Corte di Cassazione sentenza n. 2038 depositata il 26 gennaio 2018
SOCIETA’ DI CAPITALI – SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATA – NOZIONE, CARATTERI, DISTINZIONI – ORGANI SOCIALI – AMMINISTRATORI – RESPONSABILITÀ SOLIDALE GESTORIA – NATURA OGGETTIVA – ESCLUSIONE – FONDAMENTO
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 12 ottobre 2015, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accogliendo la domanda proposta da F.P. ed E. ha condannato C.R. e G. al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2476 c.c., in favore della N. F. Gym in liquidazione s.r.l., nella misura di Euro 426.876,92, oltre alla rivalutazione dal 1 gennaio 2007 ed agli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata, per non essersi i medesimi attivati ai fini della riscossione del credito vantato dalla società nei confronti dell’Associazione Sportiva L. F. Gym (in seguito, V. Wellness).
La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che: a) la concessione in gestione della palestra della società all’associazione non costituisce in se’ fatto di mala gestio degli amministratori C.; b) integra, invece, una condotta inadempiente di detti amministratori agli obblighi della carica l’avere omesso di riscuotere l’ingente credito di Euro 426.876,92, maturato nei confronti dell’associazione, debitrice di tale importo per canoni non pagati, con corrispondente danno per la società, somma costituente debito di valore; c) l’approvazione del bilancio da parte dei soci F.P. ed E. non implica la liberazione da responsabilità degli altri amministratori per i fatti di inadempimento commessi nella gestione sociale; quanto al nesso causale, lo statuto della società, della quale sono amministratori i quattro soci, attribuisce la prevalenza, in caso di parità, al voto del presidente, palesando come il dissenso dei F., ove pure espresso in consiglio, sarebbe rimasto comunque irrilevante, mentre sono altresi’ provate le difficoltà ad essi frapposte con riguardo all’accesso ai documenti contabili ed al loro esame da parte di commercialista di fiducia.
Avverso questa sentenza propongono ricorso C.R. e G. sulla base di sette motivi. Resistono con controricorso F.P. ed E., che depositano pure la memoria di cui all’art. 378 c.p.c., mentre non svolgono difese gli altri intimati.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il ricorso e’ affidato a sette complessi motivi, i quali propongono censure riassumibili come segue:
1) violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello dapprima escluso il conflitto d’interessi e lo scopo di avvantaggiare la famiglia C. con la conclusione del contratto di concessione in uso della palestra all’associazione, e poi invece ravvisato la responsabilità dei medesimi;
2) violazione o falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, artt. 1393, 2392 e 2487 c.c., art. 81 c.p.c., in quanto la condotta risaliva al 2002, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2476 c.c. e difetto di legittimazione del singolo socio all’azione sociale di responsabilità; in subordine, dall’importo del danno avrebbero dovuto comunque essere detratti i canoni risalenti al periodo anteriore al 1 gennaio 2004, importo pari ad almeno Euro 82.431,90;
3) violazione o falsa applicazione dell’art. 2476 c.c., nonche’ dell’art. 26 dello statuto e artt. 1362 c.c. e segg., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perche’: i quattro soci-amministratori avevano sempre condiviso le scelte di gestione, approvando i progetti ed i bilanci dal 2001 al 2005, senza mai proporre la disdetta del contratto di concessione in gestione della palestra, onde ritenere il contrario implica un’indebita ingerenza giudiziale nelle scelte d’impresa; la sentenza impugnata ha violato il principio di pari responsabilità di tutti gli amministratori, posto dell’art. 2476 c.c., comma 1; l’affermazione, secondo cui il dissenso dei due soci F. non avrebbe inciso sulla situazione sociale, e’ mera congettura, anche per l’errata interpretazione che la corte del merito opera con riguardo all’art. 26 dello statuto sociale, il quale attribuisce la prevalenza al voto di “chi presiede” solo in caso di parità, fatto decisivo non esaminato dalla sentenza impugnata, onde chi presiede ben puo’ essere soggetto diverso dal presidente del c.d.a.; il legale rappresentante C.R. non e’ responsabile per il mero fatto di rivestire tale qualità, essendosi attenuto a scelte condivise da tutto il c.d.a., alle cui riunioni solo dal 2006 i F. hanno inteso disertare;
4) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consistente nei ragguardevoli pagamenti nel corso negli anni effettuati dall’associazione; inoltre, ormai il credito e’ stato recuperato mediante scrittura privata del 24 settembre 2012, allegata al ricorso per cassazione, con la quale il credito de quo e’ stato dalla società ceduto alla Centenara s.r.l. dietro corrispettivo costituito dal maggior credito di Euro 519.572,68 vantato dalla cessionaria verso la cedente;
5) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonche’ violazione dell’art. 2467 c.c. (rectius art. 2476), comma , per avere la corte del merito ritenuto provati gli ostacoli frapposti al diritto di ispezione dei soci, trattandosi del resto di documenti del tutto ininfluenti e formati nel 2007-2008, mentre tale diritto non spetta ai soci amministratori;
6) violazione o falsa applicazione degli artt. 2476, 2727 e 2729 c.c., dato che nessuna azione esecutiva contro l’associazione, come invece opinato dalla corte territoriale, avrebbe potuto essere esperita sulla base di mere fatture relative ai canoni concessori, e, comunque, non sussistendo nessun dovere del creditore di agire in giudizio, trattandosi di una mera facoltà; inoltre, per affermare la solvibilità dell’associazione, la corte del merito ammette di avere operato un “esame sommario” della contabilità, per desumerne come poco verosimile che all’aumento delle spese per la palestra non corrispondessero anche maggiori incassi, ed operando un prasumptum de praesumpo non ammesso;
7) violazione o falsa applicazione degli artt. 1223 c.c. e segg. e dei vigenti principi in materia risarcitoria, oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la corte del merito: non ha fatto applicazione della regola secondo cui il danno da mala gestio va liquidato nella differenza tra attivo e passivo, nella specie pari solo ad Euro 71.000,00; non ha accertato l’irrecuperabilità del credito, anzi risultando che nella riunione consiliare del 29 giugno 2007 fu deciso il mero abbattimento contabile del credito stesso; non ha detratto il credito non riscosso sino al 2005, quando cio’ corrispondeva alla volontà condivisa tra i soci; non ha esaminato il fatto decisivo della mera natura contabile dell’abbattimento del credito, stabilito in quella sede, posto che esso oramai era irrealizzabile, come accertato anche dal Tribunale di Vigevano nel giudizio di scioglimento della società, onde nel progetto di bilancio fu ipotizzata la svalutazione prudenziale del credito medesimo mediante un “fondo svalutazione ex art. 2426 c.c.”, tenuto conto del fattore temporale e del valore di presumibile realizzo; ha reputato la somma un debito di valore, laddove il mancato incasso di denaro costituisce un debito di valuta.
2. – Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
L’esaustiva motivazione della corte del merito assolve compiutamente al dettato costituzionale, senza contraddizioni di sorta: basti, al riguardo, il rilievo essenziale che l’esclusione degli elementi costitutivi della fattispecie del conflitto d’interessi e’ stata dalla sentenza impugnata argomentata con riguardo alla conclusione in se’ del contatto di cessione in uso della palestra, non alla condotta di inadempimento – la mancata riscossione del credito maturato per i canoni della concessione in gestione della azienda – da essa nella restante parte della motivazione imputata ai C..
3. – Il secondo motivo e’ manifestamente infondato.
La sentenza impugnata, esaminate le plurime condotte imputate ai convenuti, e’ infine pervenuta ad accertare la mala gestio dei medesimi con riguardo ad un unico comportamento omissivo: la mancata riscossione dell’ingente credito, maturato in capo alla società amministrata a titolo di canoni per la concessione in uso dell’azienda sociale alla predetta associazione.
Essa ha collocato temporalmente la certezza di tale inadempimento – nell’ambito del potere-dovere di accertamento dei fatti riservato insindacabilmente al giudice del merito – nell’anno 2006: allorquando la società, rappresentata da C.R., in luogo che agire per la riscossione, si limito’ a prendere atto della dichiarazione, resa in una lettera da C.C., sorella del primo e legale rappresentante dell’associazione, di non disporre “neppure parzialmente delle risorse necessarie per adempiere” (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata).
La corte del merito ha accertato, invero, che solo due lettere furono scambiate tra la società e l’associazione, rispettivamente rappresentate da fratello e sorella, entrambe nell’anno 2006, in cui dunque la seconda dichiarava di non poter adempiere ed il primo ne prendeva atto, senza il neppur minimo tentativo di recuperare il credito. Ha, inoltre, precisato che i due fratelli C. gestirono autonomamente la fase esecutiva del contratto, rinunciando al credito vantato dalla N. F. Gym s.r.l. nei confronti dell’associazione, di cui era legale rappresentante la sorella C.C., per il solo fatto che questa aveva manifestato difficoltà economiche a pagare ed omettendo di intraprendere qualsiasi azione recuperatoria; e che essi provvidero, invece, in tale situazione, a proporre l’abbattimento contabile del credito in bilancio, nella riunione del consiglio di amministrazione del 29 giugno 2007, che ne esamino’ il progetto.
Ne deriva, in definitiva, l’applicabilità al caso di specie dell’art. 2476 c.c., nel testo risultante dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003.
4. – Il terzo motivo e’ infondato, nessuna delle argomentazioni in esso profuse cogliendo nel segno.
La corte del merito, dopo avere ravvisato il fatto pregiudizievole nella condotta sopra descritta, ha aggiunto che il nesso causale e’ provato sia dall’esistenza di presumibile liquidità di cassa dell’associazione – posto che sono stati dimostrati incassi 2001-2006 per Euro 1.554.913 e spese per Euro 1.106.205 – sia dal consistente patrimonio immobiliare della legale rappresentante C.C., sul quale la società creditrice avrebbe comunque potuto soddisfarsi ex art. 38 c.c.; inoltre, lo statuto della società, della quale sono amministratori i quattro soci, attribuisce, in caso di parità, la prevalenza al voto del presidente, cio’ palesando come pure il dissenso dei F. sarebbe rimasto irrilevante al fine di intraprendere le azioni di recupero, mentre sono provate, altresi’, le difficoltà frapposte all’accesso ai documenti contabili ed al loro esame da parte di commercialista di fiducia.
Le allegate concordi decisioni – concedere la palestra in uso all’associazione, approvare i progetti di bilancio (come amministratori) ed i bilanci (come soci) dal 2001 al 2005 e non recedere anticipatamente dal contratto di concessione in gestione della palestra – costituiscono, invero, tutti fatti estranei all’affermata responsabilità per inadempimento omissivo, ravvisato proprio nel mancato recupero dei canoni, invece sostituito dalla semplice proposta, nel progetto di bilancio dell’esercizio 2006, della conseguente svalutazione contabile del credito: onde, per tale parte, il motivo si palesa addirittura inammissibile, non cogliendo la ratio decidendi dell’impugnata decisione.
Non coglie, del pari, nel segno il motivo, laddove lamenta la mancata imputazione a tutti i soci-amministratori dell’inerzia della società e la non adeguata considerazione dell’insussistenza di un dissenso formalizzato alla stregua dell’art. 2476 c.c., comma 1: la corte del merito ha ben chiarito come, in punto di fatto, i soci F. fossero stati non adeguatamente informati sulla contabilità sociale e che la clausola statutaria li avrebbe, in ipotesi di voto dissenziente in consiglio, visti comunque soccombenti nelle deliberazioni da assumere, in ragione della previsione – dunque, dalla corte del merito perfettamente esaminata – della prevalenza del voto del presidente in caso di “parità dei voti”.
A fronte di tali compiuti accertamenti in fatto, non sindacabili in questa sede, non giova poi ne’ addurre la violazione dell’art. 26 st. la quale non integra violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo la società soggetto privato, onde il suo atto costitutivo e l’allegato statuto non sono norme di diritto, invocabili dal ricorrente per cassazione sul paradigma del vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto – ne’ ipotizzare che il consiglio di amministrazione potesse essere in concreto da altri presieduto (circostanza destituita di qualsiasi concretezza fattuale, dato che si tratta dei consigli di amministrazione nella realtà svoltisi: e dei quali non viene mai neppure dedotta la presidenza ad opera di soggetti diversi da C.R.), ne’, infine, invocare l’astratta responsabilità solidale di tutti i componenti dell’organo gestorio.
Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 2476 c.c., postula bensi’ la responsabilità solidale di tutti gli amministratori per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, escludendo la responsabilità di chi, esente da colpa ed a cognizione che l’atto si stava per compiere, abbia fatto constare del proprio dissenso.
Peraltro, la regola della responsabilità solidale e, se si vuole, presunta come paritaria in capo a tutti i componenti dell’organo gestorio cede a fronte della prova della concreta insussistenza o ininfluenza della condotta di taluno nella causazione del danno.
Questa Corte ha già chiarito (da ultimo, Cass. 9 novembre 2015, n. 22848) come non si dà imputazione per responsabilità oggettiva in capo agli amministratori di società, posto che, in particolare, gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole antidoveroso altrui ed il nesso causale tra i medesimi, e, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa, i cui caratteri risultano dal nuovo art. 2392 c.c.. La norma, invero, stabilisce che la colpa puo’ consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri, il quale in concreto abbia cagionato il danno, o nel non essersi il soggetto con diligenza utilmente attivato al fine di evitare l’evento, aspetti entrambi ricompresi nel concetto di essere “immuni da colpa”, cui all’art. 2392 c.c., comma 3.
Quando il fatto dannoso sia stato compiuto da un altro amministratore, la colpa concorrente dell’amministratore che non lo abbia direttamente posto in essere – fattispecie omissiva colposa puo’ dunque consistere: a) nella colposa ignoranza del fatto altrui, per non avere adeguatamente rilevato i “segnali d’allarme” dell’altrui illecita condotta, percepibili con la diligenza della carica; b) nell’inerzia colpevole, per non essersi utilmente attivato al fine di scongiurare l’evento evitabile con l’uso della diligenza predetta.
I principi ora richiamati, enunciati con riguardo agli amministratori non esecutivi di società azionaria, possono essere ora estesi all’amministrazione della società a responsabilità limitata.
L’art. 2476 c.c., pone, invero, la responsabilità solidale in capo agli amministratori, con formula piu’ sintetica rispetto all’art. 2392 c.c..
Nonostante alcune differenze letterali (il mancato riferimento alla delega gestoria ed alla circolazione dei flussi informativi all’interno del consiglio; la menzione di atti pregiudizievoli ancora da compiere e non degli atti pregressi), identico e’, tuttavia, il contenuto normativo: si dà unicamente responsabilità colpevole, mai oggettiva, dovendo essa pur sempre essere ancorata almeno all’elemento soggettivo della colpa; alla “cognizione” del fatto altrui va equiparata la conoscibilità; la mera annotazione del “dissenso” non e’ sufficiente, non trattandosi di esenzione formale, ma di sostanziale assenza di colpa, posto che non al mero procedimento di rituale verbalizzazione del dissenso in occasione del consiglio di amministrazione deliberante l’atto dannoso e’ ancorato l’esonero da responsabilità, ma all’effettiva mancanza di qualsiasi colpa, sotto i due profili sopra menzionati.
Come nelle ordinarie fattispecie di responsabilità solidale civilistica, pertanto, anche nell’ambito del diritto commerciale, secondo la disciplina positiva appena ricordata, la regola della responsabilità solidale gestoria non esclude affatto che, sebbene in astratto tutti gli amministratori siano responsabili del danno cagionato alla società, in concreto la responsabilità residui solo a carico di uno o taluno di essi; e che, cosi’ come nell’illecito civile (cfr. Cass. 7 novembre 2013, n. 25058; 25 gennaio 2012, n. 1028; 20 giugno 2008, n. 16810; 21 settembre 2007, n. 19492; 29 aprile 2006, n. 10042; 6 giugno 2003, n. 9103; 20 gennaio 1995, n. 620), la graduazione interna delle responsabilità si operi in relazione all’apporto effettivo di ciascuno alla causazione dell’evento, anche sino ad escluderne interamente quella di alcuno (in tal senso, v. già, con riguardo al testo ante riforma del 2003 ed alla rilevanza in sede di regresso della graduazione delle colpe, Cass. 27 aprile 2011, n. 9384; 11 novembre 2010, n. 22911; sez. un., 30 settembre 2009, n. 20933).
La corte del merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, avendo ravvisato l’omesso recupero del credito quale fatto dannoso di mala gestio, che fu deciso autonomamente, sul piano interno, dai due fratelli C. e che, sul piano esterno, era nella competenza propria del legale rappresentante della società C.R.: condotta omissiva dal medesimo posta in essere, dunque, in accordo con il fratello C.G. e nella ignoranza o in disaccordo, invece, con gli altri due soci ed amministratori; i quali, secondo la corte d’appello, neppure avrebbero potuto utilmente attivarsi, ove pure fossero stati presenti alle riunioni del consiglio di amministrazione nell’esercizio sociale in cui si consumo’ il fatto di inadempimento, sia in ragione del descritto meccanismo statutario di assunzione delle deliberazioni consiliari, sia per essere stati comunque essi tenuti sino all’ultimo all’oscuro della contabilità sociale. Onde ha concluso per l’imputazione esclusiva della condotta integrante la fattispecie sostanziale omissiva in capo ai predetti.
E costituisce principio consolidato quello che l’apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dei fatti, all’accertamento delle condotte pregiudizievoli, alla sussistenza della colpa dei soggetti coinvolti e alla loro eventuale graduazione, al pari dell’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrano altrettanti giudizi di merito, che restano sottratti al sindacato di legittimità, ove informati ad esatti principi giuridici (fra le alter, Cass. 25 gennaio 2012, n. 1028; 23 febbraio 2006, n. 4009; 14 luglio 2003, n. 11007).
5. – Il quarto motivo e’ infondato.
L’esistenza di pagamenti pregressi non costituisce un “fatto decisivo”, ai sensi della norma invocata, in quanto la condotta di mala gestio e’ stata invece inequivocamente ravvisata, come piu’ volte esposto, nella diversa circostanza del mancato recupero del debito alla fine accumulatosi: onde l’esistenza di pregressi pagamenti parziali resta affatto irrilevante.
Quanto all’allegata transazione, che avrebbe comportato l’azzeramento del danno, nessuna simile deduzione ed allegazione e’ permessa nell’odierno giudizio di legittimità (cfr. art. 372 c.p.c.).
6. – Il quinto motivo e’ in parte inammissibile ed in parte infondato.
Mentre resta riservato al giudice del merito l’accertamento relativo all’impedimento del diritto di ispezione dei fratelli F., merita qualche approfondimento la deduzione concernente l’insussistenza di un loro diritto di ispezione, in quanto soci-amministratori.
L’assunto non ha pregio.
L’art. 2476 c.c., comma 2, attribuisce ai “soci che non partecipano all’amministrazione” il diritto di ricevere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali, nonche’ di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi alla gestione societaria.
Ma e’ evidente che il diritto amministrativo, in tal modo concesso al socio di società a responsabilità limitata, dà per scontata l’appartenenza in iure a chi amministra la società di simili, ed ancor piu’ intensi, diritti, in quanto diretti artefici di quegli affari, nonche’ redattori e custodi di quei libri e documenti.
Se dunque il legislatore ha sentito l’esigenza di attribuire espressamente al socio di s.r.l. (a differenza che a quello di s.p.a.) il diritto di ispezione e di informazione sulle vicende e sulla documentazione societaria, cio’ ha fatto in vista della natura personalistica del tipo, nonche’ dell’automatica appartenenza di tali diritti ai soci che abbiano pure la gestione sociale.
Ma cio’ non esclude affatto, ed anzi conferma, che tanto meno potrà essere negato il diritto di ispezione e di informazione a questi ultimi, quale diritto-dovere costituente implicito portato delle prerogative della carica.
Con la conseguenza che, qualora l’esercizio di tale diritto-dovere sia precluso da altri, in ispecie coamministratori o componenti del consiglio di amministrazione, essi potranno agire a loro tutela, facendo valere anche l’impossibilità di diligente adempimento dell’incarico gestorio, ove lasciati all’oscuro delle vicende sociali e, dunque, per la stessa esigenza di adempiervi fedelmente e non incorrere in responsabilità.
Di tale importanza e’ la trasparenza interna nelle società, che il legislatore ha previsto il presidio della sanzione penale all’art. 2625 c.c., per gli amministratori che “occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci o ad altri organi sociali”, intralciando il controllo della regolarità della gestione (cfr., al riguardo, Cass. pen. 27 settembre 2016, n. 47307).
Va, quindi, al riguardo enunciato il seguente principio di diritto:
“Compete anche al socio-amministratore di s.r.l. il diritto, previsto dall’art. 2476 c.c., comma 2, di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri ed i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli altri amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato”.
7. – Il sesto motivo e’ manifestamente infondato.
La corte del merito ha affermato non la necessità di esperire, in via cogente, l’esecuzione forzata avverso la controparte contrattuale, tanto meno sulla base di mere fatture, ma, piu’ semplicemente, l’esistenza di un obbligo, da parte dei C., di attivarsi utilmente, secondo la diligenza della carica, per incassare il credito, invece rimesso all’associazione sportiva amministrata dalla sorella. In tal modo, essa ha fatto corretta applicazione dell’art. 2476 c.c. e delle regole sul dovere di corretta amministrazione gravante sugli amministratori di società.
La seconda questione, pure posta dal motivo, e’ parimenti infondata, ancora una volta isolando la parte ricorrente singole espressioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata (laddove questa reputa scarsamente attendibile “ad un sommario esame” la documentazione contabile dell’associazione circa presunte perdite), per il resto ampiamente idonea a spiegare perche’ la condotta dei predetti amministratori sia causalmente collegata al danno patito dalla società per il mancato incasso dei canoni, dal momento che la corte del merito ha ravvisato l’ampia capacità patrimoniale sia dell’associazione debitrice, sia della sua legale rappresentante, tenuta in solido col fondo comune ai sensi dell’art. 38 c.c.: onde priva di pregio e’ la censura di violazione o falsa applicazione delle regole in materia di prova presuntiva.
8. – Il settimo motivo e’ infondato, con riguardo a tutte le questioni che propone.
Anzitutto, esso si mostra esattamente contrario al corretto principio, espressamente enunciato di recente dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100), ma ampiamente prevalente anche prima (Cass. 4 luglio 2012, n. 11155; 23 giugno 2008, n. 17033; ed altre), pure presso i giudici di merito, secondo cui nelle azioni sociali di responsabilità il danno risarcibile non puo’ essere automaticamente liquidato, neppure dopo il fallimento della società, nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo: chiaro essendo, in verità, che quel criterio puo’ peccare non solo per eccesso, ma anche per difetto, come nelle ipotesi in cui una parte delle perdite di bilancio, per qualunque ragione, sia venuta meno: in definitiva, il solo principio corretto essendo quello secondo cui va imputato, con la migliore approssimazione possibile, all’amministratore inadempiente tutto e solo il danno causalmente ricollegato alla sua condotta, il quale, dunque, ben puo’ non coincidere con l’intera perdita iscritta a bilancio nel momento in cui questo venga esaminato.
La censura di mancata verifica della irreversibile perdita e’ parimenti priva di pregio, dal momento che la corte del merito ha accertato la remissione del debito e la corrispondente iscrizione in bilancio di un fondo svalutazione crediti, a norma dell’art. 2426 c.c..
E’ vero, infatti, che i crediti devono essere iscritti, secondo il testo all’epoca in vigore, anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139, al presumibile valore di realizzo, il quale deve tenere conto del canone generale della “ragionevolezza” della valutazione (o svalutazione) operata, completato da quello dell’idonea giustificazione discorsiva ed informativa, onde si preclude l’iscrizione in bilancio non solo dei crediti semplicemente sperati, ma anche dei crediti certi, liquidi ed esigibili che siano di dubbia o difficile esazione, trattandosi di valutazione oggettiva dei medesimi, la quale potrebbe non corrispondere piu’ al loro valore nominale; e che, in relazione a tali rischi di insoddisfazione, rilevano tutti i caratteri del credito, intesi come i dati significativi capaci di rivelare la probabilità di adempimento pieno, ossia la qualità del debitore, l’importo, la scadenza, le eventuali garanzie, la moneta di riferimento, le esperienze pregresse, ma anche eventualmente condizioni economiche generali o di settore o del paese del debitore, ecc., quali presupposti di fatto cui ancorare la corretta valutazione, tutti caratteri insomma del credito e latere debitoris: onde, a norma dell’art. 2426 c.c., n. 8, “la valutazione in bilancio dei crediti e’ richiesta dal legislatore – pur esistendo, per definizione, un valore nominale espresso in termini certi – in forza della natura stessa del bene, la quale comporta che la concretizzazione del suo “valore d’uso”, ma anche del suo “valore di scambio”, sia strettamente condizionata alla situazione patrimoniale ed economica del debitore e alla sua solvibilità, tenuto conto di tutti gli elementi del credito” (Cass. 18 marzo 2015, n. 5450).
Ma il punto e’ che, come ha ritenuto la corte del merito con insindacabile giudizio di fatto, proprio la remissione del debito all’associazione comporto’ la necessità di quella iscrizione correttiva. Ed e’ altresi’ vero che l’iscrizione contabile e’ la conseguenza, e non la causa, della perdita: ma, appunto, la corte del merito non ha posto l’accento sulla mera iscrizione in bilancio, quanto sulla condotta che la cagiono’.
Circa la natura di debito di valuta in ragione dell’importo determinato del credito non incassato dalla società a causa della condotta inadempiente degli amministratori, si deve ricordare come la distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore ha riguardo non alla natura dell’oggetto nel quale la prestazione avrebbe dovuto concretarsi al momento dell’inadempimento o del fatto dannoso, bensi’ all’oggetto diretto ed originario della prestazione, che nelle obbligazioni di valore consiste in una cosa diversa dal denaro (Cass. 22 giugno 2007, n. 14573; e v. Cass. 30 aprile 2010, n. 10600).
In altri termini, l’obbligazione di risarcimento del danno per l’inadempimento di obbligazioni contrattuali diverse da quelle pecuniarie, al pari dell’obbligazione risarcitoria ex delicto, costituisce debito di valore e non di valuta, in quanto destinata a sostituire la materiale utilità che il creditore avrebbe conseguito in caso di esatto adempimento della prestazione.
Lo stesso si e’ affermato proprio in tema di responsabilità gestoria, posto che il risarcimento del danno, cui sono tenuti gli amministratori verso la società, riveste natura di debito di valore, si tratti di danno emergente come di lucro cessante, ancorche’ il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dell’ammontare dello stesso, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo (Cass. 25 maggio 2005, n. 11018).
In tale genus risarcitorio va, pertanto, ricompresa anche la somma liquidata dalla sentenza impugnata, che costituisce ristoro patrimoniale consequenziale al danno subito, posto che l’obbligazione inadempiuta e’ quella della diligente condotta gestoria, mentre la somma in tal modo andata perduta per la società costituisce il pregiudizio da quell’inadempimento derivato.
Circa, infine, l’omessa detrazione dei crediti per canoni maturati e non riscossi sino al 2005, il motivo e’ manifestamente infondato, posto che la corte del merito ha ben considerato come, con giudizio di fatto, la perdita finale sia imputabile solo ai due soci C..
9. – Le spese seguono la soccombenza. Deve, inoltre, provvedersi alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al rimborso delle spese del giudizio di cassazione in favore solidale dei controricorrenti, che liquida in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% ed agli accessori, come per legge.
Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
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