Corte di Cassazione sentenza n. 19945 depositata il 12 luglio 2023
accertamento – costi non deducibili – sopravvenienze attive – presupposti – costituiscono prestazioni di servizi “le cessioni di contratti di ogni tipo ed oggetto” – presupposti per deducibilità di operazioni oggettivamente inesistenti
Fatti di causa
Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società M. s.r.l. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2008, aveva accertato una maggiore Ires, Irap e Iva ed irrogato le conseguenti sanzioni; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Milano; avverso la pronuncia del giudice di primo grado sia l’Agenzia delle entrate che la società avevano proposto appello.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto parzialmente entrambi gli appelli, confermando, ai fini Ires, in parte la ripresa fiscale relativa alla omessa contabilizzazione e dichiarazione di sopravvenienze attive imponibili, la ripresa per costi non deducibili relativi alle fatture ricevute dalla società E. s.r.l., e, ai fini Iva, la ripresa per errata applicazione del regime di non imponibilità della cessione del contratto di leasing, la ripresa, in parte, dell’Iva per mancata prova dell’esportazione, nonché, infine, la ripresa parziale per omesso versamento delle ritenute d’acconto. La società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a sette motivi di ricorso, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a un unico motivo di censura.
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Giuseppe Locatelli ha depositato le proprie conclusioni scritte con le quali ha chiesto l’accoglimento del primo, secondo, terzo e settimo motivo, assorbito il quarto e rigettati i restanti, del ricorso principale e di dichiarare inammissibile quello incidentale.
La società Farmavenda s.p.a. ha depositato memoria con la quale ha evidenziato di essere socia al 58% della società M. s.r.l. e che questa, dopo la liquidazione, è stata cancellata dal registro imprese in data 22 giugno 2022 a seguito della chiusura del fallimento per mancanza di attivo, ed ha dichiarato di presentare la memoria quale successore intra vires, ai sensi dell’art. 2495, cod. civ.
Ragioni della decisione
Sul ricorso principale
Con il primo motivo di ricorso principale la società censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 2697, cod. civ. in tema di principio dell’onere della prova.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 88, d.P.R. n. 917/1986, in materia di omessa contabilizzazione di sopravvenienze attive imponibili;
evidenzia parte ricorrente che la ripresa era relativa alla omessa contabilizzazione e dichiarazione di sopravvenienze attive imponibili ed era stata basata sulla erronea prospettazione che gli stanziamenti passivi operati dalla società difettavano all’origine del requisito della certezza in quanto non erano pervenute le fatture ad essi relative, comportando, in tal caso, una sopravvenienza attiva, ai sensi dell’art. 88, comma 1, d.P.R. n. 917/1986;
deduce, quindi, parte ricorrente che, con riferimento ai compensi in favore degli amministratori stanziati nel 2006 ma ripresi a tassazione in dichiarazione dei redditi, la sopravvenuta insussistenza di un componente negativo non può mai generare una sopravvenienza attiva in quanto lo stesso, ancorchè rilevato in bilancio, non era stato dedotto, per effetto della variazione in aumento, nel periodo di imposta 2006; parimenti illegittima, secondo parte ricorrente, è la parte della pronuncia della sentenza che ha ritenuto legittima la ripresa che atteneva a componenti negativi stanziati nel 2008, oggetto di accertamento, in quanto la sopravvenienza attiva non è configurabile nello stesso esercizio di rilevazione del componente negativo, ponendosi solo una questione, eventualmente, di mancanza del requisito di deducibilità del costo.
La società, a tal proposito, evidenzia inoltre che, trattandosi di una ripresa comportante l’accertamento di componenti positivi, era l’ufficio che aveva l’onere di fornire la prova del conseguimento degli stessi, e, pertanto, non era corretta la statuizione del giudice del gravame che aveva parzialmente confermato il rilievo, non avendo la sentenza accertato che l’amministrazione finanziaria avesse dato prova che nell’esercizio fosse sopravvenuta l’insussistenza degli oneri dedotti in precedenti esercizi, non essendo a tal fine sufficiente il solo decorso del tempo.
I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono fondati. Questa Corte (Cass. civ., 19 novembre 2020, n. 26316) ha precisato che la previsione di cui all’art. 88, cit., inserisce tra le sopravvenienze attive da dichiarare anche “la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritti in bilancio in precedenti esercizi“, dovendosi da tale definizione evincere che la sopravvenienza deve essere dichiarata (e tassata) nell’esercizio in cui si manifesta solo se la posta passiva sia stata già iscritta in precedenti bilanci e se la sua insussistenza sia sopravvenuta e non originaria, derivi cioè da eventi ulteriori che ne modifichino l’effettività, e non già, a contrario, se venga rilevata l’originaria inesistenza soltanto in un momento successivo.
Si è, invero, affermato che non rientra tra le sopravvenienze attive l’accertamento sopravvenuto dell’insussistenza originaria di una posta passiva pure iscritta nel bilancio di un precedente esercizio (Cass. civ., 2 agosto 2017, n. 19219) “in quanto essa rileva al momento della sua eliminazione per decisione discrezionale del contribuente“.
Pertanto, il concetto di sopravvenienza attiva implica che una spesa, una perdita o una passività, già iscritta in bilancio, era reale ed esistente, e che successivamente, per qualsiasi ragione, prevedibile o imprevedibile, la sua operatività od effettività sia venuta meno, od anche che abbia subito una variazione quantitativa favorevole al contribuente, come nel caso di impossibilità sopravvenuta di una condizione, ovvero di impossibilità sopravvenuta della prestazione, od anche di risoluzione del contratto o al recesso, che determinino in capo al contribuente un incremento della disponibilità finanziaria o patrimoniale.
A tale ambito concettuale si rivela estranea l’ipotesi di una posta passiva (spesa o perdita o qualsiasi altra passività) iscritta in un determinato bilancio, ancorchè inesistente perchè documentata da atti o fatture false materialmente o ideologicamente o giuridicamente non dotate dei requisiti formali per essere portate in deduzione: infatti in tal caso la circostanza che i bilanci degli esercizi successivi siano indirettamente influenzati dalla falsità o insussistenza della perdita o passività già iscritta nulla toglie al fatto oggettivo che gli effetti tributari della passività indebitamente iscritta si siano già realizzati in relazione all’esercizio in cui la perdita è stata rilevata (nel caso di specie contribuendo alla diminuzione del risultato d’esercizio imponibile); nè l’annotazione, negli esercizi successivi, del pagamento del debito originariamente inesistente si pone come atto volontario di eliminazione della perdita originaria, anzi confermandone l’esistenza ed essendo diretta a portare quell’iscrizione a conseguenze ulteriori, realizzando (eventualmente) un’ulteriore condotta evasiva o elusiva, non già facendo emergere un’attività prima inesistente, ma deprimendo ancora una volta la consistenza patrimoniale o il risultato dell’esercizio nel quale i pagamenti vengono indebitamente annotati.
Pertanto, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che fosse legittimo il rilievo della sussistenza di una sopravvenienza attiva di costi risultanti dal bilancio per il solo fatto che la società non aveva ancora ricevuto le fatture, posto che tale considerazione tende, non correttamente, a contestare l’esistenza in sé del costo, in modo non compatibile con la corretta applicazione della previsione di cui all’art. 88, cit., dando rilievo ad una circostanza, il decorrere del tempo, non idoneo, di per sé, ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova a carico dell’Agenzia delle entrate.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 109, commi 4 e 9, d.P.R. n. 917/1986, nonché dell’art. 8, comma 2, d.l. n. 16/2012, e dell’art. 53, Cost., relativamente alla ripresa per costi non documentati relativi alla fatture passive emesse dalla società E. s.r.l..
Evidenzia parte ricorrente che la ripresa derivava dalla circostanza che l’amministrazione finanziaria aveva rilevato che la società E. s.r.l. non aveva registrato in contabilità le vendite eseguite nei confronti della stessa ricorrente ma nei confronti di altra società ed aveva, quindi, contestata l’indebita deduzione dei costi, nonostante il fatto che la società E. s.r.l. aveva emesso le fatture nei confronti di altra società per errore, sicchè aveva riemesso le fatture nei confronti della ricorrente.
Così inquadrata la vicenda, la ricorrente ha esposto che aveva evidenziato la illegittimità del rilievo per violazione dell’art. 109, commi 4 e 5, essendo necessario comunque l’applicazione del principio della correlazione tra costi e ricavi che, peraltro, trova applicazione, ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.l. n. 16/2012, anche nel caso di operazioni inesistenti.
Sulle base di tali argomentazioni, parte ricorrente prospetta la non corretta statuizione del giudice del gravame, per non avere tenuto conto del principio generale della correlazione tra costi e ricavi.
Il motivo è fondato.
Il giudice del gravame ha accertato che le fatture erano state emesse direttamente nei confronti di altra società e che la ricorrente non aveva dato prova che la cessione era avvenuta nei propri confronti e che solo per errore non era stata variata l’intestazione della fattura. Il suddetto accertamento fattuale non è censurabile in questa sede, essendo quindi stata accertata la non legittimità della deduzione dei costi di cui alle fatture passive in esame.
Tuttavia, è corretto il motivo di ricorso laddove evidenzia che, avendo il giudice del gravame accertato l’inesistenza oggettiva delle operazioni, non è stata fatta applicazione della previsione di cui all’art. 8, comma 2, d.l. 16/2012.
Invero, questa Corte ha precisato che l’art. 8, comma 2, d.l. 16/2012, costituente ius superveniens applicabile alla presente controversia in forza del successivo comma 3 (Cass. n. 19000 del 17/07/2018), ha stabilito, con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti, che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese (Cass. n. 33915 del 19/12/2019; Cass. n. 7896 del 20/4/2016; Cass. n. 27040 del 19/12/2014; Cass. n. 25967 del 20/11/2013), salva l’applicazione di una sanzione.
In siffatte ipotesi grava sul contribuente l’onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nell’accertamento concorso alla formazione del reddito, siano anch’essi fittizi, perchè ricavi “correlati”, ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. n. 19000 del 2018, cit.; Cass. n. 25967 del 2013, cit.).
Il giudice del gravame, nel pronunciarsi, non ha tenuto conto della suddetta previsione normativa, avendo escluso la deducibilità dei costi per operazioni oggettivamente inesistenti senza valutare se la ricorrente avesse assolto al proprio onere di provare la fittizietà dei componenti positivi in quanto ricavi correlati.
Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., poiché, con riferimento alla ripresa di cui al terzo motivo di censura, era pacifico che la ricorrente, a fronte dei costi di cui alle fatture ricevute dalla E. sr.l. aveva emesso conseguente fattura che aveva generato un ricavo, quindi un componente positivo del reddito di impresa strettamente connesso al costo.
L’accoglimento del terzo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del presente motivo.
Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione degli artt. 3, comma 2, n. 1) e 5), e dell’art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/1972, con riferimento alla ripresa iva per la cessione del contratto di leasing.
Evidenzia parte ricorrente che, secondo la prospettazione dell’amministrazione finanziaria, i contratti di locazione finanziaria con facoltà di riscatto sono per loro natura finalizzati all’acquisizione del bene e sono da assimilare alla cessione dei beni, sicchè nel caso di leasing immobiliare, così come nella ipotesi, quale quella in esame, della cessione di un contratto di leasing immobiliare, non sarebbe applicabile la previsione di non imponibilità di cui all’art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/1972, attesa l’espressa esclusione della cessione di beni immobili.
Sotto tale profilo, si censura la sentenza per avere erroneamente ritenuto che, nella fattispecie, l’operazione posta in essere era una cessione di contratto che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, n. 5), cit., è una prestazione di servizi, a prescindere dalla volontà del cessionario e dell’utilizzo del bene.
Il motivo è fondato.
La sentenza censurata evidenzia che la ripresa era stata prospettata per errata applicazione della previsione di cui all’art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/1972, e che l’operazione contestata riguardava la cessione di un contratto di leasing immobiliare.
La suddetta previsione normativa considera non imponibili, in quanto costituiscono cessioni all’esportazione, “le cessioni, anche tramite commissionario, di beni diversi dai fabbricati e dalle aree edificabili, e le prestazioni di servizi…”.
Quel che viene contestato alla ricorrente è la circostanza che l’operazione aveva avuto riguardo a cessioni di beni immobili, in quanto tali esclusi dalla suddetta previsione normativa e, sotto tale profilo, il giudice del gravame ha ritenuto corretta la ripresa ragionando in ordine al fatto che, nella fattispecie, si era stipulato un contratto di leasing traslativo, con conseguente finalità di trasferimento del bene.
Tuttavia, l’impostazione di fondo seguita dal giudice del gravame non è corretta.
Come evidenziato, l’operazione eseguita era relativa alla cessione di un contratto di leasing immobile e la stessa era stata contestata nell’ambito della previsione di cui all’art. 8, comma 1, cit..
Va quindi osservato che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, n. 5), d.P.R. n. 633/1972, costituiscono prestazioni di servizi “le cessioni di contratti di ogni tipo ed oggetto”, e tale ampia formulazione non può non condurre a ritenere che tutte le cessioni di contratti sono considerate prestazioni di servizi, anche ove abbiano ad oggetto una cessione di beni immobili.
Sicchè, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto di dovere ragionare in ordine alla produttività di effetti traslativi del contratto di leasing, posto che, invero, la vicenda negoziale in esame è da collocarsi nella diversa categoria delle prestazioni di servizi e, in quanto tale, da ricondursi alla previsione di cui all’art. 8, comma 1, cit..
Con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 115, cod. proc. civ., per non avere tenuto conto del fatto che la ripresa di cui al precedente motivo di ricorso era relativa alla cessione di un contratto di leasing e che la stessa, quindi, andava qualificata quale prestazione di servizi.
Con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per non essersi pronunciata sulla questione della non applicabilità della sanzione con riferimento alla questione di cui al quinto motivo.
I motivi sono assorbiti dall’accoglimento del quinto motivo di ricorso.
Sul motivo di ricorso incidentale
Con l’unico motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4), e dell’art. 61, d.lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., dell’art. 118, disp. att. cod. proc. civ.
In particolare, l’Agenzia delle entrate lamenta che il giudice del gravame, con specifico riferimento alla parte della pronuncia con la quale ha ritenuto non legittima la ripresa, si è pronunciato con una motivazione apparente, senza esplicitare i motivi ed il ragionamento logico seguito al fine di pervenire alla statuizione.
Il motivo è solo in parte fondato.
Va osservato, in primo luogo, che con riferimento al rilievo denominato: A) contabilizzazione di costi non deducibili per euro 55.075,16, per violazione dell’art. 110, commi 10 e 11, d.P.R. n. 917/86, parte ricorrente non riproduce in alcun modo il contenuto dell’accertamento ad esso relativo, non consentendo di apprezzare la ragione della ripresa e, pertanto, la mancanza di motivazione della pronuncia censurata che, d’altro lato, risulta avere espresso una valutazione di fatto sulla prova proposta dalla società, avendo accertato che era stata provata la convenienza economica rispetto a quella del mercato continentale e, quindi, la deducibilità del costo. Con riferimento alla ripresa di cui al rilievo 7, relativa alla errata deduzione delle perdite su crediti vantati, il giudice del gravame ha posto l’attenzione su diversi elementi ai fini della deducibilità: la circostanza che la perdita era esigua rispetto al valore del credito, i prevedibili costi per un’azione di recupero del credito e i rischi connessi, nonché l’esistenza di un parere di un legale.
Non si tratta di valutare la correttezza in sé di tali argomentazioni posti a base della pronuncia, non avendo parte ricorrente contrastato tale parte della pronuncia deducendo eventuali vizi di legge, ma la sussistenza di un percorso decisorio che risulta, invero, chiaramente illustrato dal giudice del gravame, avendo ritenuto giustificabile la perdita su crediti facendo leva, sostanzialmente, sul rischio del recupero del credito.
Con riferimento al rilievo n. 8, relativo alla non deducibilità dei costi relativi agli interessi passivi per finanziamenti concessi dalla Novafin, società di diritto elvetico, dall’esame del verbale di accertamento, riprodotto dall’Agenzia delle entrate, si evince che la ripresa si fondava sulla considerazione che mancava la prova del suddetto finanziamento nonché la sussistenza della presunzione relativa di indeducibilità, trattandosi di costi “black list”.
Rispetto a tali circostanze, il giudice del gravame ha dato specifica risposta, evidenziando, da un lato, che la documentazione prodotta dimostrava la effettività del costo e, dall’altro, che la società emittente non rientrava nella “black list”, specificandone la ragione. Con riferimento al rilievo iva n. 3), relativo alla errata applicazione dell’art. 8, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 633/1972, concernente la mancata prova dell’esportazione, la pronuncia censurata si limita ad evidenziare che: “Anche il quarto motivo di gravame, relativo al rilievo iva n. 3, andrà accolto limitatamente ad e.15.665,67, mentre per il rimanente andrà confermata la sentenza di primo grado (e. 471.170,17).
Invero, la pronuncia del giudice del gravame, non illustra in alcun modo il ragionamento logico seguito al fine di pervenire alla considerazione finale della quale soltanto è stata data illustrazione e, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente principale in memoria, il profilo di censura in esame non tende ad una successiva rivalutazione del merito della controversia.
Né può ragionarsi in termini di motivazione per relationem alla pronuncia del giudice di primo grado, mancando ogni specifico riferimento al contenuto della motivazione e la valutazione critica sulla corretta della statuizione.
Conclusioni
In conclusione, sono fondati il primo, secondo, terzo e quinto motivo del ricorso principale, assorbiti il quarto, sesto e settimo, è fondato il ricorso incidentale limitatamente alla pretesa di cui al rilievo iva n. 3), relativo alla errata applicazione dell’art. 8, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 633/1972, concernente la mancata prova dell’esportazione, con conseguente accoglimento del ricorso principale e di quello incidentale per i motivi accolti e cassazione della sentenza con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il primo, secondo, terzo e quinto motivo del ricorso principale, assorbiti il quarto, sesto e settimo, accoglie il ricorso incidentale limitatamente alla pretesa di cui al rilievo iva n. 3), relativo alla errata applicazione dell’art. 8, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 633/1972, concernente la mancata prova dell’esportazione, cassa la sentenza censurata per i motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
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