17, di cui alle fatture nn. 525, 526, 527 e 528, mentre era stata fornita la prova del pagamento delle fatture nn. 225, 227, di euro 315.858,00 che, pertanto, erano gli unici costi legittimamente deducibili;
rileva, inoltre, che tutte le fatture erano attinenti a prestazioni di service e che, mentre le ultime due (fatture nn. 225 e 227/2005) riguardavano prestazioni ricevute nel 2004, le altre riguardavano prestazioni ricevute nel 2005 che, perciò, erano state correttamente portate in deduzione, come costi, proprio nell’esercizio 2005, e, infine, sottolinea che tali elementi erano desumibili dai bilanci esibiti nel giudizio di merito;
ciò premesso, innanzitutto, censura la decisione impugnata, sotto il profilo del vizio della motivazione, per non avere esaminato: «il punto della formulazione del bilancio in base al principio del codice civile e dell’attribuzione dei costi per competenza.»; in secondo luogo, fa valere la: «Grave violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in riferimento ai principi contabili che il Giudice, con una consulenza tecnica, avrebbe agevolmente risolto e, quindi, debitamente motivato, sia nel caso in cui avesse rilevato dal ricorso in appello tale principio contabile con il riscontro della documentazione in atti.» (cfr. pag. 19 del ricorso per cassazione);
2.1. il complesso motivo, articolato in due distinti profili di censura (vizio di motivazione e violazione di legge), è infondato;
2.1.1. per un verso, quanto al vizio di motivazione, va premesso che la sentenza della CTR è stata pubblicata il 21/01/2013, sicché il motivo di ricorso è quello dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., nella nuova formulazione introdotta dall’art. 54, primo comma, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che si applica in relazione alle sentenze d’appello pubblicate a partire dall’11/09/2012;
secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte: «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto “sufficienza” della motivazione.» (Cass. sez. un. 7/04/2014, n. 8053);
nella specie, la CTR, poggiando il proprio percorso argomentativo su un apprezzamento di fatto ad essa insindacabilmente rimesso, ha esaustivamente spiegato che le fatture in questione recavano costi indeducibili, in difetto di prova dei relativi pagamenti;
2.1.2. per altro verso, quanto alla violazione di legge, a prescindere dalla prospettabile inammissibilità della doglianza, il cui contenuto lessicale è espresso in termini poco nitidi e intelligibili, è dato rilevare che il fulcro della critica involge un elemento di fatto – vale a dire l’effettività dei costi documentati dalle fatture emesse nel 2005 – che il giudice d’appello ha insindacabilmente negato, in ragione della mancanza della prova dell’effettiva esecuzione dei lavori e del pagamento delle stesse fatture;
3. con il terzo motivo, denunciando: «3) Violazione e falsa applicazione degli artt. 9 e 11 L. 122/89; art. 21 Tabella A – 2 allegata al D.P.R. 633/72; c. 3 nota II bis dell’art. 1 della Tariffa allegata al D.P.R. 131/86; art. 818 c.c.; art. 2697 c.c. per contrasto in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. Errata individuazione dell’obbligo non richiesto dalla legge. Difetto di solidarietà.», la ricorrente premette che:
a) l’avviso di accertamento affermava che la P. Srl, nel 2005, aveva effettuato 46 compravendite di box auto, per un ammontare di euro 6.184.445,00, delle quali solo 5 contenevano l’esplicita richiesta della agevolazione “prima casa”, mentre gli altri atti di trasferimento indicavano unicamente il requisito della pertinenzialità ad un immobile abitativo, con riferimento all’art. 9 della legge n. 122/1989 (legge Tognoli);
b) pertanto, veniva recuperata la maggiore IVA dovuta, per euro 371.066,00, per effetto dell’errata indicazione dell’aliquota IVA ridotta del 4%, anziché di quella ordinaria del 10%;
c) nel corso del giudizio di merito, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, la CTR aveva ritenuto legittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria in quanto la contribuente non aveva dimostrato, ai fini della spettanza dell’IVA agevolata, che i box auto ceduti fossero pertinenza di una “prima casa”, ossia di un’abitazione avente i requisiti previsti dalla nota 2-bis, art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131/1986, cui rinvia la tabella, parte II, n. 21, allegata al d.P.R. n. 633, quale presupposto necessario per l’applicazione dell’agevolazione fiscale, che deve essere provato dal contribuente;
d) ai sensi delle risoluzioni dell’Agenzia delle entrate n. 39 del 17/03/2006 e n. 38 del 12/08/2005, la detta agevolazione fiscale era consentita anche nel caso in cui il trasferimento del box auto avvenisse separatamente dall’abitazione adibita a prima casa e, in effetti, nella fattispecie concreta, l’acquisto delle dette pertinenze era avvenuto con atto separato rispetto all’acquisto della prima casa;
e) la norma del registro, al punto II-bis della tariffa, impone che l’eventuale differenza di imposta debba essere recuperata presso l’acquirente;
assume che l’Ufficio avrebbe potuto rivolgere la propria richiesta di integrazione dell’IVA, dovuta solo dagli acquirenti, dopo avere verificato che l’abitazione cui era annesso il box auto non fosse “prima casa”;
ciò premesso, la società censura la decisione impugnata “per carenza di motivazione in tal senso e di prova che l’abitazione principale non fosse prima casa. Tale prova non poteva essere data dal cedente, che è terzo, ma dall’Ufficio che, in ogni caso, è attore sostanziale nel processo.” (cfr. pag. 27 del ricorso per cassazione);
sotto altro aspetto, la società si duole della sentenza della CTR che, senza tenere conto delle disposizioni civilistiche sulle pertinenze (artt. 818, 819 cod. civ.), dell’art. 9 della legge Tognoli, e della circostanza che, in materia di agevolazioni fiscali “cd. prima casa”, il venditore non è responsabile in solido con l’acquirente per le dichiarazioni mendaci di quest’ultimo, in quanto ciò non è espressamente previsto, da un lato, avrebbe trascurato che gravava sull’Ufficio, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., l’onere di dimostrare che gli atti principali non contenevano la dichiarazione di “prima casa” e, dall’altro, non avrebbe “speso una parola su quanto affermato dalle leggi citate sorvolando sulla sostanza del thema decidendum con una generica motivazione […]”;
4. con il quarto motivo, denunciando: «4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 16 bis del D.P.R. 917/86 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.», la ricorrente censura la decisione della CTR che avrebbe disconosciuto la fondatezza dell’argomento difensivo dell’interessata, per il quale, se detti articoli consentono la detrazione del 36% (oppure del 50%) delle spese relative alla realizzazione di autorimesse e posti auto pertinenziali, e non prescrivono che la dichiarazione che l’acquisto o la costruzione dei box auto siano fatti per la “prima casa”, ma richiedono unicamente che essi siano pertinenziali all’abitazione, per un’esigenza di coerenza normativa, non vi sarebbe alcuna ragione per pretendere che, ai fini dell’IVA ridotta al 4%, occorra la dichiarazione che l’acquisto è fatto quale pertinenza del box auto alla “prima casa”;
4.1. i due motivi, da esaminare congiuntamente per connessione, sono infondati;
4.1.1. ai fini dell’IVA, nel caso in cui un box-autorimessa sia venduto con atto separato rispetto all’unità abitativa, l’aliquota ridotta del 4%, di cui al punto 21 della parte II della tabella A, allegata al d.P.R. n. 633/1972, non è applicabile in virtù della semplice dichiarazione del vincolo pertinenziale tra essi esistente, in quanto, trattandosi di un’eccezione a quella ordinaria generalmente prevista, il contribuente deve dimostrare la ricorrenza dei relativi presupposti, ossia, per quanto adesso rileva, del vincolo di pertinenzialità rispetto alla “prima casa”;
è indubbio, infatti, che la ratio della norma agevolativa consiste nel favorire, attraverso un carico fiscale attenuato, l’acquisizione della “prima casa”, normalmente destinata a costituire l’abitazione principale dell’acquirente e che la presenza di quelle norme che estendono l’agevolazione anche all’acquisto di pertinenze per la prima casa costituisce un’ulteriore conferma dell’intento legislativo;
4.1.2. tornando alla controversia tributaria, è il caso di richiamare il radicato indirizzo di questa Corte (Cass. 2/03/2012, n. 3291), al quale s’intende aderire, secondo cui l’esecuzione di operazioni imponibili ai fini dell’IVA comporta “ex lege” l’instaurazione di due autonomi rapporti giuridici: il primo tributario, di natura pubblicistica, tra il fisco e il cedente o prestatore, per il versamento dell’imposta (art. 17 decreto IVA); l’altro, di natura prettamente civilistica, tra il cedente o prestatore e il cessionario o committente, riguardo alla rivalsa (art. 18);
sorto l’obbligo di fatturazione (art. 6), sorge contemporaneamente l’obbligo di addebitare l’IVA alla controparte distinguendola dall’imponibile (Cass. 12882/2010), così il soggetto passivo del rapporto tributario diventa soggetto attivo del rapporto civilistico;
la rivalsa è obbligatoria ed è nullo ogni patto contrario (art. 18), mentre la legge vieta al cedente/prestatore di rivalersi nei confronti del cessionario/committente in relazione all’imposta o alla maggiore imposta pagata in conseguenza di un accertamento o di una rettifica (art. 60 originario);
la relazione illustrativa al decreto sull’IVA chiarisce, quanto ai limiti della rivalsa, che si tratta di previsione dettata per ovviare alla riapertura di remoti rapporti contrattuali oramai esauriti, al solo scopo di poter recuperare, a posteriori, l’IVA non addebitata al tempo della fatturazione;
la giurisprudenza maggioritaria conferma che il cedente/prestatore non ha diritto di rivalsa verso il cessionario/committente per l’imposta o la maggiore IVA dovuta al fisco per effetto di accertamento o rettifica (Cass. ult. cit.; conf. Cass. 14578/2010, 24794/2005, 6714/1996);
in altri termini, l’esigenza di stabilità dei rapporti giuridici assume, per legge, carattere assolutamente prevalente rispetto al principio di neutralità dell’IVA e dell’imposizione a carico del consumatore finale, con ciò realizzandosi l’equo contemperamento di opposti interessi che, da un lato, garantisce la certezza del gettito fiscale (rapporto pubblicistico), dall’altro salvaguarda la certezza dei costi finali nella circolazione dei beni e dei servizi (rapporto civilistico);
il soggetto passivo, cioè chi cede beni o presta servizi, non resta privo di tutela, giacché egli può bene esercitare la rivalsa, fino all’emissione dell’atto impositivo (accertamento o rettifica), integrando la fattura originaria ovvero emettendo una fattura tardiva (art. 26; conf. Cass. 1212/1992 e Circ. 131/1986);
per di più restano salvi, non incorrendo nel divieto di rivalsa, i pagamenti spontaneamente effettuati dal soggetto passivo sulla base del solo processo verbale di constatazione;
nemmeno è opponibile al fisco la buona fede del cedente/prestatore o la correlativa malafede del cessionario/committente, proprio in virtù dell’autonomia del rapporto tributario rispetto a quello civilistico;
il sistema dell’IVA nazionale, infine, per conseguire l’obiettivo comunitario della Direttiva 2006/112/CE, artt. 1 e 2, di “un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi”, non può che fondarsi, secondo lo schema della tassazione analitico-aziendale, sulla presunzione assoluta di diligenza professionale del soggetto passivo nella verifica della posizione dei terzi con i quali ha operato e dai quali possono provenire dichiarazioni e/o informazioni e/o dati adoperati per la determinazione dell’imposta e della sua aliquota, della cui esattezza la parte contribuente è unica responsabile verso il fisco;
4.1.3. nel caso di specie, la CTR, laddove ha riconosciuto la legittimità dell’accertamento fiscale, in assenza di dimostrazione, da parte della società cedente (quale parte del rapporto tributario, pubblicistico, con l’erario), che i box auto erano pertinenze di unità immobiliari adibite a “prima casa”, si è uniformata a questi principi e ha fatto altresì corretta applicazione di quello secondo cui, in materia di IVA, le norme che prevedono aliquote agevolate costituiscono un’eccezione rispetto alle disposizioni che stabiliscono, in via generale, le aliquote ordinarie, sicché spetta al contribuente, che voglia fare valere tali circostanze – le quali, pur non escludendola, riducono sul piano quantitativo la pretesa del fisco -, provare l’esistenza dei presupposti per la loro applicazione, e cioè dei fatti costituenti il fondamento della sua eccezione (Cass. 9/05/2003, n. 7124);
5. alla stregua di queste considerazioni, inammissibile il primo motivo, infondati il secondo, il terzo e il quarto, il ricorso è rigettato;
6. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
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